Paolo Sgavicchia
Da Carver in poi

Fragili equilibri

Paolo Sgavicchia, allievo del corso di scrittura di Andrea Carraro, Filippo La Porta e Sebastiano Nata, "continua" un racconto di Raymond Carver

«Continua l’incipit del celebre racconto Cattedrale di Raymond Carver, proseguendo la narrazione e cercando di portarla rapidamente a conclusione, senza superare i 5000 caratteri circa»: questa la traccia di lavoro proposta dalla Scuola Orlando nell’ambito del corso di scrittura “Il racconto della realtà” di Andrea Carraro, Filippo La Porta e Sebastiano Nata. I due testi che pubblichiamo qui sotto, dunque, sono l’incipit di Raymond Carver e il “seguito” scritto da Paolo Sgavicchia.


(Raymond Carver, incipit de La Cattedrale). C’era questo cieco, un vecchio amico di mia moglie, che doveva arrivare per passare la notte da noi. Gli era appena morta la moglie.

E così era andato a trovare i parenti di lei in Connecticut. Aveva chiamato mia moglie da casa loro. Avevano preso accordi. Sarebbe arrivato in treno, un viaggio di cinque ore, e mia moglie sarebbe andata a prenderlo alla stazione. Non l’aveva più visto da quando aveva lavorato per lui un’estate a Seattle, dieci anni prima.

Comunque, lei e il cieco si erano tenuti in contatto. Registravano dei nastri e se li spedivano per posta avanti e indietro. Non è che fossi entusiasta di questa visita. Era un tizio che non conoscevo affatto.

E il fatto che fosse cieco mi dava un po’ di fastidio. L’idea che avevo della cecità me l’ero fatta al cinema.

Nei film i ciechi si muovono lentamente e non ridono mai. A volte sono accompagnati dai cani-guida. Insomma, avere un cieco per casa non è che fosse proprio il primo dei miei pensieri.

Quell’estate a Seattle lei aveva bisogno di un lavoro. Non aveva un soldo. L’uomo che avrebbe sposato alla fine dell’anno frequentava un corso per ufficiali. Non aveva un soldo neanche lui.

Ma lei era innamorata di questo tizio e lui era innamorato di lei, eccetera eccetera. Insomma, lei aveva visto un annuncio sul giornale – CERCASI LETTORE PER CIECO – e un numero di telefono. Aveva chiamato, era andata per un colloquio ed era stata assunta su due piedi. Per tutta l’estate aveva lavorato con questo cieco.

Gli leggeva della roba, relazioni, rapporti, cose del genere. Lo aiutava a mandare avanti il suo ufficetto nel dipartimento assistenza sociale della contea. Erano diventati buoni amici, mia moglie e il cieco.

Come faccio a sapere queste cose? Me le ha dette lei. E mi ha anche detto un’altra cosa. L’ultimo giorno di lavoro, il cieco le aveva chiesto se poteva toccarle il viso. Lei gli aveva detto di sì. Mi ha raccontato che lui l’aveva sfiorata con le dita dappertutto: il viso, il naso… perfino il collo! Lei non se l’era più scordato.

Aveva addirittura cercato di scriverci su una poesia. Era sempre lì a cercare di scrivere una poesia, lei.

Ne scriveva una o due all’anno, di solito subito dopo che le era successo qualcosa di molto importante.

Quando abbiamo cominciato a uscire insieme, me l’ha fatta leggere, quella poesia. Rievocava le dita di lui e il modo in cui s’erano mosse sul suo viso. Nella poesia, parlava delle sensazioni che aveva provato all’epoca, di quello che le passava per la testa mentre il cieco le toccava il naso e le labbra.

Ricordo che non è che mi piacesse molto, quella poesia. Naturalmente, non glielo dissi mica.

