Giuseppe Grattacaso
A proposito di "Amuleti"

Le parole e le cose

La nuova raccolta poetica di Lorenzo Pataro è quasi un'arma contro l'amnesia; contro la tendenza a dimenticare il senso della vita. Ed è proprio nella ricerca delle parole che si ritrova il significato delle cose

Gli oggetti, le azioni degli uomini, gli esseri viventi, ogni presenza attraversi le nostre esistenze, gli stessi ricordi, sono pronti ad abbandonarci, a prendere strade improvvide che portano chissà dove, a dispendersi in qualche abisso senza fondo. Il compito della letteratura, e della poesia che sempre, per sua propria natura, dovrebbe fare i conti con il tempo che sgretola e cancella, è porre un argine allo sfaldamento, difendere noi tutti dalla dimenticanza.

Gli Amuleti, a cui fa riferimento il titolo della raccolta di poesie di Lorenzo Pataro, edita da Ensemble (100 pagine, 13 Euro), possiedono proprio la virtù di allontanare il male dell’amnesia. Dobbiamo, suggeriscono i versi, continuare a guardare e a indagare, cercare un senso anche lì dove il senso sembra venire meno, nel tentativo di trattenere “il sacro sottile delle cose”. Gli amuleti emergono a volte, dai frammenti di un mondo arcaico e minuto (“il pastore che dorme tra i greppi e non sa di questo mondo”, “Chiamami col verso dei falchi e delle volpi / donami le orme del lupo”), da segmenti residuali mimetizzatisi e assopitisi nelle pieghe del nostro vivere quotidiano, dove forse è riposto un segreto, lì dove ancora ristagna la memoria di quello che veramente siamo e siamo stati.

Il mondo rappresentato nelle poesie e nelle brevi prose poetiche di Amuleti appare spesso gravato (o, chissà, reso più lieve) da una propria ostinata immobilità, che perdura anche di fronte all’agitarsi degli eventi, dei piccoli gesti naturali che il poeta mette e a fuoco con una lingua partecipe e sempre attenta a delineare, con precisione lessicale, l’oltre che abita le cose e gli avvenimenti. È uno spazio immobile quello nel quale cercare gli amuleti, perchè fuori dal tempo e dall’ordinario affacendarsi degli esseri umani. Bisogna esplorare territori insoliti, lontani da ogni centro, a loro modo periferici perché meno frequentati e meno in sintonia con lo spirito del tempo: solo in quei luoghi oltre i margini della contemporaneità potrebbero trovarsi gli oggetti magici capaci di deviare il male, di portarlo lontano. Dobbiamo imparare dai cani “a chiedere sete”, suggerisce una poesia, e implorare la mano per invocare “l’acre resto / del seme, il fossile vivo sotto la rena / davanti alla casa nei giorni d’estate, / l’ora di sonno che manca alla meta, / qualcosa che porti tutte le cose / finalmente a girare come un destino, / il segno estinto del fiume e il suo delta / da mettere sotto il cuscino e aspettare / che arrivi la piena, il rovescio dell’acqua / a smidollare le ossa, a seccare il magma / nascosto, la fame religiosa dei tarli”. Il fronte ultimo è forse proprio in quel “qualcosa” (amuleto, residuo, lingua da inventare, segreto sul punto di svelarsi?) capace di mettere ordine in “tutte le cose”, di offrire loro un destino.

L’orizzonte poetico di Lorenzo Pataro, ventiseienne (ma il libro risale al 2022), calabrese di Castrovillari, alla falde del Pollino e a un passo dalla Lucania,  alla seconda prova in versi dopo Bruciare la sete del 2018, è abitato da figure marginali e logore, in disuso, o comunque consumate, manomesse o malconcie, eppure fulgide nel loro inconsapevole desiderio di permanenza. In questi oggetti, all’apparenza senza vitalità, è annidata forse l’indole in grado di soffrirci un’ipoesi di salvezza: “Il calice di legno, intarsiato, l’elsa / sulla tavola. (…) / la tua pelle / stella di carbonio, la scodella / rovesciata, il pane azzimo, la preghiera / che nessuno ti ha insegnato, la moneta / etrusca, sul palmo, a leggerti il futuro”.

Lo sguardo puntato su un paesaggio ancestrale, che evoca presenze antiche, fa pensare alla tradizione poetica meridionale, così viva e peculiare nei decenni centrali del Novecento, a Sinisgalli, a Gatto e Cattafi,e in particolare a Libero De Libero, in quest’ultimo caso soprattutto per l’uso di un linguaggio costruito sulla densità di immagini quasi isolate dal contesto, rese, in questo modo, degne di celebrazione e caricate di maggiore significazione.

La lingua della poesia lotta dunque, nelle liriche di Pataro, contro la dispersione e la perdita, e così, proprio come avveniva nei poeti del cosiddetto lirismo meridionale, considera presenti o comunque recuperabili alla vita anche coloro che non ci sono più. I morti sono in fondo ancora parte animata della vita dei luoghi, ne rappresentano lo spirito profondo e gli amuleti. Come tante cose che non ci sono più, tornano a nutrire di sacro le nostre esistenze: “le ceneri dei morti disperse come / fossero amuleti per i vivi, / i vasi di maiolica e i relitti, / le case di creta sepolte nella luce, / ogni goccia a ogni goccia / ha tramandato il suo mistero”.

I morti dunque sono da glorificare, anche quelli dimenticati, resi ancora più lontani dall’usura del tempo, i “morti del paese a cui non pensa / più nessuno”, che hanno intorno a sé “gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi, / il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate”. Confida il giovane poeta: “Penso a tutti i trapassati / che non lasciano una scia. Benedico / i loro nomi, percepisco il loro sonno / come un ago, la mia notte / nella cruna della loro”.

Scrive Elio Pecora, nella prefazione alla raccolta: “Quel che resta qui di una fitta elencazione di luoghi, oggetti, animali, piante, stagioni è insieme vigilanza e stupore, attesa trepida e insopprimibile desiderio di essere e di restare”. La poesia di Pataro nasce proprio dall’esigenza di sorvegliare la sua e le nostre esistenze e ancora di provare meraviglia della straordinaria inadeguatezza del mondo.


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

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