Nando Vitali
A proposito di "In piena luce"

Musica della memoria

Saltando tra ricordi e musica, il nuovo romanzo di Daniela Matronola mette in luce gli angoli più oscuri di una generazione, quella che si è formata negli anni Settanta

Le corde vengono colpite dai martelletti mossi dai tasti. Tasti neri e tasti bianchi. Negli interstizi le scorie, lo sfrigo di un lavoro accurato, fra infanzia e mondo degli adulti. Questo è quel che si prova leggendo il romanzo di Daniela Matronola, In piena luce (Les Flaneurs edizioni, 364 pagine, 20 Euro). L’infanzia di Lucetta e i suoi segreti, rivelati o duri come pietre.

Le regole le incarna suor Fiore che guida la nidiata di quelli che tappa per tappa diventeranno il futuro.

Il mondo degli adulti è l’universo di inganni, e il dito puntato della suora lo è verso un paese dove in piena luce appare un profondo abisso nel quale dovremo calarci.

La protagonista, Lucetta, impara presto ad essere adulta. Osserva, esperimenta, e il gruppo dei compagni di scuola, tutti insieme, ci fanno pensare al mondo Flannery O’ Connor, e i suoi polli che camminano all’indietro. Il Sud protestante americano, o alla musica reduce da una lunga testimonianza di classe di De André. Una sorta di scontrosa religiosità che trova nella parola la forza della ribellione alle ipocrisie.

In fondo De Amicis ci aveva avvertito che l’educazione sentimentale, l’iniziazione alle regole, è la bugia. Adattamento al mondo sotterraneo e pruriginoso, e per questo più sensuale e desiderante, dove essere spiati e spiare è il gioco proibito nel quale quel momento della vita, che è l’infanzia, ci rimane dentro per sempre. A meno di non opporci alle mani di suor Fiore, scomparendo, come a molti accadde in quegli anni ’70, dove tutto venne spogliato fino a trovare il midollo del mondo. Una volta trovato fu un boccone amaro da digerire: la recita nella quale dobbiamo trovare un posto, un ruolo da personaggi. Tutto qua.

C’è un film australiano che molto amo, Picnic a Hanging Rock («Il lungo pomeriggio di morte»). Nel film di Peter Weir (75), in una gita scolastica, fra rocce e strapiombi, un gruppo di giovani si perde e non viene più ritrovato. Una soltanto sarà ritrovata. Ma il mistero non viene svelato e il mutismo della ragazza è l’indicibile che si cela dietro alla morte.

Nel frattempo riflessi scorrono in quegli interstizi di tasti neri e bianchi del film. Emergono gli abomini e le torture che si consumano nel collegio. La direttrice e lo spettrale commercio fra i docenti. In altre parole il mondo degli adulti.

Matronola non arriva a tanto, ma il livello alto della lingua lambisce la verità usando le parole come Ulisse col suo arco, infilando le frecce fra i fori delle asce nella prova dell’identità nascosta. Poi fu il massacro, e il sangue brucia nei corpi infilzati dei pretendenti alla mano di Penelope: la conquista del regno di Itaca. Il Potere.

Lucetta sotto al mantello di quegli anni passati, racconta di sé e dei compagni. Li descrive nel fare delle personalità multiple, che si infrangono o assestano su quel dito teso di suor Fiore. Educatrice doppia che ama l’uomo nero nei momenti segreti di sé. L’amante e l’uomo nero appaiono come il demonio dell’esilio d’amore nel quale è anch’essa prigioniera.

In piena luce è la metafora della torcia che scova negli anfratti dell’animo degli adulti, dove Lucetta scorge i prodromi dei destini futuri dei compagni, ma non il suo.

Piccola sacerdotessa per bocca dell’Autrice si abbandona al flusso di coscienza.

La trama (inafferrabile) si cela fra i rapporti di una scolaresca turbolenta dove poi l’assistere a una scalata di ciclisti pare essere proprio la profezia di quello che è la vita. In quella curvatura di spalle, nei volti occultati, l’autentico generare di una insana follia per la vetta.

Penso alle curve di The Long and Winding Road, una delle canzoni che più amo del quartetto di Liverpool, (e che li fece sciogliere), i Beatles.

In fondo il traguardo da raggiungere è l’infanzia. Alla fine non resta che quella. La maschera è l’incendio delle nostre esperienze ridotte infine in polvere, anche quando in cima alla punta vediamo un nuovo infinito di nebbia, come nel quadro famoso.

Nebbia, solo un mare di nebbia.

Ora che racconta, Lucetta, tanti episodi guizzano nella memoria, che poi “nei fatti della vita vera c’è qualcosa di irrimediabile fin dall’inizio, una specie di sentenza senza appello a partire dalla quale tutto cambia e prende un suo verso definitivo”. La rabbiosa e febbrile ricerca del nodo. Quel nodo che non riusciamo a capire quando è stato fatto e da chi. Il cambio d’abito. L’esatta mutazione di pelle di cui ci resta fra le dita la cera molle.

Infine, come spesso accade, il vecchio gruppo di scuola, dopo molti anni si riunisce. Come ha agito nel nostro viaggio quando la Matronola cita A Salty Dog («Un lupo di mare»), dei Procol Harum.

“Che tutti diano una mano, stiamo andando alla deriva!”. E il capitano grida “che nessuno se ne vada vivo da questa tortuosa rotta (…)”. Come se il tempo non fosse mai passato.

Io quel brano da giovane lo cantavo leader del mio gruppo negli anni ’70, “I Fatum”, ma non ne capivo il senso. Solo la voce mi chiamava al mare.

Ora quei momenti Lucetta riesce a prenderli: li stende di fronte come soldatini, forse cercando di ritrovarne l’incanto. Invece li uccide uno ad uno, insieme al dito deformato di suor Fiore.

Ieri ho visto “Parthenope” di Sorrentino associandolo a questo libro.

Parthenope, l’infanzia, il tempo confuso dei ricordi, il cinismo e infine come il capitano di “A Salty Dog”, ci trasciniamo scrivendo per salvarci dal naufragio. Sperando che nominare le cose possa farle tornare.

Nulla di più errato.
Suor Fiore e il suo dito erano puntati contro di noi.
Ma una storia narrata bene ha però un vantaggio.
E questo è il miracolo della lettura, e della scrittura.

Ci allontana oltre le colonne d’Ercole, o ci fa doppiare il capo di Buona Speranza. Quel dito di suor Fiore diventa trasgressivo. Quella religiosa, che scopava di nascosto godendo la trasgressione dell’uomo nero, adesso ci sembra la vera danza segreta di In piena luce e di Lucetta.

L’ignoto senso di un sicuro finale di cui il viaggio fu la differenza gli uni dagli altri.

Non fummo soldatini, forse lupi di mare alcuni di noi, altri tappetini, altri soltanto ricordi sbiaditi. Altri ancora su sedie a rotelle o semplicemente vigliacchi. Ma quell’indice ci aveva avvertito. E anche questo romanzo ci dice di guardare sotto al nostro materasso.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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