* * *

(Fragili equilibri di Paolo Sgavicchia) Comunque, mia moglie e il suo amico cieco, Roger si chiamava, arrivano a casa e io ero tutto soddisfatto perché avevo preparato la cena, così mia moglie poteva dedicarsi al suo amico e tutto quanto.

Solo che Roger sembrava proprio un cieco come li avevo visti nei film, col suo bastone bianco, gli occhiali neri e un cane peloso, anche bello grande. Mi è venuto da chiedermi dove lo avremmo messo, e anche cosa pensasse mia moglie dentro di sé, attenta alla pulizia com’era. Che va bene l’amico cieco, ma il cane peloso era un problema vero.

È venuto fuori che avrebbe dormito in soggiorno insieme a Roger, dove poi c’è anche la cucina. E per un po’ il soggiorno è diventato il bivacco dell’amico cieco di mia moglie e del suo cane peloso, che la notte non potevo neanche arrivare al frigo ad aprirmi una birra o accendere la tv sul canale del basket accaventiquattro.

Così al quarto giorno ho detto a mia moglie che, per carità, Roger era una carissima persona, ma che forse il nostro piccolo appartamento non era grande abbastanza. Mia moglie ha risposto che ero senza cuore verso gli amici e senza rispetto per lei.

Allora non ne ho parlato più, neppure del cane, e me ne sono stato buono per qualche giorno nel caso il tizio avesse sloggiato, non volevo passare per quello che pianta una grana inutilmente.

Fino alla sera che il cane peloso non scappa sotto il letto con il pollo arrosto appena tirato fuori dal forno.

Allora ho dato fuori di matto, e non potevo prendermela col cane, né con Roger, né con mia moglie e ho colpito con tutta la frustrazione e la rabbia il mobile della cucina, che si è rotto di brutto. Anche due dita della mano, a guardare la radiografia del pronto soccorso, dove siamo dovuti andare tutti, anche Roger e il cane peloso.

Dopo il ritorno a casa, con la mano ingessata che mi faceva un male cane, mia moglie mi ha detto che forse sarebbe stata una buona idea se fino alla partenza di Roger io me ne fossi stato da mia sorella, a recuperare un po’ del mio equilibrio, così ha detto.

Lì per lì non mi era sembrata una grande idea, anche perché mia sorella ed io siamo stati sempre molto legati, ma a una certa distanza, se così si può dire. Poi però sono stato a rifletterci, mentre mia moglie leggeva a Roger qualcuna delle sue vecchie poesie, e ho pensato che ci poteva anche stare.

L’ho chiamata, e non è che lei, mia sorella, fosse proprio entusiasta, e ha voluto mille rassicurazioni, sul tempo che sarei rimasto, e sugli spazi da rispettare e compagnia bella. Però alla fine il mattino dopo ero da lei, con lo zaino e la chitarra acustica, che con la mano ingessata neanche potevo suonare ma a casa con l’amico cieco e il cane peloso certo non ce la lasciavo.

Ci ho messo un po’di tempo ad ambientarmi, a casa di mia sorella. Alla luce diversa, ai rumori della strada, ai percorsi tra i mobili e le cose. Tipo come muoversi al buio in un posto nuovo, che mi ha pure fatto venire in mente l’amico cieco.

Poi, a poco a poco, ho cominciato a sentirmi a mio agio, e poi quasi comodo, anche se non proprio come con mia moglie, ma certo molto di più che con l’amico cieco e il cane peloso a girare intorno.

E giorno dopo giorno mia moglie l’ho chiamata sempre meno, anche perché l’amico cieco era sempre là, e il cane peloso pure, e l’idea di tornare a casa cominciava a sembrarmi sempre meno buona.

Anche mia sorella era più ospitale, e le piaceva che cucinassi e che suonassi per lei la chitarra dopo che mi hanno tolto il gesso.

Alla fine non sono più tornato, e anche Roger da quello che ho capito sta ancora lì, non so se con lo stesso cane o se l’ha cambiato, o se adesso che non vive più da solo può farne a meno.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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