Alla Galleria Nazionale di Roma
Il burka futurista
La grande celebrazione futurista parte bene e finisce male. Dalle suggestioni iniziali si passa a una celebrazione che nasconde la storia. Che, nel caso, chiama in causa il fascismo e due guerre mondiali...
Un tripudio di cifre sigilla l’inaugurazione della mostra sul Futurismo alla Galleria d’arte moderna di Roma e cerca invano di dissipare le polemiche che l’hanno preceduta e l’accompagnano al traguardo. Un milione e mezzo di finanziamenti pubblici, rimpolpati da corposi sponsor privati, un budget da evento internazionale. E oltre 350 opere esposte, tra quadri, sculture, documenti e cimeli della tecnologia d’epoca. “Più di quante ne hanno esposte in una rivisitazione del surrealismo in corso a Parigi, che molta stampa ha preso a modello” precisa con comprensibile orgoglio il curatore Gabriele Simongini per testimoniare l’impresa che si è sobbarcato per arrivare da solo al traguardo, dimenticando di spiegare le interferenze in corso d’opera che lo hanno isolato in questa scomoda condizione.
La quantità sbandierata come surrogato della qualità. Scappatoie da clima e retorica da stato di guerra, che moltiplicano il disagio per chi è venuto qui per farsi un idea in presa diretta e non per schierarsi in battaglia.
Sul palco almeno il ministro Alessandro Giuli ci ha riso su con una garbata battuta da cabaret:“Non potete dire che non ci avete visto arrivare”.
Forse avrebbe sgombrato qualche nube in più se si fosse limitato a scusarsi per il casino che il suo predecessore ha scatenato e in cui lo ha costretto a infilarsi. Prima bocciando per un rigurgito di patriottismo da campanile il progetto, targato Maxxi e accolto dallo stesso Giuli che lo dirigeva, di importare chiavi in mano una mostra promossa dall’Olanda sulla influenza internazionale di Marinetti e dei futuristi. Poi scompaginando il gruppo di esperti, di varia estrazione politica, che lui stesso aveva consultato e messo al lavoro, con i metodi approssimativi rivelati dal caso Boccia, esonerando il critico D’Ambruoso che affiancava Simongini in cabina di regia, e costringendo gli altri a dimettersi. Sua la spinta sui numeri da record che la rivisitazione targata Fratelli d’Italia doveva raggiungere, rastrellando più prestiti possibile, spinta che ha fatto saltare il banco.
Poco male fin qui. Se non altro le polemiche hanno messo a nudo i meccanismi autoreferenziali, le gelosie personali e gli interessi mercantili che governano e imbavagliano in Italia tre comparti chiave del sistema dell’arte: critica, galleristi e collezionisti. Un ginepraio quello dell’arte in cui la politica quando ci si infila come un corpo estraneo, per sfruttarne . indirizzarne o incassarne i rimbalzi sociali, produce solo danni.
Purtroppo neanche Giuli ha resistito alla tentazione di metterci bocca, e dare via libera ad altri compagni di cordata e di gestione ministeriale, come la neodirettrice della Galleria nazionale che ha approfittato della ribalta per sfilare in passerella anche lei rivendicando un’installazione commissionata, forse come paga aggiuntiva, all’art director Lorenzo Marini cui aveva affidato anche il compito non certo urgente di cambiare il logo del museo, da Gnam a Gnamc, con un C che le dà il passpartout di sconfinare nel territorio del contemporaneo. L’istallazione è una fastidosa tendina di riquadri e letterine di plastica dipinta, che secondo l’autore evoca le Parole in libertà di Marinetti e compagni. Non c’è scampo, il visitatore deve attraversarla per raggiungere le altre sale.
Insomma, un’invasione di campo ed anche un vistoso sgarbo al curatore della mostra Gabriele Simongini, che si limita a scrollare le spalle per non accollarsene la responsabilità. Non bastassero quelle che il ministero gli ha scaricato addosso, privandolo del sostegno e del confronto con i colleghi che aveva coinvolto e che avevano cominciato a dar corpo all’operazione. Poteva ritirarsi anche lui. E invece è rimasto, inimicandosi i colleghi che non è riuscito a difendere. Ma soprattutto restando privo del contrappeso prezioso di opinioni e sensibilità diverse.
Un vuoto che a mio avviso la costruzione della mostra accusa. Sfolgorante l’inizio, che era stato pensato insieme; più sommario, apparentemente affrettato, il resto.
