Daniela Matronola
Su “A Napoli con Massimo Troisi”

In viaggio con Troisi

Donatella Schisa ha compilato una sorta di guida della città di Napoli così come l'ha raccontata - e soprattutto vissuta - Massimo Troisi

Ricordo perfettamente il pomeriggio del 4 giugno 1994: un gruppetto di noi era diretto fuori Roma a un concerto di musica lirica in cui la cantante era un soprano nostra amica come amico era il pianista che la avrebbe accompagnata. Era previsto che ci raggiungesse Gregorio Zappi, compianto redattore di RaiTre a Cultura e Spettacoli, il quale invece ci avvertì che non sarebbe riuscito ad esserci perché inchiodato in redazione dalla notizia della morte di Massimo Troisi.

Massimo Troisi aveva finito di girare giusto in tempo Il postino, trasposizione del romanzo di Antonio Skàrmeta Il postino di Neruda. Le riprese erano terminate il giorno prima, il tre giugno. Quando tutti abbiamo visto il film, non abbiamo potuto fare a meno di osservare l’aria patita, di sofferenza, la magrezza dell’attore, così adatta a fargli vestire i panni di un uomo gentile e puro che si strugge d’amore, però vuole soprattutto imparare dal poeta cileno in esilio sulla sua isola, al quale consegna la posta ogni volta che ce n’è, come esprimere l’amore senza rendersi ridicolo, come dare voce al proprio amore in versi che non diventino ragli o sciocche lagne.

Ripenso spesso a quel pomeriggio, al modo crudele in cui ricevemmo la notizia, e allo strazio che seguì, come fosse morto un parente o un amico.

Questa sensazione, di familiarità, di umana simpatia, di grande naturalezza e confidenza, veramente quasi di parentela, si ricava anche leggendo l’agile e straordinaria guida di Napoli, accompagnati appunto da Massimo Troisi, scritta dalla avvocata-scrittrice napoletana Donatella Schisa, A Napoli con Massimo Troisi, che è il volumetto n.56 della fortunata collana, Passaggi di Dogana, dell’editore Giulio Perrone (Pagine 198, 16 euro).

È un libro affettuoso, questo di Donatella Schisa, e documentatissimo. Capace soprattutto di riannodare tutti i fili che legavano Massimo Troisi a Napoli, a partire dal borgo di San Giorgio a Cremano in effetti in contiguità spontanea e in continuità culturale con la metropoli partenopea.

Donatella Schisa ci informa giustamente di aver dovuto scegliere una forma entro la quale dare conto della densa esperienza di vita di Massimo Troisi e dopotutto la chiave più consona è aristotelica cioè peripatetica – passeggiamo con Massimo Troisi, come è poi spontaneo fare con una guida alla mano, e tocchiamo tutti i luoghi che hanno contato per lui: il teatro parrocchiale a San Giorgio dove entrava scivolando per una ripida discesa, le sale e i teatri di Napoli, lo Stadio San Paolo (ora intitolato a Diego Maradona), il palazzo in piazza dove abitava coi familiari (il padre ferroviere e la madre sarta, e poi fratelli sorelle cugini zii: erano quindici in casa, e col suo naturale senso del paradosso Troisi si rammaricava, se mancava qualcuno, di essere solo).

Non starò qui a rievocare e ricordare e citare tutto il repertorio delle storie e degli sketch e degli aneddoti che hanno costellato l’esistenza di Massimo Troisi, tra vita personale e vita d’attore, perché il libro ne è ricchissimo, e ci permette, se mai abbiamo dimenticato anche solo una delle sue battute o interviste o chiacchierate in tv con Baudo o con Minà o con tutti quelli che hanno avuto la fortuna di avere a che fare con lui, di ritrovare, nel libro, un compendio completo di tutto ciò che Massimo Troisi ha profuso nella ventina d’anni in cui ha agito su tutti noi, in fondo fornendoci anche una filosofia di vita che era soprattutto sua ed è velocemente diventata nostra. Come un influencer ante litteram. Come un maestro di vita inatteso e preziosissimo a cui non abbiamo potuto far altro che affezionarci e guardare come a un fratello saggio e bizzarro. Vale la pena di immergersi nel libro anche per ritrovare tutto questo.

Però proprio il patrimonio, lasciatemi dire, filosofico di Massimo Troisi mi interessa qui esplorare.

Massimo Troisi era un buon calciatore e aveva il pallino di diventare professionista. La salute però non lo ha aiutato. Aveva un problema al cuore, e già a vent’anni aveva dovuto subire un delicato intervento al cuore negli Stati Uniti, al quale aveva potuto accedere grazie a una generosa colletta dei suoi paesani, che già lo conoscevano come attore di cabaret con i suoi compari Lello Arena e Enzo De Caro (il bello, di Portici – il più napoletano dei tre), ma soprattutto come compaesano simpatico, molto caro. Insomma il suo vero sogno, il calcio professionistico, si era presto infranto, e il fatto che poi, nonostante il problema di cuore incombente da cui era afflitto, abbia militato nella Nazionale Attori e abbia duettato in simpatiche schermaglie davanti al microfono di un cronista sportivo nientedimeno che con Diego Armando Maradona in quella stagione del Calcio Napoli che è stata storica ed è diventata leggendaria, la dice lunga sulla sua tigna di voler restare in ogni caso fedele a questa sua passione totale.

