Roberta Passaghe
A proposito de “La stanza chiusa”

Il ‘900 di Eleonora

Il nuovo romanzo di Giuseppe Tirotto ricama ad arte intorno alla formazione di una giovane di buona famiglia, Eleonora, nella Sardegna ingessata dal fascismo

La stanza chiusa (Catartica, 216 pagine, 18 euro), nuova uscita del castellanese Giuseppe Tirotto, è uno di quei lavori in cui una stratificata complessità incolla il lettore alla proverbiale sedia: «Dio che storia! Ma stava accadendo proprio a me? In pochi giorni ne ero stato travolto e assorbito. Non una sola storia ma diverse, annidate una dentro all’altra in una sorta di incastonatura, come viene definita in termini narratologici una disposizione siffatta di accadimenti. Per spiegarla con un esempio terra terra mi sembrava di avere a che fare con quelle bamboline russe dove la maggiore contiene le altre via via più piccole, ecco, proprio così, mentre procedevo convinto di aver svelato una storia mi imbattevo subito in un’altra contenuta in essa!».

Paolo Finas, uno dei personaggi principali, riceve da Camillo Mazzoni, suo intimo amico, un’eredità un po’ insolita, che condurrà al ritrovamento dei quaderni di Eleonora Scalas, rampolla di una prestigiosa famiglia di Castorias (nome di fantasia dietro il quale, visti i riferimenti toponomastici disseminati ad hoc, si rintraccia il paesino della Sardegna nordoccidentale Castelsardo). L’espediente è limpido: i quaderni vengono letti da Paolo e diventano il corpo del romanzo portandoci a conoscenza di una storia lontana nel tempo ma il cui riverbero ancora pesa nel presente dei protagonisti.

È immediatamente accattivante la resa della scrittura di una dodicenne degli anni Dieci del Novecento (è il 1914 quando verga la prima pagina), Eleonora per l’appunto: non anticheggiante (e sarebbe stato facile cedere alla tentazione di coprire con una patina di antico il suo modus scribendi) e compita al punto giusto – come ci si aspetterebbe da una persona di buona educazione – che comunque non rinuncia a, seppur rare, espressioni colloquiali («booh, era belle che finita»), dialettismi e regionalismi che impreziosiscono l’andamento linguistico, regalando autenticità al testo. C’è da dire che, pur mantenendo un distintivo tratto identitario, le soluzioni formali evolvono con la sopraggiunta maturità dell’autrice dei diari negli anni Venti. Degna di nota poi è la tecnica narrativa con cui sono delineati i deliri della ragazza quando lei, a seguito di spiacevoli avvenimenti, inizia a perdere il senno: dimenticanze, confusione, incongruenze e sconclusionatezza rendono verosimile lo stato precario in cui Eleonora verte.

Il contesto è ora quello di una Sardegna preda degli attacchi squadristi, sul cui sfondo matura l’amore tra Eleonora e Paolo Finas, omonimo e nonno del nostro. Tirotto è abile, grazie anche a un misurato sarcasmo, a ricostruire la vita sotto un Regime che non è però solo quello fascista: il clima autoritario imposto da Agostino, fratello di Eleonora, che in molteplici occasioni la fa sentire inadeguata e imprigionata, frustrata dallo stare in balia delle prepotenze maschili, assurge a regime esso stesso mostrandoci realtà che forse, ma solo forse, oggi possiamo considerare sorpassate. A evitare che la complessità che si menzionava in apertura, data dalla trama e dal suo aggrovigliarsi, porti il lettore a smarrirsi, è l’opportuno supporto di una lingua mimetica (e che ricorre a qualche preziosismo: roride, s’insufflano, sempre nei confini di una generale medietà). È chiaro che chi scrive, senz’altro da tenere d’occhio, ha ottima consapevolezza artistica: l’attenzione infatti rimane sempre alta, catturata da uno stile che si fa ancora più articolato man mano che si infittiscono le vicende, e le voci, ben diversificate, rendono la caratterizzazione dei personaggi plausibile.


Accanto al titolo, “San Michele Arcangelo” del Maestro di Castelsardo.

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