Danilo Maestosi
Due mostre da vedere a Roma

L’arte è una prigione?

Beatrice Cignitti e Marilisa Pizzorno: due artiste diverse ci guidano a una riflessione sull'arte. Sulla chi ci dà la possibilità di “abitarla” e chi la rinchiude in sé stesso

Penso che per un artista, quella che abitualmente chiamiamo forma sia un punto d’arrivo a cui ambire per dare corpo alle proprie intenzioni, riconoscersi e farsi riconoscere, ma anche una prigione. Non troppo diversa dalle tane cui ci costringe tutti il mestiere di vivere. Un rifugio per proteggere la propria fragilità, che un autore in preda al suo io narciso finisce per imporre anche a chi guarda i lavori che espone e sottopone a giudizio. Un modo, a volte imperativo e soffocante, che scoraggia ad impadronirsi del messaggio e perpetuarne dentro di sé il racconto. Un’esperienza di verità che si specchia e si invera in una visione del mondo diversa per ogni osservatore, anche il più complice e attento. Ogni opera d’arte è o ci sembra dunque riuscita quanto più riesce ad essere un’opera aperta, che si lascia abitare, arredare da altri pensieri e altre emozioni.

Più facile a dirsi che a farsi Se la chiave d’accesso alla loro casa che gli artisti ci lasciano sotto la stuoino – può essere il titolo riassuntivo di una mostra, o quelli che battezzano i singoli lavori di quel ciclo, una data, una didascalia, un saggio introduttivo, etc. – non si accompagna ad un’accoglienza adeguata. Comodi o scomodi che ci sentiamo, ma liberi di fare, trovare odori e sapori, reazioni in quel che ci piace.

Ancor più difficile se deleghiamo del tutto il compito alla guida di un critico specializzato, che in genere è abituato a usar come bussola esclusiva il rimando o l’inquadramento di un’opera e di un autore, in un panorama iconografico, in una corrente, una bottega o una scuola, che lo precede o l’accompagna, piuttosto che avventurarsi nel territorio impervio della vita vissuta in tutte le sue difficoltà e i suoi trabocchetti.

Cito ad esempio un’esperienza recente e del tutto personale, Mi è successo visitando la mostra del Guercino alle scuderie del Quirinale, quando ho cominciato a interrogarmi sull’handicap che quel geniale manierista emiliano si trascinava appresso, un difetto di vista, a cui gli esperti non sembrano dar peso. E a chiedermi invece quanto può aver influito sul suo modo di rappresentare il mondo. Di scegliere le inquadrature, dosare segni e colori, mettere in scena le figure delle sue allegorie. Ecco, lì ho trovato la chiave che per la prima volta mi ha rivelato, mi ha fatto toccare con la pancia e con gli occhi il senso di originalità della sua arte: l’uso della luce, la stesura dei contrasti cromatici, la gestione degli sfondi, la collocazione sulla scena dei personaggi che rappresentava, la meraviglia e il consenso che ha suscitato la sua apparizione sulla ribalta di una città, abituata ai pittori di eccezionale talento, come la Roma di papa Ludovisi.

Certo, è un prezioso ausilio sapere da chi un artista ha tratto ispirazione, con chi ha studiato il mestiere, a chi ha preso in prestito o rubato un tratto del suo stile. Ma è una rotta che garantisce soprattutto il piacere rassicurante del riconoscere, E in gran parte ci nega il pacere spaesante del conoscere: provare l’attrazione fatale di una prima volta.

Sono le riflessioni che metto in fila per provare a raccontare due mostre

che riportano sotto i riflettori due artiste di talento ma non certo di prima fila. , che rischiano di scivolar via nella piena impetuosa di eventi di questo scorcio di stagione romana, e nella frenesia del Natale alle porte: Beatrice Cignitti, romana, media borghesia, single e madre di una figlia, vicina alla soglia del 60 anni, che espone un’antologia di lavori più o meno recenti al museo Andersen di Roma (una sua opera nella foto accanto al titolo); e Marilisa Pizzorno, bresciana di famiglia benestante, vedova e madre di 4 figli, vicina agli ottanta anni, trapiantata nella capitale, che ha messo in passerella una trentina di opere dell’ultimo ventennio nella galleria Arte puls di viale Mazzini.

Sono e due autrici che hanno cercato di esorcizzare in modo diverso la loro fragilità di donne di fronte alla durezza dell’impatto con il mondo e alle difficoltà di farsi largo nel sistema cinico e mercantile dell’arte. Battaglie condotte imponendosi la maschera di un pudore caparbio che le accomuna, e i punti di fuga di soluzioni di forma in sintonia con le proprie debolezze. Nessuna delle due ha raggiunto fama e popolarità, ma entrambe sono approdate ad uno stile, fuori dai territori delle mode, che le rende inconfondibili.

Beatrice Cignitti si è rifugiata nella scelta di una tecnica di pazienza e fatica certosina che non fa cassetta con il disegno. Rare e ormai abbandonate le incursioni nel colore. Solo il bianco e nero dei segni impressi dalla graffite sul foglio. A inseguire i misteri della luce e dell’ombra. Una maestra di disegno così stimata da conquistare una cattedra all’Accademia di Frosinone, dove insegna a ritrarre dal nudo, pratica di base ormai fuori moda. Un posto fisso e un lavoro che hanno cambiato la scelta dei suoi temi., senza però indirizzarla verso una raffigurazione in presa diretta del corpo. Chissà, magari il suo timore di farci davvero i conti: con questo lato oscuro della sua femminilità, di pelle, viscere e ossa.

