Daniela Matronola
A proposito de "Il Nostro Regno"

Di madre in figlia

Un incontro-scontro generazionale tra una madre (che si fa famiglia) e una figlia che ne insegue l'identità è al centro del nuovo romanzo di Linda Ferri

C’è un momento, non preciso né consistente in un istante individuabile, ma a suo modo esteso o estenuato, in cui avviene il temuto capovolgimento: nel rapporto madre-figlia, a un certo punto, la figlia diventa madre di sua madre. Sembra quasi di risentire il famoso verso del poeta, The child is father of the man. Ma il poeta intendeva che il bambino viene prima, precede l’uomo. Non è escluso che intendesse anche che a pesare il giusto, sempre nelle nostre vite, è l’infanzia, che forma e deforma l’uomo.

Nel caso del romanzo di Linda Ferri, Il Nostro Regno (Feltrinelli Gramma, 154 pagine, 16 Euro), il dato più forte è il legame tra la figlia che racconta in prima persona e la madre che è la regina del suo raccontare. A nessun altro della sua famiglia, nemmeno al padre morto giovane e all’improvviso, la protagonista e io-narrante dedica tanta amorevole attenzione anzi un simile tallonamento che di per sé sta lì a rappresentare la simbiosi tra figlia e madre.

Non significa intesa perfetta, non vuol dire totale somiglianza di visione della vita, del mondo o del rapporto di loro due con gli altri familiari. Il punto è la loro unisona e sincrona unione come formassero una squadra pronta alla battaglia contro tutti. Significa anche un’intesa sofferta e a volte lo scontro, la rivolta della figlia o la disapprovazione della madre. Significa anche scambi burberi, a volte rudi e graffianti. E significa anche che la figlia talvolta cerca di sottrarsi alla madre. O che la madre abbia delicatezze o forse omissioni verso la figlia per proteggerla ignorando che la figlia sa già tutti i dettagli di ciò che le viene taciuto.

Inoltrandosi nel romanzo, emerge il loro rapporto esclusivo, e per certi versi di carattere escludente, cioè almeno in apparenza gli altri figli sono tagliati fuori. Il nucleo familiare è costituito da questa madre che presto resta vedova, e rimane sola con cinque figli piccoli. Tre maschi e due femmine. Questa moglie e madre, venuto meno il marito, il padre dei suoi cinque figli, immediatamente si rimbocca le maniche e va a sostituirlo ai cantieri, prende cioè il suo posto in tutto e per tutto. In più si dedica a questi figli nutrendoli non solo in termini concreti ma anche culturali e spirituali: a un certo punto li porta con sé in viaggio in Israele, a Gerusalemme: quando stanno per ripartire, decide di rimandare il ritorno a casa, vuole condurli con sé a Haifa, torneranno quindi a casa due giorni dopo.

La figlia che la osserva, che della madre sa tutto, anche ciò che la madre con difficoltà confessa a sé stessa, nota che, in quei due giorni di frenetica esplorazione di questa città inizialmente non prevista nei loro giri, la madre sembra cercare qualcuno tra la folla, spera forse di incontrare qualcuno a cui molti anni prima ha rinunciato per sposare suo marito: è Karim, carismatico palestinese biondo che a suo tempo fu messo da parte per preferirgli il marito italiano, di origini toscane, un uomo che amava il rischio, il gioco, le corse in macchina, senza troppo preoccuparsi di avere ormai una famiglia, molti figli, senza tutelare sé e loro.

Attraverso la madre attraversiamo oceani: ci muoviamo grazie a lei tra New York e Parigi, e poi approdiamo a Roma, mentre la figlia ormai da anni ha scelto di vivere in Grecia su un’isola e conduce una vita itinerante e approssimativa, un po’ consegnata al fato.

Con la madre conosciamo le grandi fortune della famiglia e poi le grandi dispersioni di ricchezze e energie. Con la figlia conosciamo certamente anche gli altri figli ma è evidente che nel romanzo il primo piano è tutto per questa figlia e il suo rapporto esclusivo con la madre. A un certo punto nel libro lo si dice in modo esplicito: sembra quasi che questa madre sia madre di una sola figlia. Invece anche per l’appassionato resoconto di certe traversie finanziarie in cui il secondo figlio maschio rivela di aver ereditato in toto le inclinazioni del padre ad amare il rischio, ad avventurarsi in operazioni pericolose destinate al fallimento, a sacrificare alle proprie bizzarrie, senza pentimenti o preoccupazioni di sorta, il benessere dei fratelli e delle sorelle, sempre coperto e giustificato proprio da sua madre, scopriamo che non solo gli altri quattro figli ci sono ma la loro presenza è ben chiara a questa madre che si spende per loro, caricandosi addosso tutto quanto sia possibile sopportare pur di sostenerli e soccorrerli – però, questo il filo conduttore del romanzo, intrattiene poi un vero dialogo di confidenza e intimità con questa figlia che in prima persona la racconta.

