Un racconto "malese"
Affaristi a Kuala Lumpur
«Nei successivi sei mesi, Kurt e Angelo vissero a Kuala Lumpur fianco a fianco. Kurt discuteva coi rappresentanti del sultano, alla ricerca di un accordo sulle quote di partecipazione e la governance della joint venture...»
Kurt Marinelli doveva il nome al ramo materno, tedesco di Amburgo, di un’antica famiglia d’armatori; e il cognome al padre, romagnolo di Cervia. Era un bell’uomo: statura imponente, lineamenti virili di stampo teutonico, zigomi alti, fronte spaziosa sormontata da una capigliatura folta e candida, come incanutiscono a volte i biondi. Sola nota distonica in questo volto nordico, quasi vichingo: due occhi bruni, mediterranei, dallo sguardo avvolgente e malandrino. Sedeva nel board della Compagnia col titolo di senior vice-president, uno dei tre o quattro direttori anziani, dotati di ampie procure e poteri di firma, che vanno in giro per il mondo a caccia di progetti. Tessono la rete che serve a catturarli, portano la mosca al centro della tela e poi la lasciano a ragnetti meno esperti perché la divorino. Loro a quel punto se ne disinteressano, vanno altrove a tessere per catturarne un’altra.
La mosca in questione era una diga sulle alture di Cameron Highlands, Malesia peninsulare. La rete era articolata in un fitto intreccio di relazioni che aveva un capo saldamente ancorato alla famiglia reale di Pahang – uno dei nove sultanati che compongono la federazione malese – e l’altro fissato ai piani alti dell’ente elettrico federale. In mezzo, ad assicurare la tenuta della tela, c’era Mr O, l’uomo che Kurt presentò ad Angelo quella sera. L’elemento intelligente del sistema, lo snodo attivo che distribuiva stimoli e ammortizzava tensioni lungo le maglie malesi della rete.
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Quando gli dissero che avrebbe accompagnato Kurt in Malesia, Angelo ne fu felice. Era da un po’ che tentava invano di allontanarsi dall’Africa, il continente di tutti i suoi progetti, dove aveva fatto carte false per andare, a inizio carriera; ma che adesso, anni dopo, pareva diventata una gabbia da cui, una volta entrati, non s’ha più modo d’uscire. Quel contratto malese era forse l’occasione buona. Inoltre c’era il fattore Kurt, era una fortuna lavorare con lui. Un pezzo da novanta della Compagnia, nessuno, nel board, aveva i suoi numeri quanto a portafoglio lavori, fatturato, marginalità, eccetera. Per capacità di penetrazione in paesi nuovi, fiuto nello scovare affari e pelo sullo stomaco nel perseguirli, Kurt era il migliore. Quell’istinto innato del cacciatore che gli veniva certo dal ramo materno della famiglia.
A quello paterno doveva l’altro talento per cui andava famoso: le donne. All’epoca di questa storia Kurt Marinelli s’avvicinava ai settanta e la sua reputazione negli affari era in declino. Ma quella di tombeur de femmes era ancora viva, malgrado l’età. Viaggiava molto: Africa, Paesi Arabi, Estremo Oriente, Russia, Cina, Sud America. E in qualunque posto mettesse piede, sosteneva d’aver sempre avuto un’avventura la notte stessa dell’arrivo. Era un buon viatico, a suo dire, per concludervi buoni affari.
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L’incontro con Mr O avvenne all’Hilton Central, giusto accanto alla stazione d’arrivo della ferrovia leggera che dal KL International Airport porta in città. Mr O era un piccoletto magro e nervoso, sulla sessantina, un malese di etnia cinese con baffi e barbetta sale e pepe che incorniciavano un volto a prima vista straordinariamente somigliante a quello del maestro Miyagi di Karate Kid. Li aspettava al bar della hall e una volta fatte le presentazioni li condusse in una lounge riservata all’ultimo piano, dove poterono parlare. Il direttore dell’hotel – Sumimoto-san, un giapponese residente da anni a Kuala Lumpur – venne a salutare e a sincerarsi che i due westerners fossero ben accolti. Riempì Kurt e Angelo di attenzioni, si capiva subito che lui e Mr O erano amiconi.
