Daniela Matronola
A proposito di "Là dove finisce il mondo"

La natura dell’anima

La nuova raccolta di poesie e prose poetiche di Olivia Balzar spinge continuamente il lettore ad andare oltre la superficie caotica e ingannevole della realtà

È fresca di stampa una nuova raccolta della giovane Olivia Balzar, Là dove finisce il mondo (Ensemble, 158 pagine, 16 Euro), che tecnicamente potremmo rubricare come prosimetro liquidando la pratica, ma è una felice unione di testi in versi e testi in prosa (prose brevi e prose lunghe quasi quanto dei racconti) tanto che viene voglia di distinguere, ed è bene farlo, tra le funzioni che queste misure e tessiture diversamente interpretano.

Ciò che subito colpisce è, per tutto il libro, una chiarezza di dettato e di struttura (raccolta in dieci parti per un centinaio o poco più di testi), che rende se possibile più struggente la resa della ferrea etica prematura (così piena di slancio verso il mondo e la vita, verso le persone e le cose) alla dispersione (frammentazione) di fatto, o meglio via via alla sempre più ineluttabile consapevolezza – del mondo o forse, anzi, della realtà quando li si guarda con occhi oramai adulti cioè, avrebbe detto Blake, imbevuti di esperienza: cioè con occhi perlomeno svezzati (e spezzati) proprio da quell’esperienza, della vita e del mondo, che si rivela preziosa e a un tempo condizionante, inesorabile e straziante, soprattutto luogo e tempo di strazio.

Proprio un dolce strazio pare essere ciò che se ne trae, cioè a dire: ciò che questa poesia, che sembra ogni tanto squadrarsi in prosa poetica nei punti in cui apparentemente si fa il punto nella scrittura del sé, riesce ad assorbire e liberare perfettamente.

Certamente un tema viene posto qui in forma dialettica, ed evolutiva: il rapporto con la realtà quale specchio di un rapporto col sé costantemente in transito, colto nella sua natura transeunte e instabile.

Cos’è la realtà? È la superficie caotica e ingannevole che contempliamo e che nella percezione deforma in funzione di mutevole oggetto noi soggetti, che tuttavia godiamo di una serie di strumenti capaci di forarla ed esplorarla a fondo rovesciandola ma soprattutto fiutando tutto quanto, o in parte, ciò che essa è, e che diventa esigenza insopprimibile identificare o perlomeno attingere seppure a tratti, tra squarci e pescaggi.

Ecco, a un certo punto, Olivia Balzar ci dice: La risposta è nel mare. Il mobile e nobile elemento.

La conoscenza o la percezione anche distratta o laterale o imperfetta però sospettosa che ci sia dell’altro da sapere e che anche la natura ontologica del sé e di tutti gli altri sé in cui ci imbattiamo, che per caso o sorte o destino o fato incrociamo, sia diversa da quella che ci rassicura, e che omologhiamo come attendibile, be’ tutto questo ci inchioda a una insoddisfazione che ci muove irresistibilmente a indagare oltre.

Soprattutto tutto questo funziona su di noi come moto ondoso, o meglio come onda d’urto, che, pare voler suggerire Olivia Balzar a noi che ci avventuriamo in questi suoi gustosi marosi, ci sposta e ci trattiene entro il bilico (parola ricorrente per tutto il testo) di una esistenza che si inchioda alla temporalità eppure proprio così ci aiuta a ricordare quel lembo di eterno da cui viviamo innaturalmente separati e verso cui volenti o nolenti ci orientiamo.

Tutto questo, ancora, ci candida a una evanescenza, a un inesorabile svanire (verbo ricorrente pure questo) che però ci dà il tempo e il modo di captare una dimensione parallela o più dimensioni tangenti, là dove resta ancorata (di nuovo il linguaggio del mare, della navigazione) la radice più profonda e autentica di noi umani – finisce quindi il mondo goffamente conosciuto, superficialmente rubricato e liquidato come nostra palestra di (auto)conoscenza e comincia un mondo nel quale non siamo più tagliati fuori da noi ma connessi di nuovo a scaglie, schegge, fili sparsi di noi stessi.

È suggestivo scorrere anche gli esergo posti in questo libro sulla porta di ciascuna delle dieci parti che lo formano: spicca tra questi proprio Melville e Moby Dick, il canto sacro della precarietà e della colpa; così pure Giorgio Manganelli che parlando del viaggio dice che esso consiste in sé stesso e non richiede che ci si allontani molto ma che si intraveda la fessura da cui far entrare tutto; o anche Ray Bradbury nel passaggio di Fahrenheit 451 in cui si legge: Quando ci chiederanno cosa facciamo, dobbiamo rispondere: Noi ricordiamo.

