Alla Festa del cinema di Roma
Paradiso bianco
Giovanni Veronesi, con il suo bellissimo documentario sulla "Valanga azzurra", mescola mito popolare e memoria sportiva. A braccetto con Thoeni, Gros e De Chiesa
Massimo Troisi voleva essere un calciatore professionista ma le valvole ballerine del suo grande cuore stroncarono il suo sogno e dopo, da attore e regista, è stato calciatore dilettante di lusso nella Nazionale Attori. Giovanni Veronesi già a otto anni mieteva successi nello sci e vinceva tutte le gare, si portava a casa tutte le medaglie – però poi un incidente di gara in cui si sfracellò mise fine a quel sogno, così ora da regista e sportivo (mi risulta che pratichi molti sport, e a buoni livelli: è anche lui un dilettante di lusso) per Rai Documentari (coproduzione Fandango Film) confeziona, firma e porta a casa un piccolo capolavoro.
Nientedimeno che la ricostruzione accuratissima, dettagliata, affettuosa della Valanga Azzurra, eponima protagonista evocata fin nelle pieghe più profonde, cioè la squadra degli sciatori italiani che riuscirono a mietere vittorie e successi a livello mondiale nelle persone, straordinarie, di Gustav Thoeni, Piero Gros, Paolo De Chiesa. E attorno a loro (questo il sale del racconto, pieno di immagini di repertorio e imbastito sugli incontri e le interviste realizzate dal regista-narratore) si formò un gruppo unito di campioni che, pur non scendendo solo per le medaglie, però, per la grandezza anche umana di questi atleti, contribuì a corroborare e sostenere, come un humus irrinunciabile, le vittorie dei primi tre.
Tra di loro, comprimari di lusso, si annoverano, primo fra tutti, direi, Rolando Thoeni, cugino, famoso per esser stato nominato da Gustav in un’intervista in cui il grande campione si esprime proverbialmente a monosillabi, ingenerando ampi aloni di mistero: di lui Lorenzo Fabiano, giornalista sportivo che nel docufilm riveste a buon diritto il ruolo dell’esperto-cronista, dice che Rolando era persino più dotato tecnicamente di Gustav, però Gustav aveva una determinazione di vittoria che per Rolando non era il primo pensiero, non era la sua ossessione. E poi tanti grandi campioni che, a sentirli nominare adesso (a parte Alberto Tomba che è stato loro erede ma ha rappresentato una fase dello sci italiano successiva, e ha corso quasi da solo, disponendo di un proprio team dedicato), veramente ci rendiamo conto che sono stati la storia dello sport italiano: Helmuth Schmalzl, Fausto Radici (purtroppo morto suicida), Tino Pietrogiovanna, Erwin Sticker, Herbert Plank, Stefano Anzi e Giuliano Besson (che a 25 anni finirono squalificati per essersi esposti come sindacalisti degli sciatori-campioni), Ilario Pegorari, Franco Bieler; e Leonardo David, coinvolto il 16 febbraio 1979 in un terribile incidente durante la discesa libera a Cortina e finito in coma fino alla morte occorsa il 26 febbraio 1985.
Il film è dedicato a Oreste Peccedi, l’allenatore della Valanga Azzurra, che per questi campioni (lui stesso, intervistato giusto in tempo da Giovanni Veronesi, lo dice con le lacrime agli occhi), ha agito non solo da tecnico ma anche da padre. Invece il “paròn” della Valanga, il loro organizzatore, il capitano non-sciatore è stato Mario Cotelli, personaggio, lo si dice apertamente nel docufilm con un coro di testimonianze, discusso e incline a un certo egocentrismo, non sempre limpido, un simpaticaccio però, capace di aggregare la squadra azzurra dello sci costruendo attorno al tridente degli sfondatori una sorta di compagnia della tavola rotonda pronta a servire con lealtà e abnegazione.
È un film splendido, questo documentario: la consolazione è che, oltre a poterlo vedere in numerose sale in molte città, si potrà rivederlo tra qualche tempo su RaiPlay, perché è un prodotto Rai, appunto nella serie, gloriosa, di Rai Documentari che annovera tributi e ricostruzioni, altrettanti omaggi ma anche, grazie agli autori chiamati a realizzarli, dei film perfetti. Come questo. Che nella sua lunga tournée, dopo la prima uscita alla festa del cinema di Roma, nella sezione Special Screenings, sarà accompagnato non solo da Giovanni Veronesi, il regista-intervistatore-narratore, l’ideatore entusiasta, soprattutto da Thoeni, Gros, De Chiesa, e Alberto Tomba, e da Lorenzo Fabiano, la memoria storica del giornalismo sportivo.
È stato emozionante vederli tutti presenti, gli attori, i campioni-protagonisti di questo grande racconto che è anche un racconto di montagna, non solo evocativo di grandi atleti antecedenti come Toni Sailer, che Gustav Thoeni ammette di aver cercato di imitare, o meglio di aver sempre tenuto come proprio modello nei suoi primi approcci allo sci, peraltro vocazione naturale per lui fin dall’infanzia nella natìa, piccola Trafoi, ma anche di uno spirito, di una introversione, di una durezza apparente piena di dolcezza, come scopriamo, carattere in genere dominante in questi grandi montanari vincitori.
