Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Le Donne Coraggio

“La testimone”, il film dell'iraniano Nader Saeivar, sceneggiato da Jafar Panahi, è un paradigma: ci racconta che la rivolta contro il regime teocratico di Teheran appartiene solo alle donne. E gli uomini restano sullo sfondo

Ci vuole un fisico bestiale per fare il cinema in Iran. Lo dimostra da anni il regista Jafar Panahi e lo conferma il suo assistente Nader Saeivar, in questi giorni nelle sale col suo terzo film, La testimone – Shahed, di cui Panahi è co-sceneggiatore e montatore.

Il film, presentato al festival di Venezia nella sezione Orizzonti Extra, ha conquistato il premio del pubblico, solo l’ultimo riconoscimento di un ricchissimo palmares che da anni celebra il valore della new wave cinematografica iraniana e il coraggio di chi è pronto a mettere in gioco la propria vita per raccontare ciò che accade in quel paese, soprattutto alle donne.

Non sorprende che in questa comunità di coraggiosi si incrocino sempre gli stessi nomi, a dimostrazione di quanto sono profondi i legami tra i suoi componenti. Panahi ne è il maggiore esempio: già assistente alla regia del grande Abbas Kiarostami, ha continuato a essere premiato in tutti i maggiori festival internazionali, da Berlino a Cannes a Venezia, mentre i suoi film erano banditi nel suo paese e lui veniva ripetutamente arrestato (è stato scarcerato nel febbraio 2023). Fino al 2030 Panahi non potrà lasciare l’Iran, né girarvi o sceneggiare film.

Questa premessa è necessaria per ricordare che dietro le quinte de La testimone come di altri film iraniani – e non sorprende che la maggior parte delle riprese siano state fatte al chiuso in situazioni protette – stanno non solo le vite delle persone che hanno ispirato il racconto di Saeivar, ma anche la sopravvivenza di chi è pronto a rischiare il carcere pur di continuare a fare questo cinema.

Come “Tatami” che rivelava lo scontro col regime della judoka iraniana Leila, anche questa è una storia di donne e che sia fiction è solo una convenzione accettata dallo spettatore che sa bene che ciò che viene raccontato è vero. Del resto la realtà esplode nei titoli di coda, quando scorrono i visi e i sorrisi delle ragazze felici che danzano senza velo e che il regime degli ayatollah ha provveduto a uccidere.

C’è una scena del film che ne racchiude tutto il senso, un’inquadratura dall’alto che compone una “pietà” in cui tre donne incastrano i loro corpi in un unico abbraccio che travalica le generazioni: la nonna, la madre, la figlia. La protagonista Tarlan (la bravissima Maryam Bobani) ha i capelli bianchi raccolti in una treccia, alle spalle una vita di insegnante e combattente in difesa dei diritti delle donne, per il suo impegno nel sindacato ha perso tutto quello che aveva, ha un figlio in carcere per debiti. Tarlan ama e sostiene la figlia adottiva Zara che dirige una scuola di danza e che nella danza ha la sua ragione di vita. Zara non accetta di indossare il velo imposto dalla legge islamica e subisce la violenza del marito che la vorrebbe rinchiudere in casa mentre lui fa carriera negli apparati governativi. Questo legame profondo coinvolge anche Ghazal, la figlia di Zara, dalla madre e dalla nonna ha ereditato lo stesso desiderio di ribellarsi e di affermare il diritto a una vita libera e dignitosa. Tre generazioni di donne che lottano contro il regime degli ayatollah e che dimostrano quanto siano forti le radici del movimento “Donna Vita Libertà”.

La scomparsa improvvisa di Zara dopo l’ennesima violenza subita dal marito, innesca il confronto drammatico fra Tarlan e un sistema fatto solo di uomini che non vogliono indagare per scoprire quella verità che nessuno, neppure i familiari più stretti, intende rivelare. I personaggi maschili sono paralizzati dalla paura delle conseguenze di ogni scelta, tutto il coraggio è nelle mani delle donne.
In un’intervista il regista ha confessato: «Non sono mai sceso in piazza e mi sentivo in colpa per non aver protestato. Ho quindi deciso di fare un piccolo film che riflettesse almeno in parte quel senso di colpa».

La testimone in realtà non è un piccolo film, è un paradigma: ci racconta che la rivolta contro il regime teocratico iraniano appartiene solo alle donne ed è così da generazioni, gli uomini restano sullo sfondo. «La rivolta delle donne è nata con la rivoluzione», sottolinea Saeivar. «Se l’attuale generazione di ragazze è coraggiosa e scende in piazza, è il risultato delle loro madri coraggiose, che non si sono mai arrese. Sono nate coraggiose».

Non svelerò cosa produrrà quel coraggio. Dirò solo che la scena finale in cui Ghazal danza libera, finalmente all’aperto, fuori dalla casa-prigione, mentre un vento impetuoso travolge recinzioni e cancelli, credo sia stata ispirata al regista dai celebri versi della poetessa iraniana Forough Farrokhzad:
“Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
[…]
Saluterò mia madre, che viveva nello specchio, immagine della mia vecchiaia.
[…]
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli come odori
che sgorgano dal sottosuolo
e gli occhi miei, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi oltre il muro.
Arrivo, arrivo, arrivo,
e la soglia trabocca d’amore
ed io ad attendere quelli che amano
e la ragazza che è ancora lì,
nella soglia traboccante d’amore, io
la saluterò di nuovo.”

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