L’Hilton Central – che in realtà non è affatto in posizione centrale, sta un po’ fuori dal business district, è più vicino alla zona residenziale di Bangsar – occupa una delle torri di un grattacielo bicipite, uno dei tanti che affollano lo skyline di KL. La torre gemella ospita il Méridien. I due alberghi condividono la parte bassa dell’edificio, un avancorpo coperto da una sorta di giardino pensile affacciato sull’intreccio di sopraelevate che, una trentina di metri sotto, fendono la distesa di casupole della città vecchia. Lungo la fascia centrale della terrazza serpeggia una piscina disseminata di giochi d’acqua e angoletti kitsch stile Las Vegas.
Fecero la loro riunione e si dissero quel che avevano da dirsi. Il tema dell’incontro, l’UJ Pumped Storage, era un progetto nel nord del Paese. Un impianto idroelettrico con centrale in caverna, una trentina di chilometri di gallerie, due bacini idrici a monte e a valle della diga e varie opere annesse. Grazie a Kurt, la Compagnia era stata scelta tra vari candidati europei e asiatici per associarsi con un’impresa locale riconducibile alla famiglia del sultano, formare con essa una joint venture e negoziare poi a trattativa diretta con l’ente elettrico federale il contratto per la progettazione e costruzione dell’opera. Nessuna gara, nessun competitor, la concorrenza internazionale era già battuta. Occorreva solo: a) proporre un prezzo che l’ente elettrico federale fosse disposto a pagare; e b) mettersi d’accordo col partner malese, la società del sultano, perché in quel prezzo fossero inclusi i suoi interessi. C’erano memorandum d’intesa da negoziare e trasformare in contratti. Poi naturalmente c’era l’opera, da progettare, organizzare e costruire, roba che avrebbe richiesto un sacco di tempo e un sacco di lavoro. Ma, a detta di Kurt e di qualunque altro commerciale come lui, il più era fatto. L’accordo di principio che assegnava alla Compagnia l’esclusiva era firmato.
Nel corso della riunione, che durò un paio d’ore, una bellissima ragazza malay in kebaya s’affacciò a servire il tè. Aveva i lunghi capelli neri avvolti in un’elaborata acconciatura alta sulla fronte e fermata alla nuca da un fiore rosso, carnoso, dai petali larghi e vistosi. Faceva pensare al richiamo di una pianta carnivora. Il suo kebaya somigliava a quelli indossati dalle hostess della linea aerea che li aveva portati fin laggiù, ma era di tessitura più fine ed era tinto a colori più vividi. La ragazza s’inginocchiò e versò il tè con certi gesti aggraziati e autorevoli, che invitavano e intimorivano al tempo stesso. Un’aura rituale a metà tra la sacerdotessa e la geisha.
Quando la discussione finì Mr O si offrì di portarli a cena, ma Kurt declinò.
“Mi dispiace,” disse. “Ho un appuntamento.”
Angelo e Mr O lo guardarono interrogativi.
“La ragazza del tè,” accennò Kurt. “Mentre lo versava mi ha passato questo.”
Mostrò il biglietto, scarabocchiato a biro su un foglio di taccuino a quadretti: ‘Stop work at 9:00 pm, pls call me.’ Seguiva un numero di telefono. Non troppo raffinato, come billet doux, ma sintetico e chiaro.
Altre scuse per rifiutare l’invito a cena avrebbero probabilmente offeso Mr O, ma questa lo divertì. Conosceva quella debolezza dei westerners. Forse – si disse Angelo, per mitigare lo smacco che Kurt gli aveva appena inflitto – il biglietto della ragazza era una sorta di benvenuto che Sumimoto-san aveva organizzato per onorare il membro senior della delegazione westerner. Quanto a lui, membro junior… mentre Kurt si ritirava in camera per il suo tete-à-tete con la ragazza in kebaya, Angelo, rodendosi d’invidia, s’avviò al proprio con Mr O.
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Separandosi, davanti agli ascensori, fece un sommario bilancio di quei primi giorni passati con Kurt. Un rapporto non facile. Sul lavoro, Kurt era aggressivo, veloce, molto esigente. Come i rapaci, vedeva le cose da lontano, e prima degli altri; e pretendeva che fatti e persone sui quali esercitava del potere s’adeguassero all’istante alle sue decisioni, saltando i passaggi intermedi che avrebbero forse consentito loro di condividerle. Arrogante e sbrigativo, troncava sul nascere qualunque discussione. Il fatto che tutti gli obbedissero, in azienda, lo considerava una naturale conseguenza della sua abilità nel condurre gli affari e non aveva alcun interesse, per lui, il confine tra questo talento e la prepotenza. Era dura, lavorarci assieme.
