Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Luci a Mumbai

Con "Amore a Mumbai", premiato a Cannes, la regista Payal Kapadiya racconta la storia di tre giovani donne indiane per le quali la vita è un miracolo quotidiano. Sullo sfondo di una metropoli caotica

Le mille luci di Mumbai brillano nella notte indiana, nel film è quasi sempre notte e quasi sempre diluvia. Parafrasando Woody Allen, sono 21 milioni di valli di lacrime che non cercano una montagna di risate, ma piuttosto l’unica cosa che vince la solitudine: l’amore. Le tre protagoniste di All we imagine as light – titolo italiano Amore a Mumbai, secondo lungometraggio scritto e diretto dalla regista di Mumbai Payal Kapadiya e vincitore del Gran Premio Speciale della Giuria di Cannes, primo film indiano a conquistare questo riconoscimento – sanno che Mumbai non è la città dei sogni come molti pensano, ma piuttosto la metropoli delle illusioni, e alle illusioni è meglio credere se non si vuole impazzire.

Scordatevi le coreografie di Bollywood, non c’è niente che evochi la capitale indiana del cinema. Fin dalla prima scena girata nel caos di un mercato frenetico come un formicaio, la pellicola immerge lo spettatore nella città più densamente popolata del pianeta, 31mila abitanti per chilometro quadrato. Ed è la densità della metropoli “costruita dalle mani della povera gente”, le stanze nei suoi grattacieli-alveari in cui si frigge il pesce e si va solo a dormire, la vera protagonista della pellicola.

Una folla di donne preme nei corridoi del reparto di ginecologia dell’ospedale dove lavorano le tre infermiere che ci guidano alla scoperta di “tutto ciò che noi immaginiamo come luce”: Prabhu, Anu, Parvati.

La prima ha accettato il matrimonio combinato dalla famiglia perché “non è possibile sfuggire al proprio destino”, ma il marito è andato subito a lavorare in Germania, non le telefona da mesi e lei è sospesa tra l’infelicità quotidiana e la timidezza con cui accoglie le attenzioni di un dottore che le scrive poesie.

Anu è giovanissima, condivide con Prabhu il micro appartamento nel condominio-dormitorio, la ragazza sa che i genitori le stanno cercando un marito, ma lei è innamorata di Shiaz, un ragazzo musulmano che non sarà mai accettato dalla sua famiglia indù. Per Shiaz lei è pronta a ribellarsi alle regole imposte alle donne, strappa attimi di felicità baciandolo in metropolitana e non le importa se le altre infermiere sparlano alle sue spalle.

Parvati è la più anziana, vive da ventidue anni in una casa ereditata dal marito, ma non ha i documenti per dimostrarlo, così dovrà arrendersi ai costruttori che la raderanno al suolo per realizzare una lottizzazione di lusso, lei tornerà nel suo villaggio in riva all’oceano.

Questi tre destini si incrociano per raccontarci che la luce non è in fondo al tunnel, è già dentro, mentre lo percorriamo. Lo sguardo della regista segue con tenerezza le tre donne e le racconta con un’empatia contagiosa: lo stupore di Prabha quando riceve una macchina cuociriso dalla Germania mandata forse dal marito pentito; l’innocenza affamata di baci di Anu che per la prima volta si interroga sul futuro che la attende (la scena d’amore con Shiaz è semplicemente meravigliosa); la saggezza di Parvati che ritorna al suo villaggio quando capisce che non può nulla contro la prepotenza dei costruttori.

Le vicissitudini delle loro vite vengono accolte con gentilezza dalle tre donne ed è grazie alla loro complicità che possono lasciarle andare, come un amore perduto, come una lunga espirazione che allevia il dolore di una società in cui nascere donna condanna a un destino di inferiorità.
La colonna sonora e la fotografia che sostengono il racconto giocano un ruolo fondamentale nella pellicola: Dhritiman Das firma un commento essenziale e privo di percussioni, il fratello Ranabir crea atmosfere di grande suggestione. È grazie a loro e alla sensibilità della regista che All we imagine as light ci concede di ritrovare per due ore la meraviglia della vita, noi che ci lamentiamo avendo tutto, guardandola attraverso gli occhi neri e profondi di tre infermiere di Mumbai.

Post scriptum: per cogliere la poesia di questo film, per accettarne il ritmo lento, i piani sequenza, i dialoghi in cui ogni parola ha un peso e viene pronunciata come una verità a lungo meditata, è necessario vederlo in versione originale e ascoltare il suono delle lingue hindi e malayalam parlate e cantate sotto la pioggia di Mumbai.

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