Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Autosorrentinismo

"Parthenope", il nuovo atteso film di Paolo Sorrentino, è un elogio della giovinezza condito di autocitazioni. Quasi un'autocelebrazione che perde per strada il proprio senso

Fabietto Schisa, protagonista di È stata la mano di Dio nonché alter ego di Paolo Sorrentino, ritorna a Napoli per celebrare la giovinezza perduta attraverso la storia di una donna che la incarna e ha il nome del mito fondativo della sua città: Parthenope. Questa dichiarazione d’amore per il tempo passato declinato in una storia individuale che diventa il paradigma di una città e di una generazione, verrà svolta per 136 minuti ricorrendo a tutti gli strumenti in grado di rappresentare la grande bellezza e di confermare la bravura indiscutibile del regista. Il risultato è Parthenope, un film che è la versione speculare e mitologica della pellicola autobiografica che l’ha preceduto.

Ma, lo dico subito, questa intenzione secondo me resta tale e non si traduce in un film convincente e riuscito quanto lo era il precedente. Per dirla con quell’Antonio Capuano rivisitato da Sorrentino, stavolta Fabietto si è disunito.

E pensare che amo il cinema del regista napoletano, ho visto e rivisto i suoi film e le sue serie tv sui Papi, e i suoi eccessi barocchi, le suore nane che fumano e i cardinali tifosi sfegatati del Napoli, mi divertono molto. Ma questa volta non ho proprio colto, se non teoricamente, il senso di Parthenope, presentato a Cannes senza ottenere riconoscimenti (l’unica premiata dalla CST è stata giustamente la fotografa Daria D’Antonio), film molto atteso e in questi giorni nelle sale. A dirla fino in fondo, secondo me c’è del vero nella feroce stroncatura del critico Peter Bradshaw su “The Guardian”, quando scrive che Sorrentino fa l’auto parodia di se stesso e il film è «uno spot di due ore per un profumo davvero troppo costoso».

Sorrentino vuole offrirci un inno all’attimo fuggente della giovinezza e alla meraviglia con cui si guarda alla vita in quella stagione breve che è subito passato, quando tutto si vede e si fa per la prima volta. E questo non può che succedere a Napoli, la sua città, dove è impossibile essere felici perché è il posto più bello del mondo. Parthenope non è la sirena del mito, anche se come le sirene nasce nell’acqua del mare e incanta con la sua bellezza chiunque incontri, uomini e donne, giovani e vecchi: la seduzione di Parthenope è irresistibile perché è la seduzione della giovinezza. Nasce nel 1950 nel contesto privilegiato di una famiglia di ricchi, cresce nei saloni della villa a Posillipo, invece della culla ha una carrozza da regina e intorno a lei c’è una corte adorante, dal fratello maggiore Raimondo all’armatore Achille Lauro che sceglie per lei quel nome.

La bellezza di Parthenope – incarnata da Celeste Dalla Porta, e certo questo personaggio è destinato a lasciare un segno indelebile nella carriera della giovane attrice e modella, mentre da anziana è impersonata da Stefania Sandrelli – è assoluta e disarmante e su di lei lo sguardo di Sorrentino indugia in interminabili primi piani al limite del voyeurismo. Ben presto il film ce la presenta a 18 anni in un’estate a Capri, al centro di un ménage à trois che mi ha ricordato il film di Bernardo Bertolucci The dreamers (anche quel film era ambientato nel 1968), lei innamorata, ovviamente riamata, del fratello Raimondo e del suo giovane amante Sandrino. Le feste nelle ville, i balli e gli sballi, l’elicottero dell’Avvocato che la insegue e lei che lo liquida con frasi tipo «il desiderio è un mistero e il sesso il suo funerale», la sfolgorante bellezza dei luoghi e dei giovani corpi che seducono e si fanno sedurre, tutto è velato dalla malinconia dei destini inevitabili che evocano il capolavoro di Raffaele La Capria Ferito a morte.

Parthenope è sempre al centro della scena, da quando incontra l’amato scrittore John Cheever (un catatonico Gary Oldman), che biascica in inglese tra bottiglie di gin e non accetta il suo invito perché «non voglio rubare neanche un momento della tua giovinezza», a quando si appassiona ai corsi di antropologia del professor Devoto Marotta (il sempre bravissimo Silvio Orlando) che ne intuisce l’intelligenza e le propone un patto: «Io non la giudicherò mai e lei non mi giudicherà mai».

Il film procede con un montaggio erratico che lo costruisce per episodi, in cui abbondano le citazioni dei precedenti film di Sorrentino, dalle feste sfrenate alle celebrazioni ecclesiastiche – in questo film è evocato il miracolo del sangue di San Gennaro gestito in modo truffaldino dal cardinale Tesorone, un Peppe Lanzetta trasformato in satiro grottesco – fino allo scudetto del Napoli del 2023 (in È stata la mano di Dio era quello del 1987).

Parthenope attraversa la sua vita che giunge fino ai nostri giorni senza mai rispondere alla domanda “cosa stai pensando?”, sospesa tra la meraviglia del presente e la malinconia di ciò che è passato, sottolineata dalla ripetizione (eccessiva) della canzone di Riccardo Cocciante del 1975 Era già tutto previsto. E in effetti molto nel film è prevedibile: la cifra stilistica tra surreale e grottesco del regista, i ripetuti e compiaciuti rimandi ad altre sue pellicole, il gusto di introdurre situazioni disturbanti che niente aggiungono alla narrazione. Sorrentino ci ripete il suo messaggio fin dall’esergo iniziale: «Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto». Peccato che questo messaggio non si traduca in un film convincente quanto altre sue pellicole.

Abbagliante la fotografia ed efficaci le interpretazioni di Orlando e di Luisa Ranieri che dà vita all’attrice Greta Cool, una plateale parodia di Sophia Loren che dissuade Parthenope dal fare il mestiere: «Lascia stare il cinema, perché nei tuoi occhi non c’è gioia e questo la macchina da presa lo vede e non lo perdona».

Una delle scene per me più rivelatrici delle intenzioni irrealizzate di Sorrentino avviene nei bassi della Napoli tante volte rappresentata nella storia del cinema. Marlon Joubert è il boss Criscuolo che passa per i vicoli distribuendo banconote, regalando il suo orologio a un disperato, accarezzando condiscendente le teste dei bambini. È una scena vista mille volte che non ha più niente della Napoli milionaria di Eduardo o de L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, ne è la parodia, è tutto finto e si vede. «L’antropologia è vedere», rivela a Parthenope il professor Marotta e vedere non è facile come sembra, è difficile ed è l’ultima cosa che si impara quando manca tutto il resto, l’amore, la giovinezza, il desiderio, le emozioni, il piacere.

Ecco, secondo me stavolta Sorrentino non ha saputo vedere, forse perché ha visto troppo e non ha saputo scegliere.

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