Baldo Meo
A proposito de "La strada di Morandi"

Poesia dei contrasti

La nuova raccolta poetica di Marco Vitale ancora una volta testimonia un lavoro parallelo (e assai raffinato) sulla levità dei versi e la complessità del dettato

Ci sono poeti che maturano col tempo una loro voce personale ed altri che nascono già se stessi, per stile e contenuti. Marco Vitale, di cui esce La strada di Morandi (Passigli, 112 pagine, 14,50 Euro), è un esempio di questo secondo gruppo: poeta “concentrico”, lo ha definito Giancarlo Pontiggia nella Prefazione al volume Gli Anni (Aragno, 2018), che raccoglieva tutte le sue poesie scritte a partire dal 1985.  E in effetti, la poesia di Vitale ritorna, amplificandone il senso e l’intensità, su pochi temi essenziali. Non è un caso che il titolo di questo nuovo libro rimandi ad un pittore che ben rispecchia questa essenzialità e questa concentrazione di visione.

Poeta di rara sensibilità e discrezione, traduttore, critico, Marco Vitale ha della poesia una concezione che non ne fa una forma suprema di conoscenza, ma piuttosto la via privilegiata per fermare gli attimi di vita, le piccole epifanie quotidiane, le perdite e i ricordi, con la compassione che meritano e con la nostalgia di uno sguardo partecipe eppure lontano.

La strada di Morandi se, da un lato si pone come continuazione del grande lavoro racchiuso ne Gli Anni (che si chiudeva con poesie ora inserite nel nuovo libro), dall’altro sviluppa ulteriormente, accentuandoli, alcuni caratteri tipici della poesia di Vitale, a partire dalla destrutturazione sintattica dei versi e dalla punteggiatura quasi assente: «Non posso illudere di nuovo versi / sul giorno che si annuvola non brucia / più mi ragiona qui lo sbalzo/deciso della volta». O dalle figure retoriche: «Dovrei riprendere l’antico / che sapevi alfabeto/un tempo più di me»; «Quanto volte se adombrava una nube/la luce splendida sul campo/ne traboccava il cuore».

È qui la cifra di questo poeta: la grazia e la levità dei suoi versi sono pari alla complessità del dettato: le trasposizioni stilistiche (l’anastrofe, l’iperbato); le forme aggettivali ricercate (il cuore “catafratto”; il silenzio “merlato”; il confine “abraso”; il risveglio “levantino”); i verbi desueti o preziosi (“tralucere”, già presente nel secondo libro di Vitale L’invocazione del cammello, 1998); il ricorso a termini aulici e forme stilistiche di epoche antiche (“rifugio di colombe et ombre chiare”); le parole di nuovo conio (la rondine “gridiera”).

Una letteriarietà, questa, però, va detto subito, non ostentata, ma tenuta sempre su toni tenui, o neutri, (sempre Morandi). La “strada” è, allora, il percorso che il poeta ha scelto da sempre di seguire, quella verso la raffinata sobrietà dello sguardo.

Anche in questa raccolta troviamo le imitazioni dagli amati poeti francesi (Francis Jammes, innanzitutto, ma anche Paul-Jean Toulet, Apollinaire, Charles d’Orlèans), una forma già frequentata con maestria da Vitale; le poesie d’occasione; le dediche; gli appunti di viaggio (quasi delle gouaches in versi); i riferimenti colti alla pittura. E non potevano mancare gli amici poeti e le persone care, la comunità ristretta di affetti sempre presente in questa sorta di autobiografia laconica che è, anche, la poesia di Marco Vitale.

Alla musica soffusa e “in minore” di queste poesie fa da sfondo “il peso della caducità”, come ben sottolinea Gabriella Palli Barone nella prefazione al libro, “quell’iterato ‘non più’ che introduce alle coordinate della poesia di Marco Vitale, la pena e la dolcezza, di sguardi e di memoria”.

E davvero vi è in questi versi una malinconia che mette a distanza la Storia con la s maiuscola, che ripiega su un paesaggio interiore, sospeso tra reminiscenza personale e racconto fantastico: “Ci sarai stato pure tu/scendendo alla stazione in questo/vecchio, chiaroscuro caffè/tra questi legni che conservano/un’idea di dopoguerra/e un tempo che mi pare così tuo”.

Si ritrova in questi versi la memoria di Sereni e di Bertolucci. Di Sereni, del Sereni de “Gli strumenti umani”, c’è in Vitale il ragionare interiore, il dialogo continuo con un “tu”, interlocutore assente, che si muove tra il sogno il ricordo la veglia. Un dialogo che trova voce nelle tante domande sul “cosa resta?” che percorrono tutta l‘opera di questo poeta: «Scorrevano, per uno strazio così dolce/anche le nubi, le voci della sera/e il fondo di speranza e ti chiedi:/cosa ne è stato?».


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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