Anna Camaiti Hostert
Cartolina americana

Le favole di Trump

Il metodo Trump, ossia confondere la realtà in uno stagno di menzogne, ha cambiato il mondo dei media: ormai, in tv e sui giornali, le opinioni contano più dei fatti

Negli Stati Uniti ormai da tempo molti media direttamente o indirettamente, in una situazione anomala per questo paese, si schierano apertamente in una sorta di ecosistema dove i fatti non costituiscono minimamente una base per definire la realtà e dove viceversa sono le opinioni a modellarla. Le cose vanno sicuramente così da ormai più di un decennio, almeno da quando siamo entrati nell’era politica di Donald Trump. Ma non è sempre stato così. L’imparzialità della stampa e i fatti hanno sempre costituito elementi fondamentali di definizione dei media americani. Ma per essere precisi, la situazione è ormai in questo stato, anche se non così compromessa come adesso, da molto prima dell’entrata in politica di Trump.

Alla fine degli anni ’40 il monopolio dei tre maggiori canali televisivi ABC, CBS e NBC, convinse il Congresso e la Federal Communications Commission a varare la Fairness Doctrine, quella che noi chiamiamo par condicio, che assicurava che le emittenti e la stampa in generale dessero spazio sufficiente a tutte le varie opinioni presenti. Tutto ciò è rimasto in vigore fino ai tardi anni ’80 quando a dispetto del fatto che il Congresso abbia tentato più volte di trasformare questa policy in legge, sotto la presidenza Reagan, fu abbandonata. Sull’onda di questo abbandono Roger Aisles riuscì a far nascere negli anni 90’, allora unico fenomeno del genere, Foxnews il canale di nicchia di stampo prettamente conservatore. Si creò così un ambiente nel quale i pregiudizi iniziarono a farla da padroni e la fiducia del pubblico nella forza informativa del giornalismo diminuì a grandi passi. Assieme a ciò si formò una sorta di assuefazione ad un clima politico di partigianeria. I pozzi erano ormai stati avvelenati. Questo imbarbarimento progressivo del racconto dell’agone politico e della salute della democrazia americana è ben descritto dal recente saggio di Paul Pierson ed Eric Schickler Partisan Nation: The Dangerous New Logic in American Politics in a Nationalized Era nel quale si afferma che la società fa affidamento sui media “come percorso dominante attraverso cui i cittadini interpretano il mondo politico” e che questa fiducia nella loro imparzialità è stata profondamente tradita. Come cittadini dobbiamo pretendere dai nostri giornalisti che chiedano conto a tutte le parti politiche delle loro scelte.  È per questo, proteggendo ovviamente il primo emendamento, che un ripristino della Fairness Doctrine nel campo dell’informazione si rende necessario.  Proprio perché una verifica dei fatti e dell’importanza della verità, assieme al ripristino di un’etica e di una deontologia professionale in larga parte disattese, possano guidarci nel districare le tensioni sociali, dando un senso di imparzialità e di decenza al dibattito politico. Se la gente comincia a non fidarsi più delle fonti dell’informazione che per definizione dovrebbero mettere in discussione anche le proprie convinzioni “questa è la ricetta per la disinformazione e porta certamente a una predisposizione verso una cattiva informazione” scrivono Yoichi Benkler, Robert Faris e Hal Roberts nel loro saggio Network Propaganda: Manipulation, Disinformation and radicalization in American Politics.

Con queste premesse coprire questa campagna elettorale e soprattutto un personaggio come Donald Trump diventa complicato. E sorge un dubbio: i giornalisti devono compiere quello che viene definito sanewashing una sorta di lavaggio sanitario delle opinioni dell’ex presidente il cui linguaggio è spesso crudo, scurrile e offensivo o invece soccombere a quella che è stata definita la “banalità della pazzia”? I suoi comizi dovrebbero essere trasmessi integralmente o invece non essere trasmessi affatto? I fatti verificati o no?  Molti libri sono stati e saranno scritti su come Donald Trump ha influenzato lo stato di salute dei media e della politica in generale molto tempo dopo il suo avvento e la sua scomparsa. Con un esperto di fascismo nel 2020 ho provato a scriverne uno Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto prima ancora che accadessero i fatti del 6 gennaio 2021. Ricordo ancora lo scetticismo e l’ironia che circondò l’uscita del libro: come potevo paragonare il capo della più grande democrazia del mondo a Benito Mussolini il capo della infame dittatura fascista e trovarne punti in comune? Di alcuni giorni fa le dichiarazioni del capo del suo staff alla Casa Bianca, il generale John Kelly, che ha definito Trump un “fascista” nel vero senso della parola, mi hanno purtroppo dato ragione.

