Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Resistenza e sparizione”

Poesia non veggente

La nuova raccolta poetica di Sergio Bertolino è come un antidoto a quell’abisso che può divorare ogni cosa: la vita delle passioni

Le poesie di Sergio Bertolino, contenute nel suo terzo libro di versi, Resistenza e sparizione, edito da Avagliano (postfazione di Giancarlo Pontiggia), nascono da uno sguardo segnato dalla visione, che è quasi esperienza, dell’abisso che può divorare ogni cosa ‒ la stessa poesia e la vita ‒, e dalla tensione, che all’abisso si oppone, verso orizzonti rasserenati, in direzione della “chiarità che non si dice / e a cui mi affaccio”. L’abisso è invitante e abbacinante, sembra condurre più facilmente all’atto creativo, ma solo temporaneamente, in quanto comporta per forza di cose perdita di controllo e sparizione. Per vedere chiaro, per penetrare davvero nelle forme, spesso oscure, dell’esistenza, per dare loro luce, non serve solo abbandonarsi, bisogna anche opporre resistenza agli scivolamenti, ai richiami attraenti che portano verso il basso, essere in grado di risalire, in qualche modo mutilandosi. Chi scrive a volte deve diventare un non veggente (come afferma Pascoli nel Fanciullino), per vedere più a fondo, per essere un aedo, per poter comprendere e cantare. È cieco Omero, che dalla cecità acquista la proprietà del canto e del racconto, così come è cieco il chiaroveggente Tiresia, che in questo modo vede quello che gli altri non possono scorgere. Scrive Bertolino in una poesia che fa parte della prima sezione del libro, Linee di mira: “io sento che dovrò sacrificarmi gli occhi / perché uno sguardo mi salvi / e dica nulla mi succede”.  O ancora nella sezione Secunda clavis, la terza della raccolta: “Mio puer ferito, / libertà vuol dire impegno. Tentare / a volte una strada senz’occhi”.

Da una parte dunque l’attrazione verso il precipizio, il fascino di penetrare in questo modo la profondità, atto che implica inevitabilmente anche la scomparsa. Dall’altra la menomazione, il percorso faticoso e comunque pericoloso, che conduce a paesaggi più sereni, ma non pacificati, e al canto. Per questo il poeta afferma senza mezzi termini: “Io sto nella biforcazione”; e più avanti “non so ancora sciogliermi in un guizzo, crearmi / un equilibrio per la voce”. Il percorso è difficile, la strada presenta numerosi ostacoli e genera incertezza.

I versi di Resistenza e sparizione si muovono lungo la linea di confine, fragile perché sono enormi e sempre mobili gli spazi che essa deve contenere: è il margine che separa “l’esattezza dell’istante”, che un “turbine” può improvvisamente sconquassare, le “parabole-rugiada alla ringhiera”, dai dubbi, dal “fiume dei miei inciampi”, dal “chiasso improvviso / uno scompiglio”. L’eroe di queste poesie è continuamente in lotta con un’altra parte di sé, che lo vorrebbe forse arreso, eclissato, incamminato per il percorso che porta all’assenza. Anche per questo i versi di Bertolino finiscono per indicare la strada per una discesa agli inferi, che sappia però restituire il poeta e tutti noi a un presente se non di comprensione assoluta della nostra condizione, almeno di realizzazione di un equilibrio che possiamo sempre solo cercare e intravedere, che non porta alla rassicurazione, ma a un moto di rinnovato vigore e di resistenza. Scendere verso l’abisso, o solo sospettarlo in fondo alla strada, porta infine a un disperato bisogno di lottare per continuare a porsi domande, perché “succede di venire all’essenziale / stando fermi”. O ancora: “Qualcosa certamente. Qualcosa va salvato”.

Non è un caso che la quarta sezione del libro, ultima, ha titolo Crisalide. È necessario un poco morire, diventare altro da quello che si era, e insieme continuare a essere se stessi, essere insomma, come la crisalide, che è anche bruco e farfalla, ma non è più bruco e non ancora farfalla, per arrivare alla parola nuova che sappia sondare l’esistenza: “Da secoli la strada è la ferita, / il grido escluso, la noia più feroce del vergare // senza un segno o commozione / o desiderio che implori questa carne / di vestirsi e andarsene / rinata…”. La poesia deve essere capace di accettare la sfida, “il volo pronto a intenerirsi / la lingua a farsi spada”.

La parola poetica di Sergio Bertolino nasce come da un precedente stato di compressione, che il poeta deve saper guidare e direzionare, al fine di condurre l’esplosione (o l’implosione) a un grado possibile di significazione e, come avviene in questi versi, a improvvisi bagliori, che sappiano “introdurre l’errore in ciò che vedo // e con paura celebrarlo”. Tutto ciò si esprime con particolare forza nella seconda sezione, Calata, nella quale, a contatto con il dialetto reggino (Bertolino è nato a Reggio Calabria nel 1984, da qualche tempo vive a Torino), la lingua si fa più densa e più evidente appare l’azione di compressione da cui essa nasce: “L’arduri è l’atra siti chi zannìa / chi cùbuli e chi muschi, / chi cùbuli e chi frischi ri limuni; / chi ddici: Vogghiu ‘u mbernu ‘u mbernu vogghiu / ‘u mbernu ancumarinu pi nchianari”. Che nel testo a fronte in italiano dello stesso poeta diventa: “L’ardore è l’altra sete che giochicchia / con cupole e con mosche, / con cupole e con fischi di limoni; / che dice: Voglio inverno inverno voglio / inverno comeazzurro per salire”.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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