L’ascensore li scaricò nella hall. L’Hilton e il Méridien pullulano di ristoranti. Avrebbero potuto cenare lì, con Mr O, in uno dei tanti locali asiatici o internazionali disseminati per l’albergo. Una cosa rapida, per poi andare a letto presto e riprendersi dalle fatiche del viaggio: Roma-KL via Amsterdam, undici ore di volo più un paio d’intermezzo a Schipol tra un volo e l’altro. Era stanco morto e avrebbe poi dovuto alzarsi all’alba, la mattina dopo, e partire per Cameron Highlands, quattr’ore di strada fin nel nord del Paese, per andare a dare una prima occhiata al luogo della diga.
Ma Mr O aveva altro in mente. Lo guidò fino al garage privato che aveva nel sotterraneo, dove un autista in livrea tenne aperta la portiera di una gigantesca Bentley dai vetri oscurati. Appena fuori dall’intreccio di rampe e viadotti che dalla collinetta dell’Hilton scendono ai quartieri bassi, s’infilò in un dedalo di viuzze tortuose, costeggiate di casupole in legno fittamente assiepate lungo un intrico di vicoli acciambellati gli uni negli altri. I quartieri popolari, sotto l’altura di Bangsar. Sboccarono in una piazzola fiocamente rischiarata da lampioncini ad altezza d’uomo, dove sorgeva una baracchetta sormontata da un’insegna in cinese. Da un comignolo si levava del fumo. Tutt’attorno erano sparsi tavoli occupati da malesi di etnia cinese. Non si vedeva in giro nessun occidentale. Le stoviglie sbeccate dall’aria non troppo pulita e il tavolo malamente apparecchiato con una tovaglia bisunta, erano contraddetti da una bottiglia di Sassicaia piazzata in mezzo, su un vassoio d’argento. Un gran vino toscano, laggiù. Mr O diede all’inserviente istruzioni per la cena. In seguito avrebbe imparato a orecchiare quella lingua ibrida, un misto di bahasa e mandarino.
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Fu durante quella serata, al suo primo arrivo a Kuala Lumpur, che cominciò a scoprire quel tipo. O, per meglio dire, alcune delle molteplici facce di quel tipo: gli sarebbero occorsi mesi per aprire una dopo l’altra le scatole cinesi – a sorpresa e dai contenuti in apparente contraddizione tra loro – che componevano la sconcertante personalità di Mr O. Il Sassicaia proveniva dalla sua riserva personale, pareva fosse un grande intenditore di vini. Viaggiava in macchine di lusso e beveva vini pregiati, però vestiva in modo sciatto: una frusta camiciola, calzoni logori un paio di taglie più larghi del dovuto, saldali ai piedi nudi: a incontrarlo per strada, lo si sarebbe preso per un inserviente. Accoppiava modi rozzi all’ostentazione di un lusso sfacciato: estrasse di tasca un tagliasigari d’oro massiccio incrostato di pietre, prese da una custodia di cuoio un enorme Cohiba, lo incise, gliene offrì metà e s’accese la sua. Un piccolo mafioso del far-east cui Kurt dava molta importanza, a suo dire era quell’ometto la chiave del sistema. Aveva mani impazienti che non stavano mai ferme; il volto, però, era impassibile: una maschera orientale che non lasciava trasparire alcuna emozione. Si dichiarava ‘un fuggiasco da scuola’ ed effettivamente il suo livello d’istruzione doveva essere piuttosto basso, per come Angelo gli sentì parlare e poi gli vide scrivere l’inglese. Eppure rappresentava il principe ereditario di Pahang, futuri regnanti s’affidavano a uno così per trattare affari. Uno strambo, inquietante mezzano di lusso. I sigari costosi, i vini di pregio, le auto lussuose accoppiati a bettole di basso rango, vestiario e maniere da guappo, erano fumo negli occhi. Non frutto di vanità, no: c’era della sostanza dietro, e della sostanza pericolosa. Mr O giocava a darsi arie da riccastro e da connaisseur – una versione senile di fighetto – ma era un pescecane. Un aggressivo uomo d’affari che mira al sodo.
Comunque lo fece mangiare molto bene, quella sera. In quel postaccio dall’aria dimessa, quattro tavoli scalcinati in una piazzetta semibuia di un quartiere popolare, assaggiò piatti che non avevano niente a che fare con quel che aveva provato in occidente. Una gran cena, la prima lezione orientale che gli fu impartita da Mr O e che si protrasse fin oltre mezzanotte.