Sono due gli spostamenti, in termini di scrittura, a segnare l’andamento narrativo del libro: una tecnica di avvicinamento e allontanamento rispetto agli oggetti e ai soggetti della scena attraverso l’uso del presente quando si entra molto dentro ciò che accade e l’uso del passato là dove invece si rende necessario istituire una distanza (dunque primi piani e ingrandimenti, o viceversa campi medi o lunghi); e, nello stretto racconto della madre reso dalla figlia, il passaggio dalla terza persona, in cui la madre è descritta vista narrata dentro dei contesti familiari o sociali, alla seconda persona, quando la figlia le si rivolge direttamente, e riprende quel colloquio che è il vero collante del libro e ne è anche il tono e il vero tema.

Spesso la figlia sente di essere stata manchevole. Di non aver protetto abbastanza i propri genitori. Anche verso il padre cova un senso di colpa: la sera precedente l’incidente mortale, se, si dice, avesse insistito col padre (che era riluttante a uscire ma doveva, per un impegno) a assecondare l’istinto che gli diceva di restare a casa, si dice, lei, che avrebbe potuto salvarlo, che lui non sarebbe morto, e tutta la loro vita sarebbe stata completamente diversa. Anche verso la madre si sente in colpa, sente di non averla salvata, di non averla accudita abbastanza, portata via dal lavoro, il “maledetto lavoro” che sua madre detestava perché la distraeva e sottraeva tempo alla loro intimità, di cui la madre, a un certo punto, comincia ad avere un bisogno spasmodico.

A fronte del teatro inquieto di persone e personaggi che affollano la famiglia nucleare ed estesa della voce narrante, la figura della figlia, testimone e raccontatrice, emerge e si staglia con forza, più che attraverso dettagli descrittivi o azioni prorompenti, soprattutto attraverso la dolcezza e però anche la lucidità via via sempre più consapevole della sua funzione, del suo ruolo di figlia e di donna, della sua libertà di muoversi nella propria vita, e poi attraverso una formulazione delicata e poetica del racconto di sé dei suoi e del mondo, al punto che la sua voce, benché ben definita, risulta elegante e flautata, si risolve in un sospiro. Lo stesso sospiro che la figlia restituisce alla madre all’atto del commiato, e che in fondo un poco ci ricorda la gentilezza onesta di certe madonne fiorentine della più pura tradizione poetica.

Nel segno della poesia del resto, o meglio nel segno della poeticità – che consiste poi nel lastricare le pagine di segni e simboli architettando una vera e propria imagery cioè un intero corredo di immagini – la madre in questo romanzo, dopo essersi manifestata nella sua proverbiale durezza seguita da lacrime e pentimento in un episodio del loro ménage parigino attraverso un gesto duro, uno schiaffo che era stato quasi un pugno, si ripresenta alla figlia, o questo la figlia ritiene di indovinare, nelle sembianze di una tortora, con la stessa forza di suggestione con cui la regina Elisabetta II (Helen Mirren) si trova davanti, nella foresta di Balmoral, una cerva, e con lei tutti noi “sentiamo” che la sua maestosità naturale e inerme incarna Lady Diana, appena spazzata via sotto il tunnel dell’Alma.

Questa suggestione si manifesta subito, nel libro, all’inizio. Alla fine invece la madre torna sotto le fattezze di una civetta, o questo la figlia ritiene di saper interpretare. “Aspetto che sia tu a tornare”, pensa la figlia già nelle prime pagine, “in qualsiasi forma, d’animale, di nuvola o di pianta, perché non ho il coraggio di rivolgere al patrono dell’isola” (in Grecia, dove ora trascorre metà dell’anno) “la mia preghiera più sincera: all’arcangelo Michele, che per l’eternità ha difeso la vita e schiacciato la morte con la sua spada infuocata, non oso chiedere di riportarti da me in carne e ossa”.

Tutto il libro disegna il suo arco fra queste due incarnazioni: tutta la lettura si muove lungo la traccia, direi nel solco, di questo pensiero struggente. E questo è in sintesi il loro regno.


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

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