Giuliano Capecelatro
In margine alle elezioni americane

Trump e famiglia

Non solo Elon Musk. La «broligarchy», la famiglia di oligarchi che prospera e trama intorno a Trump, è ricca e variopinta. Che fosse anche pericolosa, lo aveva già detto Platone...

Platone l’aveva visto con largo anticipo, diciamo quasi due millenni e mezzo fa. Meglio, l’aveva fatto predire senza ambagi dal suo alter ego dialogante, Socrate, autentico monumento vivente alla sapienza: la democrazia conduce dritto dritto alla tirannide.

Paradosso? Mica tanto. La prova provata la forniscono le recenti elezioni statunitensi, con il trionfo a mani basse di quel Donald Trump dal cipiglio truce, il viso rubizzo di chi non disdegna un sorso di quello buono e una debordante chioma color pannocchia da adolescente in fregola. Cui si abbina la parallela e perentoria affermazione di un nuovo esemplare umano: il broligarch, il cui avvento cambia e cambierà fisionomia e destino del pianeta.

Broligarch, curioso neologismo composito (brother, fratello, e oligarch, oligarca), con l’ovvia filiazione di broligarchy; in parole povere, una brotherhood (confraternita) di oligarchi, una conventicola di gente con montagne di quattrini, dunque potere, e conseguente desiderio di farlo valere.

S’è visto che Trump ha fatto strame dell’inadeguata Kamala Harris, pescata all’ultimissimo momento per rimpiazzare Sleeping Joe, al secolo Joe Biden, 46esimo presidente Usa dalle sinapsi periclitanti. Ma più di Trump il vincitore è Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, sudafricano di nascita, cittadino canadese naturalizzato americano, padrone della Tesla, che produce veicoli elettrici, di X (ex Twitter) e di svariate altre società, marziano in pectore, perché progetta col compagnone Donald di mettere quanto prima piede su Marte.

Se a gennaio Trump impugnerà lo scettro della Casa Bianca, dovrà tantissimo a Musk, che non ha lesinato fondi nella competizione elettorale, ripagato con l’immediato inserimento nella compagine governativa, al ministero per l’efficienza governativa appositamente creato per lui. Sarà dietrologia da bar, ma viene subito in mente l’orwelliano ministero della Verità in 1984.

In uno con l’interplanetario Elon, il vento in poppa al vascello trumpiano lo hanno soffiato anche i campioni della nuova specie, i facoltosi imprenditori della Silicon Valley, i manager delle grandi aziende tecnologiche, i fan delle criptovalute, che si sono compattati sotto un’unica bandiera. Non certo per spirito patriottico.

Vale la pena aprire l’album di famiglia, Perché la broligarchy, cioè questa brotherhood degli oligarchi, è un’onda lunga, uno tsunami se vogliamo adottare un registro melodrammatico, che prende le mosse negli anni Ottanta, presidente Ronald Reagan, omologo quanto a strategie economiche di quella Margaret Thatcher che nel contempo regnava e sconvolgeva la Gran Bretagna, alfieri ambedue di una brutale riscossa del capitalismo, di un rivolgimento che mettesse fine alle ubbie di rivoluzione, o almeno di giustizia, sociale. In breve, le teste d’ariete del neoliberismo. È in quei giorni che il broligarch lanciava i primi vagiti.

E prendeva a muoversi nel mondo. Con carattere e obiettivi già ben definiti. È nelle università che la broligarchy prende forma, nelle facoltà scientifiche, nei templi della scienza informatica, da cui gli adepti spiccheranno il volo verso remunerative poltrone dirigenziali col blasone di venture capitalist (capitalista di ventura). Giovani studenti, in prevalenza bianchi, che professano con l’ardore di una fede concezioni reazionarie, l’idolatria del profitto, un maschilismo sfrenato, una pronunciata transmisoginia (un odio sconfinato per i transgender), una cura ossessiva del corpo che li spinge a una frequentazione inesausta di palestre, dove spendono ore con pesi, bilancieri e diavolerie del genere.

