Sergio Buttiglieri
Al Teatro Verdi di Busseto

Un rave in maschera

Il regista Daniele Menghini ha attualizzato in modo molto intelligente "Un ballo in maschera" di Giuseppe Verdi. Ma, come al solito, i melomani tradizionalisti hanno protestato...

Un bellissimo Ballo in maschera verdiano messo in scena da Daniele Menghini, affermato regista di nuova generazione, all’interno del Festival Verdi 2024, è stato contestato dai soliti melomani: passano i decenni, ma la sperimentazione ancora non trova spazio in un mondo che cerca solo vuoti stereotipi. Questo mi era capitato alcuni anni fa anche con un Trovatore di Bob Wilson regista, pietra miliare del teatro sperimentale mondiale, che vidi al teatro municipale di Bologna.

Le diffuse contestazioni del pubblico che ho sentito uscendo dal teatro di Busseto sono sconfortanti e non sono certo utili a invogliare i teatri italiani a riportare in cartellone regie raffinate e non convenzionali come quella accurata di Menghini. Certo non ha messo in scena i cantanti con i soliti costumi d’epoca che si aspettava il pubblico tradizionale, ma la qualità del canto era di grande livello e se anche i protagonisti erano tatuati e sembravano dei vitelloni dei nostri giorni, e bevevano Coca Cola, anziché raffinati vini imperiali, o si sedevano su iconiche poltrone composte da teschi umani, non per questo l’opera è stata tradita.

L’importante è avere un cast all’altezza, anche se tutti al debutto, come Amelia, resa efficacemente da Caterina Marchesini, e Renato, uomo libero sul precipizio dell’eccesso che vive l’amore come ricerca del limite, e la festa come fuga, la vita come festa, ben impersonato da Ludovico Filippo Ravizza, e un buon direttore come Fabio Biondi accompagnato dal Coro del Teatro Regio di Parma da sempre ben guidato da Martino Faggiani. Coro fondamentale nel mondo verdiano: perché il pubblico ascoltandolo entra a far parte dell’opera non soltanto per quella sorta di loro delegazione in palcoscenico, che, come ricordava Fedele D’Amico, è giustamente il coro, ma anche come elemento formale, nella costituzione stessa della sua interna dialettica.

Un Ballo in Maschera con le divertenti scene di Davide Marchesini, e gli inaspettati costumi di Nika Campisi, il tutto ben illuminato da Gianni Bertoli ha stupito il pubblico tradizionale che non vuole che si cambi mai nulla nella lirica, e che non si rende conto che Verdi avrebbe gradito questa riuscitissima rilettura inconsueta andata in scena nelle sue terre. Lui sarebbe stato il primo a reinterpretare il testo del libretto di Antonio Somma, inizialmente ispirato alla figura del Re di Svezia Gustavo III in cui si ritrova vittima di una congiura ordita durante un ballo in maschera. Poi trasposto per ragioni di censura dell’epoca, in America e lui diventa governatore di una colonia inglese.

L’opera debuttò con successo nel febbraio del 1859 al Teatro Apollo di Roma. E da allora è una delle opere verdiane più amate e rappresentate nei teatri di tutto il mondo.

Il Ballo in Maschera è un capolavoro di espressione pura, di semplice rappresentazione fantastica, senza una goccia, senza neanche un’ombra di pretesa culturale. E di qui il disprezzo in cui era tenuto Verdi in genere alla fine dell’ottocento e al principio del novecento, quando sembrava che l’arte dovesse essere un fatto, anzitutto, di cultura.

Un Ballo in Maschera, ci ricordava sempre Massimo Mila, è la cosa più banale di questo mondo. Figurarsi: due che si vogliono bene, ma lei è sposata, e per di più al miglior e devoto amico di lui, che è governatore di Boston. Lo scoppio di un palloncino alla fine di una festa – scrive giustamente il regista Daniele Menghini nelle note di regia –: tanto sembra durare una vita. Non c’è tempo. Bisogna vivere, godere, ardere. E allora «ogni cura si doni al diletto» e con questo manifesto quasi “eretico” che Riccardo esorta la sua pazza corte a seguirlo in piena notte nel suo “disordine” tra una maga e un rave party nel suo precipizio dell’eccesso. Perché la vita, ci ricorda Verdi, resta una manciata di ore da sbranare voracemente proprio perché di “domani non c’è certezza”.

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