Diario di una spettatrice
Il dubbio di Auteuil
Il nuovo film di Daniel Auteuil, "La misura del dubbio", è un ottimo legal drama dove la verità di un omicidio si mescola ai sentimenti. Perché la realtà non è mai univoca
Come può entrare in un’aula di tribunale, sottomettersi alle regole imposte dal codice di procedura penale, infine essere giudicata da una giuria che non sa quasi niente, giusto quel poco che emerge dal confronto tra pubblico ministero, avvocati e testimoni? Parlo di ogni vita umana catapultata in un dibattimento processuale, con le sue luci, i suoi amori, la fragilità e l’innominabile che resta nell’ombra: come può tutto questo adattarsi all’artificio che chiamiamo giustizia e che ne decide il destino? Domanda senza risposta, almeno quanto il quesito di Mogol-Battisti «come può uno scoglio arginare il mare?».
Certo, questo è il fondamento dello Stato di diritto e lo spettatore lo sa, ma sa altrettanto bene che alla “macchina della giustizia” sfugge sempre qualcosa. Perciò esiste la formula “col beneficio del dubbio”, perché il dubbio è sempre in agguato nelle menti dei giudici, dei giurati, il pm, gli avvocati e ovviamente gli imputati. Non ci sono algoritmi infallibili, sono tutti umani.
Quella domanda, quel dubbio, si insinua nella mente dello spettatore fin dalle prime scene del film La misura del dubbio (per una volta il titolo italiano è migliore dell’originale francese Le fil), scritto, diretto e interpretato da Daniel Auteuil, attore che amo molto e che scopro essere anche regista di indiscutibile talento (questo è il suo quinto film).
Presentata fuori concorso all’ultimo festival di Cannes, la pellicola è un classico legal drama che apparentemente non ha niente di diverso da altri titoli simili che appartengono alla grande scuola francese delle vite disperate trascinate nelle aule dei tribunali (ricordo tra i più recenti Saint Omer, ovviamente la Palma d’oro 2023 Anatomia di una caduta e Il caso Goldman di Cédric Kahn, regista che in questi giorni è nelle sale con il suo nuovo film Making of).
La misura del dubbio riguarda innanzitutto l’avvocato d’ufficio convocato nel cuore della notte da un agente della Gendarmerie per tutelare un tizio fermato col sospetto di avere ucciso la moglie. In quell’ufficio di polizia i due uomini si specchiano l’uno nello sguardo dell’altro e riconoscono subito le rispettive fragilità: Nicolas Milik ha lo sguardo indifeso di un cane bastonato, non pensa ai trent’anni di carcere che rischia con quella accusa, ma ai cinque figli che lo aspettano a casa; l’avvocato Jean Monier non entra in Corte d’Assise da quindici anni, da quando fece assolvere un assassino che uscito dalla galera uccise di nuovo.
Dunque qualcosa di speciale La misura del dubbio ce l’ha: non c’è il buono e il cattivo, non c’è Perry Mason, tutto è in bilico semplicemente perché è una storia vera. L’ha raccontata in un libro l’avvocato Jean-Yves Moyart, colui che difese davvero Nicolas Milik. Auteuil entra con naturalezza nella sua toga, torna a percorrere i corridoi del tribunale con i faldoni sotto il braccio, riscopre l’antica passione per il mestiere anche grazie alla collega ed ex moglie Annie Debret (la bravissima attrice danese Sidse Babett Knudsen, protagonista dell’imperdibile serie tv Borgen – Il potere).
Il film procede con ritmo serrato su un doppio binario: non solo dentro e fuori dall’aula, seguendo gli sforzi del collegio difensivo per ricostruire ciò che successe davvero tra Nicolas e sua moglie nella notte in cui lei fu uccisa, ma soprattutto registra ciò che avviene dentro la mente dell’avvocato, protagonista assoluto della pellicola. Perché Monier si convince fin dal primo incontro che Milik è innocente. Perciò è solo una parte della storia ciò che avviene nell’aula della Corte d’Assise, il succedersi dei testi e le loro deposizione contraddittorie, le domande incalzanti dell’accusa, il peso esercitato sulla giuria dalla presidente della Corte Violette Mangin (l’attrice francese Isabelle Candelier, una vita nelle serie tv, dal Maigret di Bruno Cremer a Dix pour cent ovvero Chiami il mio agente!, ma anche Un’ottima annata di Ridley Scott).
Col passare del tempo (la fase istruttoria dura tre anni) tra l’imputato in cella e il suo difensore, che instancabile va a caccia di prove e di testimonianze in suo favore, si crea un sentimento contraddittorio fatto di fiducia e persino di affetto in cui è facile immedesimarsi, ma anche di reticenze inspiegabili e di gesti che sembrano boicottare la linea difensiva, così che lo spettatore a un cero punto scopre di sentirsi in trappola, in bilico tra la certezza dell’innocenza e il dubbio che qualcosa non venga detto. E secondo me sta proprio in questa “soglia” la forza del film di Auteuil, della sua regia e della sua interpretazione. Ovviamente non aggiungo altro per non togliere la sorpresa a chi vorrà vederlo.
Ultima annotazione. Il fatto di cronaca che coinvolse Nicolas Milik avvenne nella Francia del nord. Auteuil trasferisce la storia nel Midi, nell’orizzonte grande della Camargue e del delta del Rodano, dove i vaccari a cavallo allevano le mandrie dei tori che combatteranno nell’arena di Arles. Il toro ritorna nelle notti agitate dell’avvocato Monier ed è una chiara metafora della violenza cieca che gli uomini continuano a esercitare sui loro simili. Anche per questo viene da pensare che è meglio avere tra i propri amici un bravo avvocato.