Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Tempo di cinema

“Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini è un bell'omaggio al padre Luigi ma soprattutto al cinema. Un modo speciale per raccontare la storia e le cose della vita

Non si chiamano mai col loro nome, quel nome che conoscono tutti. Nel film sono solo un padre e una figlia e il loro rapporto è così forte da cancellare ogni altra presenza, la principessa Giulia Grifeo di Partanna che è sua madre e le sue tre sorelle. Nella finzione cinematografica si può fare, esistono solo lui e lei. Lui è il regista che inventò insieme a Risi e Monicelli la commedia all’italiana, con la “bersagliera” Gina Lollobrigida e il maresciallo Carotenuto cavalier Antonio ovvero Vittorio De Sica. Padre e figlia vivono in una casa a Roma che sarà il luogo delle riprese, della finzione, ma la casa è proprio quella. Lei è la bambina che lo segue sul set e un giorno all’improvviso si ferma, “azione!” hanno già urlato e lei invece di muoversi con gli altri bambini sul set più famoso di suo padre, Le avventure di Pinocchio, lei si ferma, lo guarda negli occhi e gli dice: tutto questo è bellissimo.

Meritava più di altre pellicole italiane di essere in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia il film con cui Francesca Comencini racconta suo padre Luigi e il rapporto fortissimo che li ha legati. Ma a premiare Il tempo che ci vuole sarà il pubblico, perché in questo film la regista romana fa esattamente ciò che faceva suo padre: il cinema che tutti possono capire.

Dirò alla fine il perché del titolo che inizialmente non era questo, anche se è intuitivo immaginare che per raccontare la relazione col padre ci vuole il tempo che ci vuole e Francesca lo fa a 63 anni. E per vincere il pudore che sempre le storie autobiografiche comportano, occorre anche qualcosa di più: l’incoraggiamento di un maestro come Marco Bellocchio. È stato lui a leggere in anteprima la sceneggiatura scritta ovviamente dalla stessa regista e a convincerla a fare il film, entrando nella squadra dei produttori. Invece dico subito che i temi affrontati dalla pellicola vanno ben oltre la storia della relazione tra un regista famoso e la più piccola delle sue quattro figlie che, come le sorelle, avrebbe deciso di fare da grande lo stesso mestiere (regista come Cristina, mentre Paola è scenografa ed Eleonora direttrice di produzione).

Ci sono squarci di storia italiana che contestualizzano le vicende personali: Piazza Fontana, la Roma degli “anni di piombo”, il rapimento Moro, le Brigate rosse, ma anche la Parigi degli intelló negli anni ‘70 e ‘80.

E ci sono i set cinematografici evocati dalla regista con tenerezza palpabile, come film nel film, con la bella confusione che sempre porta la gente che fa il cinema, con gli elettricisti, i macchinisti, i rumoristi, e il ciacchista che urla “ciak in campo” e “azione!” detto da suo padre con gentilezza, perché Luigi Comencini era gentile con tutti.

E sul set succedono le magie. Come nella scena della “luce a cavallo”, cioè la ripresa fatta al tramonto, in cui Francesca immagina che suo padre monti davvero a cavallo e le consegni una sfera luminosa, come un passaggio di testimone.

Il film segue da vicino, ma sempre con il giusto distacco, la storia personale della regista, l’infanzia piena di magia, l’adolescenza insofferente alle regole, il senso di fallimento che la porta alla tossicodipendenza e la caparbia, rabbiosa vicinanza del padre che le confida lo stesso senso di inadeguatezza vissuto da lui, emigrato con la famiglia in Francia. Mettendo insieme le loro vulnerabilità, in un corpo a corpo duro e dolce, padre e figlia troveranno la via della cura lasciando Roma per Parigi. E Francesca diventerà regista con il coraggio di mettersi a nudo fin dal primo film Pianoforte, un autobiografismo che il padre aveva sempre evitato.

Il tempo che ci vuole è un film denso, a tratti commovente ma senza alcuna concessione al meló. Ed è un film imperdibile innanzitutto per la prova straordinaria dei due attori protagonisti: Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano (“scoperta” da Paola Cortellesi in C’è ancora domani). Bravissima anche l’esordiente Anna Mangiocavallo che è Francesca bambina.

Inizialmente il film avrebbe dovuto intitolarsi Prima la vita, da una frase che Luigi Comencini ripeteva spesso alla figlia: prima la vita e poi il cinema.
Presentando l’anteprima del film al cinema Modernissimo di Bologna, Francesca Comencini ha evocato i versi di Patrizia Cavalli per definire il rapporto con suo padre:
«Mio teatro ostinato,
rifiuto del sipario,
sempre aperto teatro,
meglio andarsene a spettacolo iniziato».

La vita di Luigi Comencini cambiò entrando un giorno in un cinema dove proiettavano il film L’Atlantide di Pabst. Era solo un ragazzo, per mesi girò Milano in bicicletta per recuperare le pellicole dei film muti destinati al macero e che grazie a lui costituirono il primo nucleo di quella che sarebbe diventata la prima cineteca italiana.

Fin dal primo fotogramma di un film muto con un bambino che dorme e che ritornerà identico alla fine, quasi a chiudere un cerchio (fotogramma del film Dagli Appennini alle Ande di Umberto Paradisi del 1916, anno di nascita di Luigi Comencini, film tra quelli che lui salvò dal macero), fino alla scena finale che evoca un capolavoro del neorealismo, Il tempo che ci vuole è anche un grande tributo al cinema e alla sua storia.

Ed ecco il perché del titolo.
C’è la scena in cui Francesca resiste alla decisione del padre di trasferirsi a Parigi.
Francesca: Quanto resteremo fuori?
Luigi: Il tempo che ci vuole.
Francesca: E cosa faremo nel tempo che ci vuole?
Luigi: Andremo al cinema.

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