Il prototipo lo ritrae in termini crudi lo scrittore Bret Easton Ellis in American Psycho (è del 1991, tradotto in Italia da Einaudi): una furiosa sarabanda di squali che infestano New York, ostentano abiti e accessori griffatissimi, frequentano solo ristoranti e club esclusivi, sniffano coca a go-go, disprezzano le donne, che frequentano solo per scoparsele, utilizzarle come balocchi sessuali e, in dissimulata quanto astiosa competizione tra loro, vantarsene. Con il protagonista che inalbera lo stemma araldico della sua AmEx di platino, utilissima anche per tirare righe di coca, ma è soprattutto uno yuppie dai tratti sanguinari e cannibaleschi.

Un identikit per quanto metaforico non lontano dalla realtà. Più asettico, il Collins dictionary al lemma broligarch se la cava così:

«giovane magnate maschio politicamente influente, particolarmente interessato alla tecnologia». Politicamente influente, già. In grado anche di spostare in maniera decisiva l’ago della bilancia. Come Elon Musk, che un tempo non nascondeva le sue simpatie per i democratici, ma da ultimo si è schierato anima e corpo con i repubblicani. I voltafaccia, tra i rampanti della Silicon Valley, sono frequenti e repentini. In tempi di Illuminismo Denis Diderot scriveva: «Le idee sono le mie puttane» (Il nipote di Rameau, Franco Maria Ricci, 1973). Oggi che l’Illuminismo è un cadavere imbellettato, Musk e i suoi correligionari potrebbero iscrivere sulle loro bandiere il motto debitamente parafrasato: «La politica è la nostra puttana».

Peter Thiel conta al suo attivo la co-fondazione di Palantir e Paypal e l’investimento in un Facebook agli albori. Non dissimulava le sue simpatie democratiche e per questo era considerato una mosca bianca. D’improvviso è passato tra le schiere dei ferventi sostenitori di Trump. Marc Andreessen, che nel palmarès imprenditoriale può vantare la creazione – con altri – di Mosaic e Netscape, rimproverava all’ex presidente la politica antiimmigrati; poi ha scoperto che le ricette economiche di Donald fornivano un toccasana a chi si accingeva ad avviare un’impresa di tecnologia digitale, e ha cambiato casacca.

Thiel è un personaggio emblematico. Più di tutti, e con maggior caparbietà e sfrontatezza, incarna lo spirito della broligarchy. È considerato l’eminenza grigia della Paypal mafia, una pattuglia di imprenditori temprati dall’esperienza in Paypal e poi in altre aziende tecnologiche. Con iattanza si presentano agli occhi del mondo, all’occasione beffardamente vestiti da gangster; così li ritrae una foto, apparsa nel 2007 sul magazine Fortune.

Irridente manifesto della loro ideologia. Che naviga spedita nell’oceano della globalizzazione, dove, su sponde geograficamente opposte, prosperano altre forme di oligarchie, non meno proterve e spietate. Un pensiero che si può riassumere nel motto caro a Thiel: «Non credo più che libertà e democrazia siano compatibili». Nemici giurati delle tasse – Musk ha addirittura abbandonato la Silicon Valley, dove si era formato e arricchito, per il Texas, stato dal fisco più benevolo. Nemici dichiarati delle regole e di ogni limitazione alle loro manovre e speculazioni.

La mano invisibile di Adam Smith, inesorabile regolatrice dei mercati, cede il posto alla mano libera, assolutamente libera, che allungano i broligarchi; lo stato, con i suoi controlli, le sue leggi, deve levarsi dalle scatole, altrimenti rappresenta un ingombro, o anche un nemico. Jeff Skoll, plutocrate ex Ceo di eBay, di fronte ai timidi tentativi dell’amministrazione Biden di porre dei limiti, non si è peritato di denunciare la «persecuzione degli imprenditori».

Privo di sensibilità storica, ed è da credere anche umana, in un empito di ridicolo vittimismo, il magnate Tom Perkins ha paragonato le critiche dei media ai manager della Silicon Valley alla Notte dei cristalli, il pogrom nazista contro gli ebrei del novembre 1938.

