Su "Linea di basso ostinato”
La fede nelle parole
La raccolta di tutte le poesie di Francesco Paolo Memmo rivela la personalità multiforme di un autore che riesce sempre a giocare con ironia sulle regole delle parole e il loro contrario
Questa Linea di basso ostinato di Francesco Paolo Memmo (che è il titolo della raccolta dei versi 1971-1997 e ora raccoglie tutte le sue poesia, Edizione Il Labirinto, 254 pagine, 22 Euro), un po’ richiama il basso continuo musicale, con la sua base bassa cui legarsi per costruire con una certa libertà l’armonia, un po’ un certo understatement, uno sminuirsi e sminuire la portata del lavoro che però, nell’ostinazione, finisce per trovare una nota quasi ironica che indica invece il valore centrale che questo ha. Trovo che tutte e due le cose abbiano una loro verità in questa scrittura più o meno trentennale di Memmo, che in queste poesie si rispecchia sino in fondo, e non a caso per altri trent’anni ha smesso di scriverne (ha ripreso solo da poco) visto, scriveva allora, come è stata lanciata «su questo nostro deserto la tempesta”, tanto che tra lupi ”e bile, e topi, e talpe, non ci sono più santi a cui / voltarci».
Quindi il basso, continuo disilludersi, o non farsi più illusioni sociali e esistenziali, prendendosi anche le proprie responsabilità per «quello che non ho detto / per quello che non ho fatto // questo soltanto devo / confessare / oltre l’inconfessabile». Così che questo scrivere su tale sentirsi e tenersi comunque basso e su questo sviluppare un tema e le sue variazioni in modo armonico, come richiede la poesia, che non vuol dire incapace di urtare, di usare la lama delle parole, dietro le quali cercar magari di nascondersi. Del resto il progetto, nel mare della vita, «ecco mimetizzarsi e poi più giù – fino / alla degradazione estrema alla scomposizione / in molecole in celle in particelle in H / e in O; quarto: sparire».
Sparire l’io, evitare il solipsismo anzi poetare per mostrare per rivolgersi al lettore, e sparire la poesia, negandola, ripudiandola, facendola. Un io così che è sempre lì, centrale, e si ribadisce anche nel sogno o il delirio, andando a fondo di sé stesso, rivelandosi in una sorta di inconscio che affiora, tanto che «di pari dispari con pesci fuor d’acqua / tutto un bestiario un assurdo incredibile bestiario» nell’incubo, quel che appare alla fine chiaro è il «numero 6 di Piazza Ungheria» e un uomo che della fede nella parola e nella letteratura era l’incarnazione mite e rigorosa assieme. Del resto ecco un linguaggio e figure calcistiche per concludere «la poesia è un gioco che si vince di testa», quasi nel suo implacabile lavorio a volerne negare il cuore che spinge all’azione.
L’ironia, che è cifra quasi costante di Memmo persona e di queste pagine, è proprio un tentativo di negazione razionale del sentimento che suscita la scrittura, il verso, in tutti i sensi, anche quello di sberleffo, di un malinconico e sfidante «lasciatemi divertire!». Molto di questo libro del resto ci pare abbia origini certo ricche, anche con legami a avanguardie quali il surrealismo e il dada e poi persino una punta di Corazzini crepuscolare, ma che sostanzialmente vanno da Palazzeschi al Montale più prosastico, in modo, come potrà verificare chi legge senza che riporto qui tante citazioni, quasi esplicito tanto appaiono chiari certi echi, certo riecheggiare.
Il suo «Rinnego qui a grandi lettere / spaziando LA POESIA / per lei recitando un deprofundis» è tutto in quelle maiuscole e nel dirlo in versi che rinnegano col loro essere il detto, l’invettiva dell’amante disilluso, che si sente più sicuro prendendo le distanze. Il fatto è che la poesia sorprende sempre, anche sé stessa, anche il suo autore. È la vitalità di quel cuore da cui la testa attinge per giocarselo in sapienza di scrittura, in una grande abilità nel gioco ironico, nel sarcasmo fine, nella capriola semantica, sempre costruendo ritmi musicali, giocando con assonanze, associazioni automatiche, cambi di lettere, omofonie e quant’altro rende queta raccolta davvero ricca, intelligente e sentimentale, ma anche divertente.
Un gioco dissacrante certo, ma appunto per ribadirne la moralità, il filo rosso di una tensione anche etica, nel non cedere a sentimentalismi verso sé stesso e verso il mondo, così che il rifiuto della poesia si rivela in realtà un rifiuto del poetico in nome della ragione. E allora si capisce l’importanza positiva, enunciata della rilettura, della lettura completa di Lucrezio e il suo De rerum natura, con quella conclusione: lo dovevo a me e «lo dovevo a voi, poetini dell’ultimo quarto / di secolo, innamorati e selvaggi, analfabeti, / spiritualisti di merda, che tutti i vostri / versi non ne fanno uno solo». Con cui ci piace concludere anche queste nostre notazioni sulla lunga, articolata, Linea di basso ostinato di Francesco Paolo Memmo.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.