Sperava di potersene andare a letto, dopo, ma la serata non era che agli inizi, Mr O era un animale notturno. In seguito imparò a non cercarlo mai prima di mezzogiorno, per lui era quello l’inizio di una giornata, a suo dire interamente dedita al lavoro, che si protraeva fin quasi all’alba: rincasava di regola verso le quattro del mattino e nell’arco di quelle quattordici-quindici ore, mescolava senza soluzione di continuità intrattenimento e affari, era il suo modo di lavorare.
A uno che si occupa di relazioni, non serve un ufficio. Mr O era un frequentatore di quasi tutti i club di lusso e delle lounge dei migliori hotel esistenti in città, dove tesseva le sue tele d’incontri e all’occorrenza discuteva affari; passata la mezzanotte, l’ultimo scorcio di nottata lo trascorreva allo Zeta Bar, il night club con musica dal vivo dell’hotel Hilton, dove aveva un tavolo riservato ai piedi del palco. Tutti a KL sapevano che dopo una cert’ora lo si poteva trovare lì.
Lo portò quindi allo Zeta Bar. Angelo non era mai stato un frequentatore di night club. Ma in quel periodo a KL, con Mr O, lo divenne per forza. Gli pareva impossibile che si potesse fare del lavoro in quel fracasso, coi decibel che sfondano i timpani e una folla di corpi che si dimenano a pochi centimetri dai tuoi piedi. Ma per Mr O quello era effettivamente lavoro. Già quella prima sera, mentre continuava a bere e a farlo bere, ricevette al tavolo due o tre personaggi – un occidentale che risultò poi essere un austriaco; e una coppia di orientali di pelle scura, probabilmente indiani – coi quali evidentemente aveva delle trattative in corso. Non discussero nulla, ma quel modo d’incontrarsi, di passare un’ora insieme in uno dei ritrovi notturni più in voga a KL, era lavoro. Mr O seminava nelle lounge degli alberghi, sui green di golf, nei ristoranti e nei night club. Poi, a tempo debito, arrivava il raccolto.
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Riuscì a staccarsene solo alle due del mattino e dopo quattro ore scarse di sonno partì per Cameron Highlands, nel nord del paese. Vi rimase per cinque giorni, a ispezionare i luoghi della diga, familiarizzarsi col posto, incontrare fornitori e possibili subappaltatori. La sua parte del lavoro. Quando tornò a KL, s’apettava di trovare Kurt con le valigie pronte e in procinto d’andarsene, dopo aver chiuso le trattative con Mr O e firmato i contratti con la società del sultano e con l’ente elettrico federale. Invece lo trovò ancora disordinatamente accampato nella stanza dell’Hilton, con le valigie sfatte e tutta la sua roba sparsa in giro, in uno stato di profonda prostrazione.
“Quell’ometto è un demonio,” disse. Non si rivolgeva a lui; parlava tra sé, lo sguardo perso, tutta la sua aggressività e sicurezza svanite. A quanto pareva, le due facce di quei mezzi accordi – il memorandum d’intesa con l’ente elettrico e quello con la società del sultano – non combaciavano. Erano sorte delle difficoltà. L’ente elettrico federale non era più intenzionato a spendere per il progetto i soldi che la Compagnia chiedeva. E la società del sultano – lo stuolo di piccola nobiltà e tirapiedi minori che, assistiti da Mr O, trattavano per lui – pretendeva una fetta maggiore di quanto inizialmente pattuito e intendeva dire la sua in tutte le decisioni, non era affatto disposta a lasciare la conduzione dell’opera al socio di maggioranza. “Dietro tutto questo c’è Mr O, lo so…” borbottava Kurt, caduto in una trappola malese.
S’era consultato con Roma e aveva ricevuto dal board l’incarico di restare a Kuala Lumpur a negoziare a oltranza, qualunque fosse il tempo necessario. Probabilmente era stato maltrattato al telefono dai padroni. Il consiglio di famiglia che presidiava il board della Compagnia era molto generoso in lodi ed emolumenti verso i suoi direttori che portavano un successo. Ma se ne dimenticava subito, ne scordava anche dieci di fila, al primo insuccesso. E sapeva compensare all’istante la generosità nelle vittorie con un’egual misura di crudeltà nelle sconfitte. Un modello imperiale di comando.
