Diario di una spettatrice
Guerra a Vermiglio
“Vermiglio”, il film di Maura Delpero, Leone d'argento a Venezia, è come un merletto: incantevole ma irrimediabilmente "antico". E scollegato dalla realtà che vuole raccontare
Vermiglio, Val di Sole, Trentino, dicembre 1944. La neve nasconde le case di sasso, le stalle con l’asino, la mucca e le galline, la scuola, la chiesa, l’osteria. La guerra che si combatte nel mondo è solo un’eco lontana, è nella paura che arrivino i “todeschi”, nelle discussioni dei vecchi sulla legittimità di disertare oppure no, nell’eccitazione dei “pòpi”, i bambini, quando passa nel cielo Pippo, l’aereo da caccia degli angloamericani che volava di notte, anche i miei genitori me lo raccontavano così.
Questo è il piccolo mondo protagonista del film Vermiglio della regista bolzanina Maura Delpero, vincitore del Leone d’argento – Gran Premio della Giuria all’ultima mostra del cinema di Venezia, il premio più ambito dopo il Leone d’oro. Una pellicola fotografata a luce naturale, senza effetti speciali, in cui gli attori (in buona parte non professionisti) parlano in dialetto così stretto da esigere i sottotitoli, con una sceneggiatura ridotta all’essenziale e uno sguardo concentrato esclusivamente sui dettagli, quasi non fosse finzione, ma un’indagine etnografica sugli usi, i costumi e le credenze di una comunità contadina tra le montagne del Trentino, negli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Credo che l’incanto e il limite di questo film stia tutto qui.
Protagonista di questa storia è la famiglia Graziadei: il padre (un severo e monosillabico Tommaso Ragno) è il maestro del paese che insegna nell’unica classe che riunisce bambini di tutte le età (inclusi i suoi figli), ingravida annualmente la moglie con l’arroganza dei suoi baffi asburgici, ogni tanto i “pòpi” muoiono piccini, ma i figli sono comunque tanti, così va la vita. Un giorno in paese arriva l’intruso: un soldato siciliano, Pietro, riporta a Vermiglio il compagno ferito Attilio e inevitabilmente attira gli sguardi delle ragazze. Non sorprende che sia Lucia, la primogenita del maestro, a innamorarsi dello straniero e a concedersi a lui in cambio del matrimonio. Ma ci sarà un colpo di scena, che ovviamente qui non dico, a stravolgere la prevedibile evoluzione della favola del paese tra le montagne.
La regista è così concentrata nel descrivere i particolari di questa storia, nell’inquadrare le tazze di latte bollito appena munto dalla mucca distribuite a colazione, i letti in cui le ragazze dormono una addosso all’altra e pregano e bisbigliano e scoprono i turbamenti dell’adolescenza, che si dimentica di fornire alcune spiegazioni tutt’altro che marginali, indispensabili per dare consistenza alla sua narrazione. I soldati che ritornano sono scappati dopo l’8 settembre o sono sfuggiti ai tedeschi? Come può avvenire una comunicazione tanto rapida degli eventi tra il paese alpino e la Sicilia, quando allora l’Italia era solo macerie e niente funzionava? Delpero troppo spesso lascia intendere e molto non dice.
E poi perché una colonna sonora così enfatica, tra Chopin, Schubert e Vivaldi, a schiacciare una storia tanto fragile che si basa su una sceneggiatura tutta in sottrazione? Infine due ore di dettagli quasi documentaristici sono francamente troppe.
La storia che succede a Vermiglio non incrocia la Storia che in quegli stessi giorni travolgeva l’Italia e il mondo, lo spettatore non intravede mai l’orizzonte che c’è oltre i prati, oltre le stanze illuminate dalle candele nelle case di sasso, oltre la stalla con la vacca da mungere, oltre l’osteria dove le ragazze ballano con i vecchi perché i giovani sono al fronte. Insomma Vermiglio non è L’uomo che verrà di Giorgio Diritti e neanche L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, pure evocato da tanti. Vermiglio è una storia fragile come un merletto e dei merletti ha l’incantesimo.
Ma il Leone d’argento, per restare tra i film italiani in concorso a Venezia, avrebbe dovuto piuttosto riconoscere i meriti di Campo di battaglia di Gianni Amelio, una pellicola speculare rispetto a Vermiglio, che affronta ugualmente l’intersezione tra la storia personale degli umani e la grande Storia, ma con ben altro respiro e forza e consapevolezza.