Il ritratto di un mondo e una città
Illusione napoletana
La società napoletana dopo la guerra, le speranze cadute, il ruolo del Pci nella cultura (e non solo): un volume raccoglie il dialogo illuminante tra Ermanno Rea e Renzo Lapiccirella degli Anni Novanta
Ermanno Non posso non pensare che Napoli in quegli anni, al di là delle nostre personali vicende, ha vissuto un’esperienza straordinaria; ecco, la mia impressione fu che la speranza sia arrivata nel vicolo.
Renzo E però adesso non c’è più.
Due uomini non più giovanissimi, diciamo attorno alla settantina, sono seduti davanti ad una scrivania, uno di fronte all’altro. Discutono. Rievocano. Confrontano le rispettive memorie, non sempre coincidenti. Non per oziosa nostalgia da reduci, quanto per afferrare il bandolo di un destino storico che, quasi mezzo secolo dopo, ancora sfugge alla loro comprensione. Incalzante, Ermanno. Più sfumato, dubitativo, Renzo.
Su uno scarno impianto, modulo da teatro minimalista, si snoda la riesumazione di anni cruciali. Ermanno e Renzo ripescano le passioni. le esperienze, le scelte, il vissuto personale di una stagione che, ai loro occhi partecipi, sembrava promettere tanto. Renzo, medico votatosi per sempre al lavoro politico, e poi capo della redazione napoletana dell’Unità. Ermanno, futuro scrittore, con l’occhio vorace del giornalista e fotoreporter.
Semplicemente esplicativo il titolo extralarge dell’opera: Il Partito comunista e Napoli nel racconto di Renzo Lapiccirella a Ermanno Rea (Silvio Zamorani editore, pagg. 218, 28 euro). Curata da Dario De Jaco e Viola Lapiccirella, figlia di Renzo, è la trascrizione delle bobine su cui i protagonisti registrarono i loro incontri, avvenuti a più riprese nel novembre 1990. Un materiale che avrebbe costituito l’humus per i romanzi di Rea, primo tra tutti Mistero napoletano.
È il dopoguerra. Napoli è devastata dai bombardamenti. Durante il fascismo, a contrastarlo, c’è stata soprattutto la lezione di Croce. Ma le idee di don Benedetto, nella definizione sferzante del filosofo Antonio Labriola, «fanno pensare a tanti caciocavalli appesi». Troppa astrattezza. Ecco allora il socialismo fornire corpo e strumenti critici al desiderio di cambiare, di mutare il corso in una città afflitta da mali secolari e che, dopo l’Unità d’Italia, si è ripiegata su se stessa, capitale spaventosamente provincializzata.
Ermanno Il socialismo… come dire?
Renzo Un orizzonte.
Ermanno Sì, però era anche un fatto reale, immediato, concreto.
C’è Togliatti. Proprio a Napoli, nell’aprile del 1944, il segretario del Partito comunista sancisce (nei locali allora molto ampi del cinema Modernissimo) la Svolta di Salerno: tregua istituzionale, collaborazione con le altre forze politiche. Una road map riformista.
Malgrado la scoppola al referendum istituzionale del 1946 (Napoli votò all’80% monarchia), l’estromissione dal governo nel 1947 in pegno del Piano Marshall che elargiva all’Italia soldi e cibo, e il naufragio del Fronte popolare nelle elezioni dell’aprile 1948, il Pci a Napoli tiene, diventa punto di riferimento per giovani, intellettuali, per chiunque auspichi una rinascita non solo della città mortificata, ma di tutto il depresso Mezzogiorno, che l’emigrazione spopola. L’immagine potente di Ermanno coglie un sentimento diffuso: un barlume di speranza che sprizza nella desolazione del vicolo.
Eppure… eppure lo sviluppo sognato, sperato, atteso, non decolla. La città resta congelata in un’algida bellezza, ammaliante sirena priva di vita. Paga lo scotto dell’assenza di una vera classe dirigente, si lamenterà fino alla fine dei suoi giorni Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, che assume l’infelice Repubblica del 1799 a emblema della tragedia della città.