Già, che splendido inizio a raccontare la nascita del movimento. Tre pezzi accostati a comporre uno spettacolo che ti raggiunge al cuore e resta impresso anche nella mente di un visitatore più sprovveduto. Parla da sé l’accostamento tra due grandi tele. A introdurre il prima è un paesaggio di Pellizza da Volpedo, maestro del divisionismo, che ha fatto da incubatrice ai talenti del futurismo che verrà: un sole il cui scintillio si alza in un alone di riverberi su un campo di grano. Ed ecco il dopo, datato 1910, firmato da Giacomo Balla: anche qui un cielo, attraversato da bagliori geometrici che inseguono e catturano le traiettorie a fasci intrecciati di un altra fonte di luce artificiale: l’illuminazione elettrica, una nuova invenzione che in quegli anni trasforma il volto delle città. Una profezia di futuro che accende e incanala la fantasia e la voglia di cambiamento di quel drappello di pittori che Marinetti, dopo la pubblicazione del primo manifesto a Parigi, ha riunito e messo al lavoro.
Un balzo epocale per l’Italia: dall’economia contadina alla rivoluzione industriale: lo spiega con grande chiarezza una didascalia ingigantita. Ma lo dice ancor meglio lo strumento che l’allestimento deposita ai piedi delle due tele. Una lampada ad arco. Che buffo e piccolo attrezzo fa da innesco a questa esplosione. Visto oggi ci appare come un monumento in macerie, una scoria di un tempo remoto. Quasi un monito sull’impalpabile energia che l’avanzare della tecnologia camuffa oggi in altre forme, altre modalità invisibili d’uso, nascondendocene le insidie.
Non guardano per il sottile ai pericoli i futuristi, quel che conta è il progresso che la tecnologia promette, il movimento che imprimono al presente e che loro, gli unici in grado di fissarne le immagini, possono cavalcare per demolire le prigioni, le accademie e le abitudini del passato.
Un matrimonio con il movimento che le prime sale della mostra documentano, prima di dare voce agli artisti, con altri fascinosi cimeli d’epoca, sgranati lungo il percorso.
Ecco la goffa e minacciosa sagoma a siluro della Maserati che Tazio Nuvolari guidava al trionfo, monumento al dio della velocità. Ecco le buffe casse di legno delle macchine intonarumori con cui Luigi Russolo, punta di diamante degli esperimenti pittorici, impone una nuova geometria alla scrittura musicale, sostituendo l’ordine e l’armonia delle notte con i suoni e gli echi stridenti che registrano le voci della vita di strada. Ecco in una terza sala il corpo di un rosso squillante di un velivolo anni trenta, un idrovolante capace di raggiungere i 700 chilometri orari, record che dicono ancora imbattuto. Quale presentatore migliore per introdurre l’ultima grande avventura del futurismo, capace di rigenerarne la fama e riaccenderne la fantasia di avanguardia.
Grande e contagiosa scintilla inventiva la pittura aerospaziale. L’ebrezza del volo e della visione dall’alto esaltata alle pareti dai quadri di Dottori, Crali, Prampolini. Una grande vittoria della fantasia, negli anni i cui in Italia e in Europa l’arte imboccava la strada del ritorno all’ordine. Ma qui il copione ben governato della mostra salta a mio avviso completamente, proseguendo in capitoli più sommari, accavallati e imprecisi. Rivelando il tallone d’Achille, impresso a questa mostra dalla logica della politica che l’ha promossa: la voglia di fondare la propria vittoria rivendicando la vittoria ad ogni costo. Anche al prezzo di vistose e imperdonabili rimozioni, che demoliscono in modo stridente il titolo con cui viene battezzata l’iniziativa: Il tempo del futurismo.
Rimosso il trauma di due guerre, che pure sono gli spartiacque di quel mezzo secolo breve. Neanche una citazione a ricordare lo slogan di Marinetti, la guerra igiene dei popoli, che oggi fa rabbrividire. Perché annoiare e spaventare il visitatore? Perché ricordargli che gli anni del futurismo combaciano con quelli del regime fascista? In un alternarsi di adesioni, ritirate, ripensamenti, rinunce che scandiscono la carriera di Marinetti, fino ad imprigionarlo in un titolo di accademico, che tanto lo impensieriva. E lo stesso vale per Mussolini. A ricordarlo su trecentocinquanta opere n’è solo una, quel capoccione seghettato ad ogiva, battezzato con un titolo che sa di involontario sberleffo, testa di razzo.
Neanche un cenno al sostegno decisivo per scalare le vette della fama esercitato da Margherita Sarfatti, critica senza paraocchi e amante del duce. Sarebbe troppo imbarazzante dover ricordare che era ebrea, e che il suo allontanamento e la sua fuga all’estero coincidono con l’emanazione delle leggi razziali?
Con trecento cinquanta opera a disposizione, e 4000 metri quadri da riempire, non è errore scusabile. E continuo a pensare che col sostegno di un vero comitato scientifico, Simongini. storico che ho sempre apprezzato, non avrebbe imposto alla Storia del Futurismo, questo burka da talebani.
Peccato, un’occasione persa. Ormai il futurismo è indagato in tutti i suoi aspetti e le sue ombre senza pregiudizi. Non era il momento giusto per siglare con questa megamostra un accordo di pace? Purtroppo non sembra la strada che questo governo, barricato in un vittimismo di comodo – lo stato di guerra legittima qualunque abuso – è in grado di seguire.