Danilo Maestosi
All'Accademia di San Luca a Roma

Mistero Sweerts

Una bella mostra riscopre Michael Sweerts, un grande pittore seicentesco d'area fiamminga, sconosciuto al grosso pubblico. La sua avventura umana e artistica è quasi un romanzo...

Solo 18 quadri, raccolti in tre sale del piano terra di palazzo Carpegna, in pieno centro di Roma. Ma è una mostra che lascia il segno, ti insinua dentro la voglia di riprendere, interrogando quelle immagini alle pareti come sfogliassi lo story board di un film o di un fumetto cui qualcuno – chi, perché, forse lo stesso autore? – ha strappato nelle pagine a casaccio il filo di un avvincente romanzo lacunoso e interrotto.

Mi è successo – esperienza rara – visitando questa mostra, allestita qui all’Accademia di San Luca, per rendere omaggio a Michael Sweerts, un grande pittore seicentesco d’area fiamminga, sconosciuto al grosso pubblico ma riscoperto e onorato nel Novecento dalla critica specializzata e dal mercato antiquario.

Merito del taglio rigoroso che le hanno impresso i due curatori, Andrea De Marchi e Claudio Seccaroni. Riflettori puntati sul decennio che l’artista ha trascorso e sulle tracce che ha lasciato nella Roma cattolica e barocca della Controriforma. Attenzione ancorata sulla ricerca di documenti in grado di colmare il vuoto lasciato dal calcolato rifiuto dell’autore di lasciare testimonianze scritte sulla sua gestazione creativa e sulla sua vocazione di maestro.

Più che giustificato il rifiuto di inscriverlo, senza distinguo – come è avvenuto – tra gli imitatori di Caravaggio e tra i seguaci di una irrispettosa conventicola di gaudenti venuti dal Nord, battezzata col soprannome di Bamboccianti. E l’idea di fondare questa rivisitazione su una rilettura iconografica delle opere che gli sono state attribuite, sottratte, o restituite come copie ad anonimi allievi, messe a confronto con le tele, coeve o d’epoca successiva, conservate in musei e archivi stranieri. Un andirivieni di rimandi che lega l’uno all’altro i tasselli di questa antologia, conferendole il richiamo, la suspence e la trama di indizi e dubbi incrociati di una sorta di giallo irrisolto. Cui manca un inizio: come e con chi ha studiato prima di approdare a Roma, dove manifesta subito una sicurezza e un controllo che non sono doti da principiante?

Manca un passaggio intermedio essenziale: cosa lo spinge a lasciare la capitale e l’Italia? L’unica pista è un pettegolezzo che insegue da tempo Sweerts, e non a caso è stato accolto e sviluppato in un romanzo: il sospetto che fosse gay, ed a spingerlo alla fuga fosse la crisi mistica scatenata dalla morte di un amante e collega. Vero? Falso?

Domande che lasciano in sospeso anche il luogo e le circostanze della sua morte che si sospetta segnata da delusione e infelicità, nel corso di una sorta di lunga e avventurosa spedizione commerciale verso Goa, porto indiano all’epoca possedimento portorghese, camuffata da missione spirituale in Oriente. Sì, proprio Goa, sogno e rifugio dei figli dei fiori dei nostri anni sessanta. Una tomba mai trovata e un altro pettegolezzo posticcio trasformato in indizio. Come altre voci che lo descrivono trattenuto per mesi in prigione, come capita ai migranti di oggi.

Insomma una nube di approssimazioni e incertezze alle quali gli stessi curatori sembrano arrendersi, alzando bandiera bianca con un sottotitolo allusivo da thriller: Realtà e misteri nella Roma dei Seicento.