Auspice il laurismo (la pratica populista del sindaco monarchico, Achille Lauro), fenomeno biecamente provinciale ma che oggi, in clima di festante neoliberismo, ritrova entusiasti cantori, la sua borghesia coltiva l’antica vocazione parassitaria dei latifondisti; si pasce e si appaga della lucrosa cornucopia di un’edilizia di rapina, che spesso produce crolli rovinosi e mortiferi.
Anche il Pci non riesce, contrariamente a quanto si verifica in altre regioni e città italiane del Nord, ad assumere un ruolo egemonico, a farsi parte diligente di un’idea concreta, realistica di sviluppo per la città. Come dimostrerà la non esaltante esperienza amministrativa negli anni Settanta. Napoli langue, aveva pungentemente profetizzato Anna Maria Ortese («È vero che siamo morti?», da Il mare non bagna Napoli). Chi può, fugge.
Ermanno Tanti se ne andarono, ed è stato un fatto molto assai rilevante. Ma tu ci scrivesti un pezzo, mi pare.
Renzo No, quel pezzo devo averlo scritto prima. Prima dello scossone, invitando gli intellettuali napoletani a non andarsene.
Appello vano. La diaspora converge su Roma e Milano, dove almeno esistono realtà e strutture produttive e culturali in cui operare. Il Pci è attraversato da contraddizioni, da una doppiezza che preoccupa Togliatti; per molti l’opzione riformista è soltanto la coperta che occulta l’ineluttabile palingenesi rivoluzionaria, l’ora X.
A Napoli i nodi vengono al pettine nel 1954. Il Gruppo Gramsci, che ha il suo leader in Guido Piegàri, conquista proseliti nell’università; ha parole d’ordine, programmi che contestano la linea ufficiale, mettono in difficoltà il partito e i suoi dirigenti. Discussioni aspre, accuse, requisitorie, sospetti. Persino Renzo, che da intellettuale si pone domande per tentare di cogliere le ragioni di quel movimento, viene sfiorato dall’ombra dell’apostasia; dovrà giustificare la sua posizione. Il gruppo viene liquidato.
Ermanno Ritorniamo alla cronaca di questa giornata di Comitato federale: allora, parli tu, poi che succede? Parlò chi, Amendola?
Renzo Credo di sì, credo di sì, ma veramente i miei ricordi su questo sono labili.
Ermanno Ma ecco, in sostanza, il pubblico ministero, chi fu? Chi è che chiese la testa di questi ragazzi e che li inchiodò in modo definitivo?
Renzo Non me lo ricordo proprio.
Realtà problematica, Napoli. Con i suoi mali atavici. Con la presenza di una criminalità organizzata che, quando non assurge a modello di vita, è tutt’altro che un corpo separato, ma ha legami organici con la società civile; che affonda le sue radici nei vicoli più sordidi e si dirama trionfante nelle luminose stanze dell’alta finanza. Le riflessioni, i ricordi di Renzo ed Ermanno illuminano un momento, forse un’illusione irripetibile: quello in cui tutto sarebbe potuto cambiare, prendere un’altra direzione.
Così non è stato. E l’amarezza per le sorti della città, la sfiducia che trapela nei loro discorsi si riverbera sul presente. Sul 1990. Ma anche oltre.
Ermanno Da quanto tempo manchi da Napoli?
Renzo Adesso sono parecchi anni.
Ermanno Non hai nessuna voglia di tornare?
Renzo ‘A verità? No.
Avvolge, quell’amarezza, l’antica capitale che si ammanta altezzosa di un mitico passato e inerte si consegna, vittima prediletta, alle orde dell’overtourism – il grande, fumoso business, la selvaggia fioritura in questi tempi di b&b: ‘o bisinìss ca trase int’ ‘e vic’ –, che impietosamente ne spolpano, fin quando li renderanno irriconoscibili, le membra cariche di storia, il corredo genetico. Business di corto respiro, che soffoca, ove ci fosse ancora, la speranza.
Renzo Beh, adesso c’è poco da ridere.
Ermanno Adesso c’è veramente poco da ridere. Anche perché, come dicevi tu, non ci sono prospettive.