Diario di una spettatrice
Prigione famiglia
“Familia“, il secondo film di Francesco Costabile, racconta una storia vera e terribile di violenza famigliare. Ma è soprattutto la prigione psicologica quella che viene descritta
Tre vittime per un carnefice. Che diventa vittima lui stesso poiché viene ucciso. Stavolta il finale della storia è noto, niente che non si sappia già. Familia – secondo film di Francesco Costabile, il quarantenne regista cosentino formatosi al DAMS di Bologna e poi al Centro sperimentale di cinematografia, autore di numerosi corti pluripremiati – si basa sul libro autobiografico Non sarà sempre così, nel quale Luigi Celeste detto Gigi racconta la storia di un figlio che arriva a uccidere il padre per difendere la madre. Un delitto avvenuto a Milano nel 2008 che lo portò in carcere per nove anni e che proprio in carcere gli permise di rinascere. Oggi è un uomo libero e un esperto di sicurezza informatica di fama internazionale. E, dettaglio non trascurabile presente nei titoli di coda, sogna di diventare padre. Nonostante tutto.
Se il primo lungometraggio di Costabile, Una femmina, si era ispirato al libro inchiesta Fimmine ribelli del giornalista Lirio Abbate sulle donne vittime di violenza nelle famiglie della ‘Ndrangheta calabrese, questa volta lo sguardo è negli occhi del figlio di una donna abusata dal marito che entra ed esce dalla galera e, nonostante le denunce e le ordinanze di allontanamento, continua a reclamare il possesso di ciò che “gli appartiene”, la “sua” famiglia.
Familia ci racconta tre cose: l’abisso della violenza all’interno delle mura domestiche dove i padri abusano e maltrattano le madri (e probabilmente anche i figli); l’impotenza delle istituzioni che non intervengono se non quando è troppo tardi e se lo fanno intervengono male (la madre portata in un centro antiviolenza contro la sua volontà, i figli segregati in una comunità); infine la certezza che niente finisce, che non sarà sempre così, che la vita è più forte.
È impossibile guardare con distacco Familia perché la violenza e la paura che genera prendono alla gola. Fin dalla prima scena lo spettatore intuisce che dovrà trascorrere due ore in una atmosfera claustrofobica, a tratti disturbante: c’è un corridoio, l’immagine sfuocata di una porta chiusa, le urla soffocate di una donna dietro quella porta. E ci sono due bambini che si stringono e il più grande chiude le orecchie al più piccolo: «Quando ci sono i rumori dobbiamo aspettare». Finché arriverà il giorno in cui Gigi, il figlio piccolo, non può più aspettare.
Il regista fa una scelta molto opportuna: decide di filmare quasi sempre fuori campo la violenza fisica (anche se certe scene è inevitabile che ci siano), ponendo la violenza psicologica al centro della pellicola, l’ansia delle vittime, il panico nelle loro pupille dilatate che spiano la prossima reazione del carnefice, il senso di impotenza che fa dire alla madre «sarà sempre così, non puoi farci niente». La violenza psicologica impregna anche i momenti di apparente normalità: quando il padre ritorna nella vita dei figli dopo dieci anni di galera e li porta alle giostre, quando la famiglia si riunisce per il compleanno del piccolo davanti all’auto scatto, tentativo ingenuo di esorcizzare con una foto la realtà nascosta dai festoni e dalle candeline sulla torta.
L’adesione di Gigi a un gruppo naziskin che inneggia alla Decima Mas nasconde la ricerca di qualcosa in cui credere, un’altra famiglia, magari un altro padre. Le scene delle risse e degli scontri col coltello in tasca, la violenza come unica modalità di relazione appresa troppo presto, sono sottolineate dal basso continuo di una musica cupa che enfatizza una pellicola che ha già fin troppi ingredienti per scivolare nel meló.
La storia finisce come deve finire. E la scena finale ha una leggerezza liberatoria: Gigi è sulla volante che lo sta portando in carcere, il suo sguardo è perso nel vuoto, all’improvviso si affianca all’auto un ragazzino che corre e che sembra accompagnare il ventenne verso la sua nuova vita. Quel bambino in fuga è Gigi stesso che tentava di evitare la comunità in cui l’avrebbero portato. E rivedendosi bambino il giovane finalmente sorride.
Al di là della storia vera che racconta, la forza di Familia secondo me sta tutta nel cast. Francesco Di Leva è il padre Franco Celeste e certo il bravissimo attore napoletano pare ormai specializzato in ruoli di malavitoso e violento (penso alla serie Gomorra, al film di Mario Martone Il sindaco del Rione Sanità, a L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano e per fortuna che era il prete eroe della Sanità don Antonio Loffredo in Nostalgia sempre di Martone, premiato col David). Cosa dire della bravura di Barbara Ronchi che non sia già stato detto? Nel film è Licia, la madre paralizzata nell’angoscia della vittima che non riesce a sottrarsi al suo carnefice. E noi siamo con lei. E poi c’è Francesco Gheghi, Gigi, il vero protagonista della storia, occhi grandi e viso scavato che bucano lo schermo, il miglior attore della sezione Orizzonti a Venezia81. E ha solo 22 anni.
Infine il cammeo di Tecla Insolia che è Giulia, la fidanzata di Gigi, conferma ciò che ha detto di lei Valeria Golino che l’ha scelta per incarnare Modesta, dirigendola nel film/serie tv prossimamente su Sky L’arte della gioia: «A un regista capita una volta nella vita di incontrare chi ha il dono. E lei ce l’ha».