La rivista indipendente Atlantic, nel numero dell’agosto scorso, sottolinea come questa genìa imprenditoriale aneli il potere ma, al tempo stesso, non intenda assumersi responsabilità. E, sulla falsariga dell’antico motto Noblesse oblige, chiosa ironicamente: «Noblesse ma senza oblige».

Potere non circoscritto alle loro aziende, al loro paese La libertà propugnata dai tecnocrati statunitensi esprime non solo l’ansia di primeggiare nel mondo finanzario-economico, ma soprattutto un’ansia patologica di comandare, di modellare il mondo tout court: negare le regole per affermare le proprie regole. Quelle dei più forti.

Non è un caso se Musk, facendo da sponda alla destra italiana, provincialmente subalterna al pensiero della broligarchy statunitense, si sia sentito autorizzato a perorare la cacciata dei giudici che hanno ostacolato, con motivazioni strettamente giuridiche, le deportazioni di immigrati in Albania. I broligarch proiettano la loro azione, il loro potere, sull’intero pianeta.

Forse è proprio questa loro frenesia da manuale psichiatrico che ha finito per innalzarli, agli occhi del pubblico, su un piedistallo. Un libro, The Sovereign Individual (L’individuo sovrano, uscito nel 1997), opera di James Dale Davidson e William Rees-Mog, senza alcuna traccia di ironia, accredita i miliardari come la versione moderna degli dei dell’antica Grecia, degni pertanto di dominare il mondo: «l’Individuo Sovrano ridisegnerà i governi e riconfigurerà la scienza economica», scrivono con profetico servilismo gli autori.

Come gli dei greci si impicciavano delle faccende umane, per poi accapigliarsi tra loro nella quiete dell’Olimpo, queste profane divinità si impicciano, e come, delle faccende politiche. Rischiano faraoniche puntate sullo scacchiere politico: individuano il personaggio che ritengono più adatto a tradurre nella realtà i loro desiderata e lo foraggiano con dovizia. L’accoppiata Musk-Trump è l’esempio per eccellenza.

Ma l’elenco è inesauribile: la carriera politica è onerosa, problematico disdegnare un aiutino. Il vicepresidente J.D.Vance, autore della trionfalistica Elegia americana (Hillibilly Elegy, tradotto in Italia da Garzanti), è stato lanciato in orbita politica dal suo ex datore di lavoro, l’ubiquo Peter Thiel, che con un ragguardevole contributo finanziario ne ha favorito l’ingresso in Senato. E non è certo da escludere che Thiel abbia speso una buona parola per convincere Vance, a lungo incrollabile esponente del movimento Never Trump (Mai Trump), a riconsiderare le qualità dell’irruente tycoon.

Tramite la stretta connection affari-politica, dove la politica è la variabile dipendente, ecco che la libertà democratica, declinata fino alle estreme conseguenze, sfocia in tirannide; il paradosso assume concretezza. Thiel e i suoi confratelli devono aver letto, e interpretato a modo loro, Platone, che per bocca di Socrate osserva: «… non v’è licenza di fare ciò che si vuole? (…) Ma dove c’è questa licenza, è chiaro che ciascuno può organizzarvisi un suo particolare modo di vita, quello che a ciascuno più piace» (La Repubblica, Laterza, pag. 275).

Tra un paio d’ore in palestra, una bionda esplosiva rimorchiata a un cocktail per un paio d’ore di lussuria, uno sventolio dell’AmEx di platino, una sniffatina al volo tanto per gradire, loro la licenza l’hanno saldamente afferrata e non la mollano. Organizzano il loro particolare modo di vita. E, divinità ricoperte di oro, lo impongono al mondo.

Qualche anno fa Marco D’Eramo ci regalò un testo basilare: Dominio (Feltrinelli, 2020). Vi riportava le parole di un arciricco, Warren Buffet che, senza tema di smentite, dichiarava: «Certo che c’è guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta. Hanno vinto i ricchi». Tragicamente vero. Oggi come oggi la Terra è proprietà privata delle broligarchy, qualunque idioma parlino. È la fase suprema del capitalismo.  E non possiamo farci niente. O davvero molto poco.

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