Al Teatro Vascello di Roma
Cechov a colori
Leonardo Lidi prosegue con "Il giardino dei ciliegi" il suo lavoro su Cechov: l'ammodernamento della realizzazione scenica non compromette il senso di un testo che scarnifica vite e personaggi
Restano nella memoria, per chi come me li ha visti, il Cechov realistico e sentimentale de Il giardino dei ciliegi di Luchino Visconti (1965) e quello tutto bianco e d’atmosfera poetica di Giorgio Strehler (1974) assieme a molti altri, così che la lettura che ne fa ora Leonardo Lidi può essere scioccante, con i suoi colorati abiti casual contemporanei; una recitazione che ha un bel piglio e un ritmo moderni, lontani dalla abituale vena nostalgica; una scelta particolare degli attori che arriva a avere per la governante Charlotta un interprete maschile (Maurizio Cardillo); una forte sottolineatura comica del vaudeville cechoviano con lo sfortunato contabile Semen che pare un divertente e acrobatico Arlecchino, grazie all’agilità, i tempi e la mimica di Massimiliano Speziani, o l’atmosfera festosa, con tanto di cappellini in testa, in attesa di sapere se la tenuta di famiglia è stata venduta.
Lidi è tornato a Cechov, dopo Il gabbiano e Zio Vanja, con Il giardino dei ciliegi, approdato ora al Teatro Vascello di Roma, dopo Milano e Torino e prima di chiudere la tournée a Bologna (9-12 gennaio), passando tra l’altro per Monza (13-15 dicembre), Como (18 e 19) e Viterbo (21), senza contare la maratona dei tre titoli svoltasi il 17 ottobre allo Stabile dell’Umbria, che li produce con lo Stabie di Torino e lo Spoleto Festival.
All’inizio Lopachin, uomo d’affari ricco e di successo, tanto che alla fine si comprerà “Il giardino dei ciliegi” dove suo padre era un misero contadino analfabeta, canta ”ritornerai e scoprirai che nulla è cambiato; riderai, sentendoti sola con la tua libertà” (di Bruno Lauzi) cogliendo quel senso di inquietudine e spensierata incoscienza della nobildonna Ljubov, proprietaria della tenuta ormai gravemente ipotecata e che sta per andare all’asta, la quale torna in Russia dopo cinque anni vissuti in Francia e aver sperperato tutti i suoi averi, con le figlie Anja e Varja.
Tutto è ambientato poi in un palcoscenico senza fondali o arredi tranne alcune sedie, come per concentrarsi sui personaggi e il loro parlare di nulla, argomentare monologando e rimandandosi le riflessioni l’uno all’altro, così che (come in Il gabbiano) Lidi propone una visione e un senso generale direi poco mimetico, con un effetto straniante, evidenziando ruoli e dialogo. E questa essenzialità scenica, come già intuì e sottolineò Giancarlo Nanni nel suo allestimento (2006), può rimandare il giardino e il suo destino a quello del teatro. Così, quando Ljubov va a recitare il suo monologo tra gli spettatori, nel mezzo della platea («Io amo questa casa, senza il giardino dei ciliegi la mia vita non ha più senso. Se proprio bisogna venderlo, allora vendete assieme anche me…») non è difficile pensare che oltre al personaggio, parli l’attrice, del suo lavoro e metaforicamente del luogo in cui si svolge.
Questa sua lettura, che gioca sulla cechoviana esilità della narrazione e la destrutturazione dei personaggi (inizio del teatro moderno, che arriverà così a Beckett) non è meno estrema, anche se sul versante opposto, di quella che vuol puntare sul realismo, dai veri rami con fiori di ciliegio in scena da sostituire ogni volta alla recitazione, di Visconti, e tutte e due hanno una loro ragione e sono da vedere nel proprio contesto storico-culturale. Quella di 60 anni fa paradossalmente faceva per tanti versi ancora parte di quello di Cechov, mentre Lidi opera in un mondo e realtà quasi totalmente cambiata, in cui il teatro fa fatica a vivere, in cui non si tollerano più lentezze, in cui l’alto e il basso hanno perso i propri confini, in cui la realtà è virtuale un po’ come per Ljubov che non riesce a riconoscerla e vive nel suo passato dorato e illusorio, sperperando gli ultimi rubli e sognando il giardino la cui brina brilla illuminato dal sole o dalla luna, al contrario del pragmatico Lopachin.
Qualcosa, certamente, di Cechov, di certe sue sottigliezze di scrittura e passaggi psicologici, va perso. Sul vecchio mondo rappresentato da Ljuba e la sua famiglia, quel loro non rendersi conto di come le cose non siano più quelle di un tempo, in questo ballare, agitarsi e far festa incoscientemente come sul Titanic, si poteva soffermarsi un po’ meno rapidamente e così il fondersi del dramma con la commedia, anche se uno o due momenti più intensi ci sono, grazie alla Ljubov di Francesca Mazza e al Lopachin del bravo Mario Pirello, agitato senza eccedere e intimidito nell’amore inespresso con la Varja di Ilaria Falini.
Il risultato alla fine si rivela così meno provocatorio di come poteva apparire e che tutti nel secondo atto si ritrovino a parlare, invece che attorno a una panchina nel giardino, in costume su una pedana a prendere il sole sulla riva del fiume, non modifica il senso generale. Quello che rappresenta anche il vecchio cameriere Firs (Tino Rossi), sin dall’inizio oramai in sedia a rotelle solo un oggetto della casa, dove viene abbandonato mentre i ciliegi vengono tagliati e si lavora per la lottizzazione: «Si sono dimenticati di me… non fa nulla, io resto qui… Gioventù scapestrata. La vita è passata ed è come non avessi vissuto» e apre un fazzoletto alzandolo lentamente davanti al viso come a tirare il sipario, sulla vicenda e sul teatro.
Le fotografie dello spettacolo sono di Gianluca Pantaleo.