È stato emozionante rivedere Ingemar Stenmark, che, affacciandosi anche lui negli anni Settanta alle grandi gare di sci, in Coppa del Mondo, ma appena dopo, ha (usiamo le parole del poeta) spinto il momento alla sua crisi, segnando nei fatti la fine della Valanga Azzurra. Il grande campione svedese (nato in Lapponia) è in molti momenti del film in conversazione con Giovanni Veronesi: gli risponde in svedese, non ha mai imparato l’inglese o il francese e anche questo faceva di lui, nel lungo periodo in cui ha frequentato le piste, vincendo quasi tutto, un orso poco incline ad aprirsi, ad avere rapporti rilassati: un grande campione, forse anche perché chiuso in sé stesso e determinato, come Gustav Thoeni, forse il suo unico vero rivale.
Questo film parla al cuore e al ricordo. Alla fine della lunga e mai abbastanza durevole galoppata che il film si concede nell’epopea dello sci alpino, il regista, che ci ha tenuti per mano con la sua grande e rispettosa passione, ci dice proprio questo: siamo costruttori di ricordi.
Ma come si costruiscono questi ricordi? Con una sapienza che è un intreccio di ingredienti sopraffini.
Una grande apertura umana, e una volontà di dialogo e di amicizia, tutte intessute con il forte desiderio di avvicinare le persone, e rivolgere domande che non danno corpo a delle curiosità momentanee o personali ma sono sponde di contatto così convincenti da spingere persino, in un iter di “umanamento” non calcolato, alla confidenza, a delle rivelazioni, quasi cinquant’anni dopo, anche di episodi dolorosi mai raccontati.
E poi questo modo disarmato di porsi, questo andare vicino a ognuno di questi immensi campioni, e dirgli: “Io volevo essere te!”, che è sicuramente vero, ma alla terza volta ti strappa una franca risata. Ecco, nelle conversazioni, questa capacità di far venire fuori dettagli nascosti, episodi dimenticati, piccole ruggini o piccoli scandali: quindi non un peana ottuso, o, come chiunque direbbe, buonista, ma una ricostruzione attenta e onesta, in cui, sì, c’è l’approccio da appassionato, ma non c’è alcuna deroga etica, e nemmeno, come ci dice Giovanni Veronesi negli ultimi fotogrammi, nessuna concessione alla retorica ma un finale conciso – che non vi svelo perché è un punto veramente alto del film, già svettante su altezze notevoli.
Un tratto decisamente apprezzabile sul piano della documentazione è la rievocazione di un certo giornalismo sportivo, rappresentato in carne e ossa da Lorenzo Fabiano, con cui Giovanni Veronesi fa ogni tanto il punto della sua ricognizione, anche per precisare dettagli di fatto, dati oggettivi, ma soprattutto ci fa rincontrare certi grandi giornalisti dello sport in TV, come Maurizio Barendson e Alfredo Pigna, che hanno segnato le cronache sportive targate RAI in quella che, con tutta evidenza, possiamo definire: la gloriosa paleo-televisione, da cui siamo adesso lontanissimi, non tanto per ragioni tecnologiche, ma per stoffa e qualità e (per usare un gergo professionistico) per sintassi.
Due detti, opposti e ambigui, affiorano alle labbra con naturalezza mentre siamo immersi, e preghiamo di restarvi a lungo, nella visione di questo film: Dio è nei dettagli, oppure, Il diavolo si nasconde nei dettagli. Chi ha ragione: Flaubert? Mies van der Rohe? La saggezza popolare? Le due formulazioni risultano calzanti entrambe per sintetizzare il tratto in assoluto più avvolgente del film, pieno di umanità e passione, e capace di evocare emozioni antiche, di generare in certi momenti anche autentica commozione, soprattutto per chi, come noi e come il regista, C’ERA: l’attenzione ai particolari, alle pieghe biografiche nascoste e più che confessabili, una capacità appunto evocativa che ridà anima e sostanza a un’epoca vicina eppure del tutto estinta, in senso tecnico (viene evocata l’oscura preparazione degli sci con la sciolina) e sul piano umano.
Tutto ciò investe il mondo dello sci ma non solo: è per questo che, mi scuso per il vago personalismo, dedico la mia visione di questo film a mio padre, montanaro per vocazione, maestro onorario di sci di fondo, escursionista e esploratore di montagne, istruttore dilettante ma di lusso di stuoli di figli di amici ed estranei, sciatore di discesa già nell’epoca pionieristica senza impianti di risalita: per raggiungere le vette si doveva risalirle appunto contro pendenza, a passo di giro oppure con numerosi dietrofront, tutte tecniche di riscaldamento, in fondo, invece di starsene appesi a congelare su skilift e manovie. Per quanto mi riguarda, ho sempre trovato gusto a scendere nei passaggi impervi col derapage, lodata dai Maestri.