Marinella Petramala
A proposito di “La lingua che resta”

Capire il tempo

Il nuovo saggio di Giorgio Agamben analizza il rapporto tra comprensione della storia e analisi della memoria. Una pratica sempre meno apprezzata, nel tempo presente

L’uomo è in relazione con il passato da sempre: si pensi alle celebrazioni romane del Mundus Patet quando, per tre volte l’anno, tramite un’apertura circolare nella terra, il mondo dei vivi e quello infero dei morti entravano simbolicamente in contatto: «Esso congiungeva insieme anche il passato e il presente, il paese che i fondatori avevano lasciato con la nuova città che avevano fondato». Così, nella solennità del rito, tutte le attività pubbliche venivano sospese. Il rapporto continuo e stretto tra temporalità e la memoria è quello che Giorgio Agamben privilegia ne La lingua che resta (Einaudi, pp. 160, € 18,50), un saggio che, analizzando la tradizione e il nesso tra il tempo, la storia e il linguaggio, propone un viaggio attraverso storiografia, teologia, arte, filosofia e linguistica.

«Tutte le cronologie in qualche modo si somigliano»: elementi inerenti alle cronografie cristiane sono ascrivibili a quelle greche, come il Marmor parium, nonché a Eratostene (Chronographiai) e Apollodoro (Chronica). Tuttavia, la peculiarità del cristianesimo – religione di storici – è quella di aver segnato l’ingresso della teologia nell’ambito della narrazione degli eventi umani, con l’obiettivo di realizzare una storia universale cristiana. Nel III sec. d.C., lo scrittore Giulio Africano, nei sei libri delle sue Chronographiai opera una sincronizzazione della cronologia biblica (relativa alle vicende degli ebrei) con quella ellenistica (che invece è relativa ai greci): «Africano crea, cioè un tempo cristiano, la sua prestazione specifica non è la costruzione di una cronologia per la storiografia cristiana, bensì la cristianizzazione del tempo – o, se si vuole, la temporalizzazione della cristianità» – si pensi alla crocifissione di Cristo indissolubilmente legata alla figura di Ponzio Pilato.

Sebbene il passato parli attraverso la parola dei testi, non è il tempo a scoprire la verità perché, al contrario, esso stesso ha bisogno di essere «scoperto e compreso, cioè afferrato» e ciò non può che accadere nel presente, nel tempo in cui la verità si può cogliere. Difatti, in Allegoria della Verità e del Tempo (1800 ca.), dipinto di Francesco Goya, un vecchio alato con una clessidra nella mano sinistra, stringe con la destra il polso della verità, «quasi per guidarla ed esibirla», mentre una figura femminile seminuda, seduta e intenta a scrivere, non perde di vista l’osservatore cui il suo sguardo è rivolto: la donna-verità «si dà tempo» e così facendo trasforma il tempo in storia che, di conseguenza, consegna gli eventi all’archivio della memoria. La tradizione (o procedimento di trasmissione di ciò che è stato) coincide con il consegnare il passato al presente – il procedimento opposto è quello della damnatio memoriae. Eppure, secondo Agamben, nella società attuale, davanti ad un accumulo dei resti, «la verità ha perso ogni capacità di essere trasmessa, in storie e racconti che non hanno più nulla da insegnare e precetti autorevoli quanto inapplicabili». Pertanto, davanti ad una perdita della memoria e del senso resta la lingua, che muta e si evolve così come la storia: «Che cosa significa vivere di un resto? Significa forse che tutto il resto è perduto? O non significa, piuttosto, che il resto non è solo una parte di ciò che è perduto, è il suo nucleo più intimo e oscuro – che quel che il resto custodisce come il suo bene più prezioso non è che l’esigenza del dimenticato di restare, come tale, indimenticabile?».


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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