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Nei successivi sei mesi, Kurt e Angelo vissero a Kuala Lumpur fianco a fianco. Kurt discuteva coi rappresentanti del sultano, alla ricerca di un accordo sulle quote di partecipazione e la governance della joint venture. Angelo lavorò con gli ingegneri dell’ente elettrico federale a una revisione generale del progetto volta a scovare sacche di ridondanza, asciugare, tagliare tutto ciò che, senza compromettere la funzionalità dell’opera, consentisse di portare il suo costo a una cifra che l’ente elettrico federale fosse disposto a sborsare e la Compagnia ad accettare per costruirla.
Quei sei mesi di convivenza furono più interessanti dei primi giorni. Indebolito dalla sconfitta e bisognoso d’aiuto, Kurt era un po’ meno imperioso e distante, il rapporto con lui migliorò. E questo, anche in virtù dell’assoluta sopravvalutazione di sé, dell’esagerata fiducia in se stesso, ben poco scalfita dal momentaneo rovescio. Ne aveva solo intaccato l’umore, un trascurabile risvolto emotivo, ma non aveva scosso la sua convinzione d’essere il migliore. Se quelli di Roma lo lasciavano alle prese col problema, era perché solo lui poteva risolverlo. Se non ci riesco io non ci riesce nessuno, questa la lettura di Kurt.
Quel temporaneo mix di tristezza e delusione con una persistente incrollabile presunzione, ne faceva una persona più piacevole. In sei mesi di convivenza strettissima, Angelo non colse mai in lui un sussulto di rabbia, non lo sentì parlar male di nessuno – un avversario nella trattativa, un collega a Roma, un qualunque conoscente comune, lo stesso Mr O, suo diretto rivale – non lo sfiorò neppure l’idea di dare a qualcun altro la colpa delle avversità. E questo perché Kurt si sentiva talmente superiore a tutto e tutti – a quelli di Roma, a Mr O, alle sue stesse sconfitte – da essere immune al rancore e alla rabbia, alla maldicenza o all’invidia. Non erano fatti che dipendessero da altri, solo da sé e dal suo destino. E in quella fase di difficoltà, non s’attaccò al proprio status, non commise l’errore di rifugiarsi in vecchi successi, nell’illusione di ridarsi fiducia. Angelo non lo sentì vantarsi una sola volta delle imprese passate. Per essere più esatti, non lo sentì mai vantarsi di nulla, e anche questo per la stessa ragione: Kurt si sentiva talmente al di sopra di tutto e tutti che non aveva nessun senso, per lui, mettere in mostra se stesso; non aveva necessità di ostentare una superiorità che nella sua mente era un dogma indiscusso, cui non occorre dimostrazione. E avere a che fare con una persona che, quale ne sia la ragione, non è mai né rabbiosa, né invidiosa, né maldicente, né vanitosa, è di per sé qualcosa di raro. Ci vuol poco ad andare d’accordo con uno così, era una compagnia amabilissima.
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L’immunità a questi difetti comuni, Kurt la doveva all’alta opinione che aveva di sé. Ma c’era un altro risvolto di quest’aspetto del suo carattere, più operativo ed efficace per gli scopi della Compagnia. Infatti, quest’innato senso di una superiorità non dovuta a opere, meriti o altro, che non è una conseguenza di fatti esterni, ma una sorta di natura prima, consustanziale alla persona di Kurt, è una proprietà molto simile alla quintessenza della nobiltà di sangue: i nobili – i nobili di una volta, quelli di prima della Rivoluzione Francese – dovevano sentirsi diversi e superiori ai borghesi per qualcosa del genere.
Ora, Kurt era impegnato in una trattativa con la società del sultano – un vero nobile di sangue, un’altezza reale in un paese in cui questo conta sul serio – rappresentata esclusivamente da nobili: eccezion fatta per Mr O, tutti gli ‘uomini d’affari’ che trattavano con Kurt per conto del sultano erano rajah o dato, cioè grossomodo l’equivalente di duchi e baroni.
Dunque Kurt trattava con nobili, in fondo con suoi simili. E questo probabilmente facilitò le cose: tra dèi, si capivano. O, per meglio dire, anche se ciò non consentì di per sé di trovare una soluzione al rompicapo di appetiti materiali e fierezze formali che ambedue le parti contrapponevano e che bisognava comporre, creò però l’atmosfera giusta, permise di parlare.