Prima, lavorando in casa, ritraeva soprattutto gli oggetti che si trovava davanti. Fiori, suppellettili, vasi, lampade, souvenir. Nature morte che accendeva di vita, illuminandole dall’interno con uno scintillio improbabile e pervasivo, energia e forza strappata di fantasia alla loro esistenza inorganica. Poi ha cominciato a concentrarsi, con la stessa tecnica, sulle opere di grandi maestri della scultura che più ammirava. Michelangelo e Rodin su tutti. A rimodellare i loro modelli. Corpi di pietra o di legno al posto di corpi veri, riletti come forme parlanti tradotte in altre forme. All’inizio come fantasmi, ombre che spuntavano fuori da altre ombre. A mio avviso le sue opere più riuscite. Poi il gioco l’ha trascinata oltre. Verso il bisogno di specchiare sé stessa in quella esperienza di trasmutazione. Impresa ardua perché la riservatezza e il controllo che riserva al suo corpo e alle sue pulsioni appaiono per ora come uno scudo quasi inscalfibile. Che a volte genera grazie ed incanto, come nell’intreccio di mani rubato a Rodin, ma altre volte si perde in una trasmutazione barocca di superficie: come nel disegno che rimpasta con aggiunte di ghirlande e un arrotondamento di superfici, le impressioni di smarrimento che ha provato di fronte ai gessi e ai bronzi, impacchettati per un restauro dello scultore norvegese Andersen, di cui ha invaso per la sua mostra l’abitazione romana al Flaminio, diventata museo.

Succede quando la forma diventa una gabbia, da cui si stenta ad evadere. A vedere davvero il fuori e il dentro. Perché a dar voce ai capolavori che tanto ammira è l’intensità con cui penetrano sotto la pelle, la torsione dei muscoli verso l’invisibile, imperfetta, sporca vita del sangue, dei nervi. Avventura che Beatrice Cignitti per ora non riesce a concedersi.

Comunque una caduta d’artista. Che ci contagia con il proprio malcelato e inconfessato malessere. Tiratemi fuori. Tiratevi fuori da qui, sembrano implorare i suoi occhi che ha avvolto nel buio, nell’unico autoritratto che ha deciso di esporre.

Molto più complicato, quasi impossibile, evadere dalla prigione iperreale che Marilisa Pizzorno si è costruita per incastonare il suo visionario talento e la sua difficoltà di affrontare la timidezza e i propri difetti di empatia. Il destino e il corso dell’umanità confinato in una sorta di zoo popolato di zombies, che da una quarantina d’anni continua ad osservare e dipingere. Parvenze di uomini e donne, corpi giovani ridotti a puri volumi di cera, asessuati, glabri, senza capelli, occhi spenti, labbra e volti senza espressione, che si muovono tra le geometrie e le quinte architettoniche di un villaggio formicaio, affacciato su un mare senza onde e un cielo d’aria celeste. Balzano, si arrampicano e si affacciano in bilico su piattaforme levigate, appagati a volte da quel gioco di cattività condivisa. Ma irrisolti come robot, a cui è stata asportato ogni dna di rivolta. Qualcuno ci ha letto una denuncia dei rischi di sopraffazione dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi. Io ci vedo solo una pacata sceneggiata del disagio di vivere. L’unico verso scarto dal copione emerge dalle ultime opere. Una ritrae un carrello di corpi ammucchiati, scomposti e sfibrati. Esausti, li definisce il titolo. Una discarica di cimeli senza più maschere d’appeal. L’altra opera è una grande tela datata 2023, in cui per la prima volta quel mare sempre placido sullo sfondo appare increspato in tempesta, le impalcature del villaggio hanno ceduto, i corpi-fantocci li usano come zattere per non annegare. A imporre il cambio di scena è una tragedia personale che ha colpito l’autrice, la morte di un figlio.

L’altrove, realtà dell’esistere: tenta di riassumere un titolo che battezza la mostra. Ma può esistere l’Altrove, se l’Altro, chiamato ad abitarlo o a rifondarlo quel luogo di sogno, è assente, o deprivato della possibilità di manifestare dolore e sgomento? Me lo chiedo con impazienza e profondo scontento, registrando negli specchi dell’oggi il virus della rassegnazione che mi sembra dilagare, la disumanità di un mondo che arranca difendendo il miraggio di un egoismo di massa. Un deserto che rischia di inaridire anche l’arte di tradizione, chiusa entro orizzonti succubi o patteggiati, ogni ambizione di cambiamento delegata a false paure.

Non è una bocciatura. Anche testimoniare la propria impotenza è un passo avanti. Se una mostra lascia dentro questa carica di emozioni insoddisfatte, vuol dire che comunque ha aperto in quella eccentrica cella da ergastolo una breccia di evasione che sembrava invisibile.

Facebooktwitterlinkedin