A proposito de “Il male che non c’è”
La malattia di Loris
Il nuovo romanzo di Giulia Caminito ripropone (e completa) le atmosfere e il carattere chiave della sua fortunata storia “La grande A”: una grande inchiesta sul disagio
Torna in libreria, dopo i fasti del Campiello, Giulia Caminito con il nuovo romanzo Il male che non c’è (Bompiani, 268 pagg, € 18) che rappresenta, al tempo stesso, un punto di raccordo e un punto di svolta rispetto ai suoi romanzi precedenti. La continuità è rappresentata dalla ripresa di un personaggio chiave, sebbene con nome diverso, de La grande A, da magnifiche descrizioni della campagna periferica romana, sporca e fuori da ogni idillio (come in L’acqua del lago non è mai dolce) e, soprattutto, dal girare a vuoto dei personaggi.
Se Gaia, ne L’acqua del lago, faceva un giro di apparente crescita sul tabellone del Monopoli dell’adolescenza, per ritrovarsi, alla fine, daccapo alla casella del Via!, Loris, il protagonista de Il male che non c’è, è da subito bloccato: trentenne irrisolto, talmente prigioniero della sua ipocondria da raffigurarsela come personaggio mutaforma, Catastrofe, che assume via via apparenze diverse: da angelo caduto, a bambina di Shining, da personaggio di Anime ad Anna Karenina.
Loris lo vediamo da subito destinato alla rovina, appassionato all’ossessione dalla lettura sin da bambino, studioso di letterature in giovinezza, infine precario stagista in un’efferata casa editrice, che non lo paga, come non paga collaboratori e autori (e per quanto attenuato, il ritratto calza a pennello alle redazioni di tante realtà italiane). E appassionato, innamorato quasi, della sua malattia ipotetica, talmente innamorato da farla diventare reale: Loris non è malato, ma si consuma, non è malato, ma si ammala trovando su Internet risposta a tutti i suoi sintomi, non è malato, ma si dissangua, sperperando soldi non suoi, in visite e accertamenti dolorosi e umilianti.
«Il dolore è come un uovo dal guscio compatto, senti d’averlo ingoiato e scende giù – gola, esofago, stomaco -, trova il luogo in cui depositarsi, non si cura del giorno e del momento, ha sempre voglia di farsi ascoltare; è ovale, è cemento, è incredibile che esista e occupi spazio.
Il dolore sta lì e spinge, spinge e diventa bolo, nodulo, è sodo, lo puoi tastare sottopelle, finché il guscio non si crepa e qualcosa esce.
Non c’è traccia di tuorlo, non c’è mollezza d’albume, ma una creatura minuta e pallida – un girino – che circola e non si frena, inizia a percorrerti dalle scapole al tallone.
A questo pensa Loris, la schiena sul pavimento, quando il suo uovo si schiude e la sua bestia corre.
Il bagno è due metri per tre, i suoi piedi sono contro la porta e la testa tra il bidet e il lavandino, da là nota le giunture, i bulloni, le guarnizioni sporche, i capelli arricciati alla base dei tubi di scarico, ed è un mondo metallico e idraulico che nonostante le imperfezioni funziona, fa quello che deve.
Jo bussa e dice: Che scherzo è?».
Nulla può l’amore di chi gli sta accanto, dei genitori, della ragazza Jo, che arriva persino a massacrarlo di botte al culmine dell’esasperazione. L’unico rifugio alla claustrofobia unta e sudata di Loris è la rievocazione di un’infanzia felice, il rapporto con il nonno Tempesta, coltivatore improvvisato in una campagna selvaggia e devastata e allevatore senza senso di colombi in cattività. Sono queste le pagine più felici di Caminito, dove lascia spazio a un lirismo concreto, macchiato da sangue di piccione e dalla felicità della semplicità irsuta di un Tempesta, reduce da mille viaggi e mille avventure, terminate in pantaloni troppo larghi e agganciati tenacemente alla vita con bretelle usurate.
«In alcuni punti, dove i cancelli creavano delle rientranze, Loris vedeva buste della spazzatura buttate o svuotate nell’erba. I cani dei pastori scendevano dai campi e leccavano i vasetti di plastica, rosicchiavano le ossa fino a romperle e si accanivano sulla latta. La carta dei volantini promozionali da supermercato si incollava alla strada con la pioggia e lasciava la traccia degli sconti settimanali fino al venti per cento.