Trump è sempre stato molto attento a quello che i media dicevano di lui fin dai tempi in cui era un Vip a Manhattan. È uscito di recente un film The Apprenctice. Alle origini di Trump in cui il regista Ali Abbasi fa un ritratto ben preciso di chi è veramente Donald Trump e del suo mentore Roy Cohn avvocato senza scrupoli, difensore di numerosi mafiosi e personaggio del jet set newyorkese. Cohn ha insegnato a Donald Trump tutti i trucchi peggiori per rimanere a galla a dispetto dell’evidenza e a scapito della verità.  Collaboratore negli anni 50’di Joseph McCarthy, di cui si vocifera fosse stato anche l’amante, nella sua crociata anticomunista, Roy Cohn istruì il processo che mandò alla sedia elettrica i coniugi Rosenberg e numerosi gay. Morto di Aids negli anni 80’ Cohn ha sempre negato di essere omosessuale e di avere contratto la malattia a causa dei suoi costumi sessuali promiscui, dichiarando invece di avere un cancro al fegato. Da lui Trump ha imparato l’insofferenza per qualunque tipo di controllo democratico e di  controllo in generale, l’attenzione spasmodica ai media, la capacita di fare affermazioni esagerate e oltraggiose per colpire la sua audience e i suoi avversari senza pietà, il diniego assoluto di dichiarare una sconfitta (uno dei punti chiave della strategia dell’avvocato newyorkese che l’ha insegnato a Trump, con i risultati che tutti conosciamo) e il totale disprezzo per la verità e  per qualsiasi principio morale. Di suo Trump possedeva già un narcisismo esasperato e un desiderio malato di primeggiare schiacciando chiunque gli si ponga contro. Ogni giorno Trump fa affermazioni razziste, misogine, omofobe, violente che non fanno più notizia che non sono più breaking news. Ma, si chiede Michael Tomasky editorialista della New Republic, questo è sufficiente per non riportarle sui giornali o per non parlarne in televisione?  È pur sempre realtà, commenta il giornalista, purtroppo realtà quotidiana. E il professore di scienze politiche Brian Klaas che denomina questa realtà giornaliera, banalità della pazzia, mutuando l’espressione dalla filosofa Hannah Arendt che con la banalità del male si era riferita all’atteggiamento dei gerarchi nazisti durante il loro processo a Israele, riflette su come i giornalisti appaiano intormentiti dalle pazzesche affermazioni che Trump proferisce quotidianamente, in modo tale da renderle normali,  e non siano viceversa più  scioccati da certi termini che certamente sarebbero criticati e farebbero notizia se venissero da altri candidati.

“Trump è davvero una figura difficile da raccontare perché ogni giorno sfida tutti i processi dell’informazione e dei media; lo ha fatto per anni” ha affermato Maggie Haberman, editorialista di Time a NPR (National Public Radio).  “I sistemi dei media non sono stati costruiti per avere a che fare con qualcuno che ogni giorno dice cose non vere o che parla in modo incoerente. Penso che i media, nella maggior parte dei casi, abbiano fatto e stiano facendo un buon lavoro mostrando chi è davvero Trump, quello che dice, o quello che fa” conclude la giornalista. I critici dei media viceversa sono frustrati per il fatto che questo lavoro però non ha l’impatto che dovrebbe avere in quanto, “la stampa dovrebbe potere persuadere la gente a cui piace Trump che si sbaglia. Ma la stampa non può fare questo” afferma Tom Rosenstiel professore di giornalismo all’università del Maryland. Solo se riportasse a galla la Fairness Doctrine però si potrebbe capire che questo non è il compito della stampa. Allora forse basterebbe semplicemente far vedere Trump “raw”, integralmente, cosi come è, senza sanewashing, e non ci sarebbe neanche pericolo di essere intormentiti da nessuna banalità della pazzia, perché il solo confronto paritario con la sua avversaria, farebbe emergere la differenza e con essa la verità.

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