La memoria è sacra. Il sacro ha il suo spazio, la sua immanenza rivelatoria in questo libro, dove a un certo punto leggiamo: Non c’è sacro senza sacrificio, e poi: Danzare sui bordi al limitare dell’abisso, e ancora ci viene suggerito che il reale col giorno si porta via tutti gli spettri della notte in cui si danza e i fantasmi sono tutti veri (riecheggiando la notte di Hegel in cui tutte le vacche sono nere). Tutto questo delinea un’idea di impermanenza, sul piano della poetica, ma soprattutto alimenta, sul piano della poesia, una scrittura che di continuo si sofferma e vola, e che proprio dell’impermanenza si nutre.

E anche in questa chiave possiamo leggere l’alternanza di poesia e prosa.

Le prose, si diceva, brevi e lunghe, sono spesso racconti, evocazioni, quadri, idilli.

Le prose diventano anche invettive nella Parte IX, Schegge di memoria – un noto brano di Andrea Guerra recita, Sono gocce di memoria queste lacrime nuove / Siamo anime in una storia incancellabile / Le infinite volte che mi verrai a cercare nelle mie stanze vuote / Inestimabile / È inafferrabile la tua assenza che mi appartiene – sarà anche una canzonetta (del resto da qualche parte nel libro spunta pure Gino Paoli) ma contiene il fascino vertiginoso delle visitazioni. Proprio nelle prose di Olivia Balzar si animano figure che la rivisitano, che tornano, che vengono evocate, che irrompono a volte dal mondo di superficie e frantumano un incanto, sviliscono una prefigurazione – l’immaginazione, che la realtà sminuisce di continuo, è tutto ciò che abbiamo, è il monito che affiora sopra le macerie della sensibilità del sé poetante che diventa il nostro.

Dunque queste prose non sono solo o tanto un tempo e un luogo in cui fare il punto. Sono evocazioni del sé più profondo che pesca nelle sue risorse più squisite per leggere oltre un ingannevole velo di Maya con cui, come con un cellophane, tutto è reso opaco. E sono anche, mi si passi il termine, cronache puntuali di un relazionarsi amoroso e amorevole in cui l’incontro con l’altro è proprio l’opportunità univoca per trovare il gancio verso una conoscenza più vera, e poi smaliziata, smagata ma non svagata, e accensione dell’intuito più efficace. E nel passaggio, nel traffico della relazione con l’altro e con gli altri, c’è poi lo smascheramento più plateale, a volte anche vittorioso, degli inganni e delle trappole che puntualmente fioccano proprio nel crescere, nel passare dallo stupore della purezza alle stanchezze e alla ricorsività della noiosa esperienza: Alfred J. Prufrock, nel Canto d’Amore che gli fa intonare T. S. Eliot, non diceva forse: For I have known them all already, known them all – / Have known the evenings, mornings, afternoons, / I have measured out my life with coffee spoons; / I know the voices dying with a dying fall / Beneath the music from a farther room. / So how should I presume?). E il guasto è il rumore che irrompe e rovina l’armonia statica del silenzio sacro.

Però qui c’è un asso nella manica che è tutto femminile. Non più la maschile arrendevolezza, la resa. Non più una stasi depressa. C’è invece un fiuto, una sensibilità streghesca, un dono che sta nel captare acqua, la linfa della vita che scorre nascosta e di sé tutto informa, c’è il risanamento (e non la morte) per acqua.

SI desta un’anima tellurica più ampia che vola anche oltre la poesia. Che è di per sé oltre, o L’OLTRE.

Allora con Là dove finisce il mondo, titolo che evoca un confine, non si segna tanto un limite ma si apre una soglia, e la vittoria sull’oscuro indomito è una sorridente navigazione (di nuovo evocando Melville e dopo di lui rianimando la Grande Anima, il Grande Spirito che innerva ogni creatura e sottotraccia sa rinsaldare i fili delle svariate connessioni che in genere se ne stanno sguainate sotto il pelo della superficie).

Allora la figura che diventa viva e dominante è l’albeggio, il passaggio dal buio alla luce. E il gustoso visitare quel limitare e trattenervisi. E dei due termini tra cui ci si muove combinare ogni risorsa.

Il libro è corredato da due brevi scritti esterni: Prefazione di Ilaria Palomba e Postfazione di Cecilia Lavatore: passaggi rapidi, affettuosi abbracci. Per il resto questa raccolta sa perfettamente stare in piedi da sé.

La natura regala tutta la libertà / che la vita quotidianamente sottrae. / […] il mio respiro in sincrono con il vento. / Accolgo il silenzio come dono.
THE END.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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