La campagna era sporca e pacifica, si sentiva solo il motore dell’auto di Tempesta che lavorava rapido e non rallentava al passaggio di una motocicletta. (…)
I pini domestici dai tronchi stretti erano altissimi e limitavano i perimetri delle cascine più grandi, dove loro non erano mai entrati. Alcune appartenevano a delle famiglie nobili, che le stavano lasciando crollare di pezzo in pezzo. (…)
Gli amici di Tempesta vivevano in case a due piani vicine alla strada, sul retro avevano costruito dei capanni degli attrezzi con lamiere ondulate e ferrose. Molti di loro li portavano giù per delle scale senza intonaco per visitare i garage, dove le automobili vecchie venivano tenute ferme, c’erano seghe elettriche, smerigliatrici, cataste di cartone o di sacchi vuoti, giornali d’anni passati tenuti legati con lo spago, abiti da lavoro logori, sedie senza schienale: erano luoghi familiari, che somigliavano a Tempesta, alla sua ferraglia, al suo archivio del fai da te».
Ma limitare il lavoro di Caminito a una descrizione, pur avvincente, del decorso psicotico di un giovane uomo bloccato, è farle un grande torto.
Il male che non c’è ha almeno tre strati narrativi:
- Quello della malattia come ricatto e necessità di attenzione, del terrore del non sentirsi pronti alla vita svoltati i vent’anni, là dove sorge la retorica dell’assunzione di responsabilità. Là dove la fragilità, dove il diritto all’infelicità vengono negate dalla logica del colpo di reni. Chiunque ricordi i suoi trent’anni, leggendo Caminito, ne risente il peso e l’angoscia e riconosce in Loris un sé stesso che ha fatto un passo troppo avanti nella spirale dell’angoscia.
- C’è uno strato fortemente politico e di denuncia sociale, perché, se Loris non trova uno sbocco di felicità in un impiego che gli dia riconoscimento e speranza, non è una sua responsabilità. La logica del lavoro per il lavoro, purché dia sostentamento, del dover ringraziare chi ti sfrutta per quattro denari, è tipica del capitalismo deteriore italiano ed è atroce che a macchiarsene siano proprio i diffusori di cultura, macinatori di carta per generare fatturato e giustificare fidi e mantenere precari pareggi di bilancio alle spalle dei collaboratori non pagati: «Loris (…) entra in casa editrice, i colleghi lo salutano di fretta, sono arrivati i pacchi con le ultime pubblicazioni dalla tipografia e l’ufficio stampa sta facendo preparare gli invii per i giornalisti alla stagista.
Un mucchio di carta, incartato e pronto ad aggiungersi ad altri mucchi di carta sulla scrivania di chi è pieno di carte e ha carte alle pareti dell’ufficio, carta nella borsa, carta a nido, a torrione, a piramide, carta da rivendere alle librerie dell’usato, carta da regalare a tutti i parenti e gli amici, carta per ingombrare altre case e altri scaffali, carta che pesa e che verrà immersa nell’acqua, macinata con lame rotanti e impregnata di soluzioni alcaline per pulirla da grassi e colle, sciacquata a più di settanta gradi per eliminare l’inchiostro e trasformarla in una poltiglia, una pasta pronta per essere strizzata».
- Infine, lo strato più intrigante, la goccia di miele celata nel pane di Capodanno, è il livello metaletterario: dove Loris è il romanzo raccontato da Giulia, dove Loris è la scrittura bloccata, chiusa e vilipesa dalla realtà, che non riesce a volare lungo il percorso sacro che le spetta, che si intride di refusi, man mano che Loris si avvita sulla sua impotenza. E non basteranno le mille letture, non basterà l’energica Jo di Piccole Donne: servirà l’incontro di Loris con la sua autrice, insieme chini a strappare a mani nude le male piante, gramigna e ortica, che soffocano la fonte sacra della creatività. Servirà un agnellino di Schrodinger, morto e vivo al tempo stesso, capro espiatorio e, come nel calendario romuleo, simbolo di nuova nascita, tenera e dolce come una ciliegia di plastilina.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.