È la storia di un singolare fantasma, quella che la mostra mi spinge dunque a completare, ancorandomi alle immagini che ci sgrana davanti. Tutti o quasi ritratti o autoritratti. Strana contraddizione per un uomo che si è tanto impegnato a nascondersi per far parlare la realtà senza veli del mondo circostante questo guardarsi momento per momento allo specchio, cedendo al narcisismo che appare marchio inconfondibile della sua personalità, ma trascinandosi appresso un bisogno da moralista pervaso di spiritualità che non rinuncia mai a interrogare l’ombra delle sue debolezze. E a punirsi per questo.

Come fa in una tela in cui ritrae il proprio volto per restituirci un’immagine di San Bartolomeo (qui accanto), uno dei dodici apostoli, martire scuoiato. Occhio alla mano ripiegata contro la tunica. Regge in mano un rasoio, quasi ad offrire quella lama ai suoi torturatori, confessandosi peccatore in cerca di espiazione.

Farsi togliere la pelle di dosso: un atroce leitmotiv che Sweerts ha preso in prestito dall’iconografia della cultura antica, di cui era venuto ad abbeverarsi in quella Roma seicentesca. Ce lo spiega il fascinoso altarino di frammenti di statuaria classica che i curatori hanno montato all’ingresso, recuperando cimeli conservati a palazzo Carpegna, e messo a confronto con un quadro, eseguito in patria da Sweerts al ritorno da Roma, che lo immortala davanti alla tela, attorno un paesaggio di figure e rovine che occupano la scena come un coro di reliquie parlanti. Sullo sfondo il corpo legato e straziato di un uomo scuoiato. Lo stesso supplizio toccato a Marsia, il mitico musicista che osò gareggiare con Apollo, il quale lo sconfisse imbrogliandolo. Un leitmotiv molto in voga, effigiato persino da Michelangelo sulla volta della Sistina.

Molto di moda al tempo anche il calco della testa di Niobe, che il pittore belga possedeva e ha inscritto nella panoramica del suo studio e in altri ritratti come un marchio di fabbrica. Era la madre che si vantava di aver generato figli belli come divinità dell’Olimpo, punita da Giunone con lo sterminio di tutte le sue creature.

Adottare come muse personali due campioni di ribellione e sconfitta non era per Sweerts come un guanto di sfida contro l’assolto dispotismo di quel Dio e di quella Chiesa dai papi, in cui da cattolico era stato educato a credere, ma di cui sentiva di infrangere continuamente i precetti, portandosi sulle spalle il peso di un continuo senso di colpa? Un sentimento d’inadeguatezza che trasferiva anche ai privilegi della sua condizione sociale?

Sweerts era ricco, alle spalle una famiglia tra le sette più potenti del suo paese, passaporto che a Roma gli apriva le porte di centri di potere e salotti che contano. Ne traeva frutto, ma credo ne provasse anche vergogna. Come spiegare il manifesto atteggiamento di contrito disagio che traspare sul volto di quella coppia nobile o alto-borghese, che ritrae in visita a un casolare di campagna, un capanno dove un contadino si attacca a una bottiglia di vino senza alcun riguardo? Il volto del gentiluomo non esprime disapprovazione, ma solo l’imbarazzo di una diversità che non merita premi celesti.

Sweerts non disprezza e non giudica la povertà, neppure quando cede al vizio. Questo lo ha imparato dai suoi amici bamboccianti, compagni di taverna e bordelli, che raggiunge spesso quando col buio esce dal suo studio di via Margutta, la tana dove lo registrano per dieci anni gli archivi parrocchiali di Santa Maria del Popolo.

Come loro, bistrattati da un nomignolo malevolo, dipinge il popolo della notte, immerge i suoi personaggi in una penombra che ha solo vaghe assonanze con la teatralità delle luci e delle inquadrature di Caravaggio. Cantano la realtà della Roma stracciona per quel che è. Gli altri del gruppo con più disincanto, distacco, ironia a volte, perché si sentono parte del mucchio, ogni giorno una lotta per sbarcare il lunario. Lui no, è diverso, non solo perché non deve contarsi i soldi in tasca. È un uomo e un intellettuale che si prende e prende il mondo sempre sul serio.