Il capo assoluto della rappresentanza del sultano era la sua figlia maggiore, la principessa Z (o Tegku Z, com’era deferentemente chiamata: Tegku sta per Altezza). Pur essendo la primogenita, Tengku Z era esclusa dalla successione al trono in quanto donna e veniva in un certo senso risarcita dal padre in tal modo: era la sua ‘donna d’affari’. Cosa peraltro utile, in un negoziato, in quanto né al sultano in persona né al suo secondogenito, il crown prince, futuro sovrano, è permesso dire di no, almeno in Malesia. E ciò è d’ostacolo in una trattativa, li rende inabili a negoziati d’affari. La principessa era un alter ego che faceva da filtro: esclusa dalla linea dinastica, poteva ricevere dei no senza considerarli un’offesa, quindi poteva trattare per loro.
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Le trattative andarono avanti a lungo, su tavoli separati: quello tecnico, con l’ente elettrico federale; e quello commerciale, con Mr O e i rappresentanti del sultano. Di quando in quando, tra una riunione e l’altra, Kurt spariva per un paio di giorni. Se n’andava fuori KL, nel nord del Paese, a coltivare la terza passione che aveva, oltre agli affari e alle donne: le farfalle. Per hobby, era entomologo. Conosceva, studiava, catturava e conservava lepidotteri, pare ne avesse un’importante collezione. Ed era anche abbastanza noto nel campo, pubblicava articoli su riviste specializzate. Portava sempre con sé, nei suoi viaggi, l’attrezzatura da campo: retino, stivali, gilet leggero pieno di tasche, cappello a falde larghe con veletta svolgibile a protezione del viso. E di quando in quando, in missione nelle inusuali aree di mondo ove si recava per lavoro, si ritagliava qualche giorno d’escursione alla ricerca di specie rare. Ce ne sono pressoché ovunque, ma la Malesia, col suo clima subtropicale e la sua jungla, ne è particolarmente ricca. Esemplari che per gli entomologi sono oggetti del desiderio. Sicché quando le estenuanti trattative con gli orientali glielo consentivano, o quando ne aveva bisogno per staccare, si armava di cappellaccio, stivali e retino e se ne andava in montagna a caccia di farfalle.
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I malesi, e gli orientali in genere, sono abili negoziatori. Sanno come dare alla controparte l’illusione che la nave stia entrando in porto, e poi riportarla al largo all’improvviso, per ottenere di più. E sanno ripetere in modo credibile questo scherzetto due, tre volte nel corso di una trattativa, per ottenere il massimo. Sono pazienti, tenaci, instancabili. Ma alla fine Kurt ne venne a capo. E l’idea l’ebbe proprio mentre acchiappava farfalle. Di ritorno da un’escursione nel nord, comparve all’Hilton con la faccia sorniona del gatto che ha appena mangiato il topo: “E’ solo questione di punti di vista,” disse. “Guardiamo le cose sempre dalla stessa parte. Bisogna cambiare verso, orientarle al contrario.”
Intendeva la joint venture. Normalmente, le joint venture per progetti del genere sono orizzontali, one pocket-one money: costi, ricavi e compiti vengono spalmati orizzontalmente, toccano ad ogni socio in ragione della sua quota di partecipazione. Però nulla impedisce – o quasi nulla, legalmente parlando – di pensare a una joint venture verticale: un bel taglio netto dall’alto in basso, sia nel separare costi e ricavi, sia nel separare rischi e responsabilità. Un escamotage che i contratti internazionali vietano, perché si presta a usi illegali. Ma in Malesia, come in qualsiasi altro paese al mondo, ostacoli simili si aggirano facilmente. Kurt propose a Mr O, a Tegku Z e ai suoi tirapiedi un’architettura di joint venture di tal genere e anche un modo elegante per eludere la questione legale. La riunione si tenne all’Hilton, quarantaduesimo piano, la stessa lounge del primo incontro con Mr O. Dopo che Kurt ebbe illustrato la proposta, la delegazione malese chiese a lui e Angelo di uscire, per consultarsi. Quando, mezz’ora dopo, li richiamò, Tegku Z invitò Kurt a un giro di valzer. Nella sala riunioni priva di musica, attorno al tavolo disseminato di carte, tra una dozzina di dato e rajah seduti in silenzio, Kurt e la principessa suggellarono con un giro di valzer la conclusione del negoziato.
Sciolto quel nodo, tutta la storia scollinò e da quel punto in poi scivolò in discesa: Kurt e Mr O tornarono amiconi, l’ente elettrico federale divenne più malleabile, le questioni tecniche vennero rapidamente risolte. In capo a poche settimane furono firmati i contratti e Kurt poté tornarsene felicemente a Roma a celebrare il sofferto trionfo.
La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.