Ma appunto proprio questa difficoltà oggettiva gli ha fatto poi scegliere definitivamente il teatro, l’azione scenica, la professione d’attore, e l’audace, un po’ cieca, scelta di dirigersi i film da sé, dunque di diventare anche regista e sceneggiatore (il suo cinema, profondamente napoletano, lo ha scritto con Anna Pavignano, piemontese). Qui si innesta forse la qualità in assoluto più tipica di Massimo Troisi: la lingua. La naturalezza con cui Troisi in qualunque contesto cedeva subito a un eloquio densamente napoletano era il segnale (che lui stesso ha a più riprese precisato) della fiducia nella potenza espressiva e dunque nella comprensibilità indiscussa del dialetto, giustamente parlato come una lingua. Quante volte soprattutto i produttori hanno detto a Massimo Troisi di esprimersi dunque scrivere i film e i testi per il teatro in italiano per eliminare il baluardo di una lingua stretta che poteva ridurre la platea del suo pubblico. Massimo Troisi non ha mai ceduto su questo punto, e ha vinto, perché il suo napoletano è una koinè talmente sonora e semantica che non solo non è un ostacolo ma è l’unica chiave per entrare in un mare di significati non solo letterali ma soprattutto ampi, simbolici, metaforici. È una vera filosofia del linguaggio la sua, talmente acuta, alta, di intelletto, che intender non la po’ chi no la pruova, e serve a tutti noi, su un vassoio d’argento, l’intelletto d’amore che a mio parere è il senso ultimo di tutto ciò che Massimo Troisi ha fatto nella sua carriera di attore regista e sceneggiatore. E anche di poeta. Lo vedo e lo sento molto affine a Pino Daniele, in questo.

Il napoletano come lingua franca, come l’inglese da tempo e come in antichità il latino, ma in pace, senza sopraffazione, veramente come strumento di incontro e di comunione, come legante e non come catena.

Pino Daniele lo sapeva così bene che usava il napoletano come slang partenopeo e visto che il suo canto era un blues spesso lo intrecciava a brevi giri di frase in slang anglopartenopeo: Yes I know my way / Ma nun’ è addò m’aie purtato tu / Yes I know my way / Mo’ nun me futte cchiù / Mo’ nun me futte cchiù / Tu vaje deritto e i’ resto a pere / Va tu va, tant’io sbareo… e si potrebbe continuare.

In napoletano Troisi componeva anche versi. Aveva grande sensibilità per la poesia. Pochi forse si sono accorti che in Pensavo fosse amore invece era un calesse, nella scena in cui in libreria amoreggia con la fidanzata quasi sposa, Cecilia (Francesca Neri), a un certo punto Tommaso (Troisi) esclama in estasi: Bèll bèll bèll, allora lei si scuote e gli chiede: Ma chi è Elena? Bene è una citazione da Il Piacere di D’Annunzio (voluta?, non voluta?, non si sa), cioè del momento in cui Andrea Sperelli, al colmo delle effusioni con Maria, inavvertitamente la chiama Elena (la Elena Muti di cui intanto si è invaghito). Spassoso, nel film. Ma anche drammatico, da lì è tutto un precipizio verso la rottura e il naufragio della loro relazione.

Massimo Troisi era molto casalingo. Quando si trasferì a Roma, in via Ristori (ma una parte della casa dava anche su via Salvini), sono stata sua vicina di casa ma non l’ho mai incontrato. Donatella Schisa in questo libro, ma per dire anche Carlo Verdone che lo frequentava, raccontano che aveva attrezzato la casa in modo tale che gli amici –le poche persone che era disposto a frequentare– trovassero tutto quello che potesse soddisfare i loro desideri: lo schermo cinema, il biliardo, e altro per trattenersi e intrattenersi. Ho giusto incrociato (tutto intabarrato e camuffato nel maggiolino dal benzinaio di via Salvini) Francesco Nuti, ma Massimo Troisi mai, però sapevo che c’era e solo saperlo mi faceva gran compagnia.

Massimo Troisi, ci conferma Donatella Schisa, era un teorico della pigrizia – la pigrizia come filosofia di vita anche se nei fatti sappiamo che poi Massimo Troisi era una persona molto attiva. Ma tutto in lui era lento, posato, quasi attendista. Ecco il libro racconta bene anche questo sostanziale ossimoro che c’era in Troisi: il libro costruisce, esemplarmente, un grandioso monumento alla sua sacra fiacca.

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