Giuseppe Grattacaso
A proposito di “Il prima e il dopo dell’acqua”

Frammenti di vita

La nuova raccolta poetica di Laura Accerboni presenta straniate figure, improvvise apparizioni che testimoniano l'assoluta provvisorierà della vita

Il paesaggio poetico di Laura Accerboni, come emerge dalla raccolta Il prima e il dopo dell’acqua, edita da Einaudi, è perimetrato da quelle che a prima vista appaiono pareti domestiche. Al loro interno però sono ospitate strade e piazze cittadine, e straniate figure, improvvise apparizioni, spesso vegetali e marine. Gli stessi corpi degli umani che abitano i luoghi, il più delle volte indefiniti, non hanno stabilità, né identità certa: sono abitanti di un mondo in movimento e in continuo mutamento, rappresentazioni di un esterno fatto di oggetti e di altri esseri viventi anch’essi irrimediabilmente provvisori. Il corpo, la casa, le presenze animate e inanimate si scompongono e si ricompongono, dando luogo a figure straziate, in parte disarticolate, certamente frammentate. Sono personaggi inconclusi, in grado, con la loro sola presenza, di raccontarci la realtà, di dircene i disastri, di metterne in mostra le atrocità e la barbarie, i rari momenti di armonia.

In questo mondo ogni cosa, ogni essere vivente non è mai solamente se stesso, ma è pronto a trasformarsi in qualcos’altro (anzi la trasformazione avviene sotto lo sguardo affascinato e intimorito del lettore), è sempre sul punto di sfaldarsi in figure ambigue, rappresentative delle relazioni tra gli umani e di questi con gli individui, animati e inanimati, che li circondano. È un mondo sempre carente e barcollante, sempre in cerca di un equilibrio, che non può realizzarsi, se non assumendo come strumento di conoscenza il sentimento della mancanza e della fragilità, il senso della impossibilità di ogni possibile assetto. È quanto Accerboni esprime già nella prima poesia del volume, nella sezione che dà il titolo alla raccolta: “La sedia / ha solo / tre gambe / ma resta / in piedi / sopra / c’è tutto / il tavolo / e la cucina / e la casa / e poi ci siamo / noi / con la quarta gamba / tra i denti / e ringhiamo / ogni volta / che qualcuno / la tocca”.

La vita non è più in grado di rimettere insieme i pezzi, e questo determina l’improvviso aprirsi a inedite visioni, delinea una serie di inquadrature sghembe, produce immagini distorte che ci portano sgomenti di fronte alla nostra incapacità di prevedere e di sistemare razionalmente le azioni: “Ci sono giorni / in cui il sole / è un cucchiaio / rovesciato / e non arriva alla bocca / la felicità / è allora tutta nelle labbra / che si schiudono comunque / fallendo”.

Con la stessa modalità i versi penetrano all’interno delle relazioni sociali, a partire da quelle familiari: “La casa / l’ho pensata / su due piani // ‒ come sempre ‒ / una famiglia sopra // la stessa famiglia sotto / una porta blindata / per evitare si incontrino”.

La visione del mondo che ricaviamo da Il prima e il dopo dell’acqua ci porta immediatamente a un colloquio con la produzione artistica degli ultimi decenni. Acerboni acquisisce un punto di vista straniato e delirante, che la mette in relazione, come lei stessa dichiara lungo il percorso, attraverso citazioni e riferimenti, con le opere di Marlene Dumas, di Mark Rothko, Paula Rego, Maria Lai, Uffe Isolotto, Letizia Battaglia, Narda Zapata. I dettagli, il taglio delle inquadrature, i primi e primissimi piani, le luci e la luminosità dei colori, la posizione degli oggetti nello spazio, la scena visionaria, la piattezza e la profondità della vista, sono anche per questo altamente significativi. I testi sono scanditi da versi brevi o brevissimi, solitamente composti da una o due parole, che tendono a resituirci un mondo franto, un panorama scheggiato. Le poesie e i poemetti, allo stesso modo, ordinati in poche frasi o segmenti di frasi, ci portano su un terreno che si sfarina e sul quale il lettore si trova sempre in posizione precaria.

In questo paesaggio cangiante e in continua trasformazione, che è anche trasfigurazione e travestimento, anche le metamorfosi non si chiudono in una nuova immagine definita, ma lasciano qualcosa di incompiuto, fanno intendere ci sia spazio per un nuovo cambiamento. Insomma, nessuna cosa è mai del tutto vera, nessuno è mai pienamente se stesso: “I suoi amici lo / chiamavano / e lui entrava in acqua / ed era / tutto un corallo”, oppure “Ti ricordi / quando mi / sono fiorite  / le cosce / e si vedeva / solo un piede / e allora lo afferravi / dicendo / mamma / ma io ero / solo un cespuglio” o “Un giorno / ho cercato di metterti / dei vasi / dentro il volto”.

Siamo tutti in cerca di una identità, irrecuperabile perché forse non è mai esistita. Siamo attratti dall’eventualità di non esseri soli e di non essere solo passeggera moltitudine. A questo sembrano servire i legami familiari, innanzitutto. La famiglia, nelle poesie di Accerboni, è il palco su cui, prima che altrove, si rappresentano le condizioni enigmatiche e equivoche delle nostre vite, le modalità insieme affettive e poco rassicuranti, e sui cui, anche in questo caso prima che altrove, si cerca di recuperare un assetto, una condizione di equilibrio: “Da piccolo / suo padre / lo travestiva / da volpe / / sei furbo diceva / impara a scappare / e mimava / gli spari / con la bocca / Sua madre / alla sera / lo metteva / intorno al collo / dicendo / ho una pelliccia / nuova / che apre e chiude / teneramente / gli occhi”.


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

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