Ecco due quadretti di quella fase. Dipinti con uno sguardo da antropologo. Nel primo, un vecchio bevitore, occhi offuscati da sbronza, non presta quasi caso ad un bambino, (suo figlio?) venuto a soccorrerlo. Nel secondo una scena di adescamento, disegnata da un contrappunto di vesti e luci bianco sporco. Lei che si prepara all’appuntamento, dietro un lui, un cliente?, che sembra lo stesso Sweert paffuto e sbarbato degli anni giovanili.

In un altro quadro lì accanto, tra i più intriganti della mostra, lo stesso tema di seduzione a pagamento è affidato alla figura di una ragazza che si pettina e si agghinda, aiutata da una fantesca. L’uomo che sta aspettando è arrivato. Un’ombra resa più minacciosa da cappellacccio e stivali, che si staglia da una porta in controluce. Il peccato e il desiderio che avanzano e portano soldi ed angoscia, come se lo stesso artista si fosse specchiato in quel fantasma in chiaroscuro.

Ecco, qui – lo confesso – la mia lettura si fa romanzo. Ma credo che solo l’arbitrio di un racconto senza obbligo di prove possa rendere quella che mi sembra una caratteristica costante di questo uomo votato all’arte e alla contraddizione. Un personaggio che si nasconde e si spia in continuazione per capire chi è e se nel giusto. Un moralista amorale probabilmente, che con i dilemmi della morale si misura senza tregua. Perché altrimenti con l’aiuto di un anonimo allievo avrebbe dovuto ritrarre in un’altra tela, la stessa scena e la stessa modella, ribattezzata con un titolo allegorico, la vanitas, che sembra un avviso e un divieto di trasgressione?

Un artista che si nasconde, si auto-confina in disparte. Ma è sempre pronto ad accogliere con orgoglio da ricco narciso attestati del suo ruolo sociale: come la ambitissima nomina a Cavaliere dello sperone d’oro che il papa gli concede.

La modernità del creatore di immagini e del maestro, sembra nascere proprio da questo atteggiamento inedito e controcorrente per la sua epoca. Sweerts, un pittore stimato e apprezzato, firma solo piccole opere da salotto e rifiuta di strappare commesse pubbliche per affrescare chiese e palazzi che ne consacrino la fama. È una postura che consiglia anche agli allievi, spiegando loro che gli sembra il modo migliore per liberare l’arte da scomodi vincoli di dipendenza: le opere costose e di ampia scala spingono chi le paga ad intromettersi e chi le fa a scendere a compromessi.

È una scelta che rinnova anche in patria dopo la sua partenza da Roma, nella scuola che apre a Bruxelles e dove si specializza nell’incisione. Per questo le tracce che si è lasciato alle spalle sono così esili. E rendono così sfuggente anche la fine della sua biografia.

Che cosa lo spinge ad unirsi in Francia a una spedizione dei padri lazzaristi diretta in India? Forse l’illusione di aiutare i poveri della terra e conquistarli alla fede, che deve sembrargli un’avventura di redenzione personale, angoscia con cui è sempre alle prese. Capendo solo nel corso di quel tortuoso viaggio in cui perderà la vita che in realtà è solo un’impresa di stampo affaristico e coloniale, per strappare mercati e approdi in quel continente, dove Portogallo e Olanda hanno già conquistato avamposti. Maledetta smania di denaro. E ingenuo lui che ci si lasciato invischiare. È la versione più accreditata che gira. E se invece a spingerlo fosse stata solo la sua irrequietezza di inguaribile dandy e peccatore? Insomma il dubbio di una storia tutta diversa. Anche questa alimentata da un ritratto. Un quadro, datato 1660, finito nelle collezioni del Peggy museum, in cui Sweerts si ritrae con un turbante e una tunica da mussulmano, con una faccia sbarazzina e ridente da anziano fanciullo che sta riscoprendo il piacere di esibirsi e di travestirsi?

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