Storia di un'amicizia difficile
Il commercialista
«Dopo l’università, non rivide Fabrizio per anni. Seppe però che il lavoro gli andava di bene in meglio, il suo studio di commercialisti prosperava. Finché un giorno Guido sentì menzionare il suo nome tra i possibili nuovi consulenti della Ditta...»
La notizia la lesse in un trafiletto di cronaca, mentre faceva colazione. Riconobbe la foto, in taglio basso, accanto al titolo: ‘Uccide la moglie, il cognato sacerdote e si barrica in casa con due figli’. Scorse l’articolo. Il nome e il luogo erano corretti: Fabrizio Cervi, una villetta unifamiliare dietro piazza Sempione. Esatti anche i nomi delle vittime, Luciana e Giuseppe, e quelli dei ragazzi, Luca e Marco. Ma la professione di Fabrizio era sbagliata, non era direttore di un’agenzia di servizi, bensì commercialista. E non era ‘un cinquantenne’, come l’articolo imprecisamente asseriva. Aveva la sua stessa età: quarantaquattro anni.
Quando il cameriere appoggiò sul tavolo il vassoio con cappuccino e danese, Guido trasalì. La sua mente era altrove. Fissava i caratteri di stampa sbalordito. Fabrizio, il suo ex-compagno di scuola e d’università; Fabrizio, il consulente fiscale della Ditta, socio come lui di un circolo canottieri sul lungotevere; Fabrizio, con cui giovedì scorso aveva giocato a tennis dopo una riunione di lavoro. Nella versione del cronista, quello stesso Fabrizio aveva ammazzato Luciana e don Giuseppe, vice-parroco di San Bellarmino, con un fucile da caccia e teneva in ostaggio i figli, asserragliato al primo piano della sua casa circondata dalla polizia. Erano in corso trattative. Al momento in cui il pezzo andava in stampa, i cadaveri delle vittime giacevano in giardino, sul vialetto d’ingresso, a pochi passi dalla veranda. Fabrizio li teneva sotto tiro e minacciava di far fuoco su chiunque s’avvicinasse. Tutta l’area era stata isolata. Gli abitanti delle case attorno erano stati invitati a chiudere porte e finestre e starne lontani. Un commissario di PS di cui il cronista faceva il nome conduceva telefonicamente i negoziati. L’articolo lasciava intendere ch’erano stati piazzati cecchini sui tetti delle case attorno.
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Nelle prime ore del mattino nubi passeggere avevano portato pioggia. Ma poco prima che il sole s’alzasse, la coltre di nuvole s’era dissolta, lasciandosi dietro un lieve strascico d’umidità che ancora galleggiava nell’aria. Guardò l’orologio: era in anticipo. Decise di non prendere il motorino. Gli ci voleva una pausa di compensazione, avrebbe fatto la strada a piedi. L’ufficio era in via del Pie’ di Marmo, una passeggiata di venti minuti circa. Discese via Lanza fino all’incrocio con via Cavour, scese lo scalino di piazza della Suburra e risalì per via del Boschetto.
Intanto rimuginava sull’articolo e su Fabrizio. Non sul Fabrizio quarantenne, che conosceva superficialmente per lavoro e frequentava di quando in quando al circolo; ma sul Fabrizio giovane, suo compagno di scuola e poi di corso all’università. Quel ragazzo alto e un po’ allampanato, con lunghissime gambe da trampoliere, capelli rossi e lentiggini, per il quale provava un misto d’ammirazione e rivalità che non era mai sbocciato in vera amicizia. A scuola andava bene in tutte le materie, era benvoluto dai professori e riusciva negli sport, tra i più forti a pallavolo e un bel portiere nelle partite di calcetto. Però ebbe una brutta crisi in terza liceo, innescata da fatti molto banali: una ragazza che l’aveva lasciato, piccoli dissapori in famiglia, uno scontro coi genitori. Un bel mattino questo fighetto gentile simpatico a tutti, che non riesce a farsi amico, si chiude in camera e la devasta. Sfascia tutto. Quando la madre rientra dal lavoro, lo trova seduto in terra, il fiato corto, lo sguardo incuriosito che cerca di cogliere un nesso tra il nuovo aspetto di ciò che lo circonda e se stesso. Nesso che al momento gli sfugge. La stanza – o quel che ne resta – è irriconoscibile. Anche quel giovane accaldato e ansante è uno sconosciuto. Devono aver lottato. C’è stata una colluttazione tra quell’impostore e un certo numero di oggetti estranei, fracassati tutt’attorno: il vocabolario di latino, capovolto e circondato di pagine stracciate; uno scaffale rimasto in miracoloso equilibrio tra i montanti divelti della libreria. Particolari di un disastro che non riesce ad amalgamare, fondendoli in un quadro d’insieme.
Non si riprende, prima degli esami. Manca da scuola gli ultimi mesi e fallisce la maturità. L’unico della classe che ripeté l’anno.
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Arrivato in ufficio, trovò il reparto in agitazione. La notizia aveva sconvolto un po’ tutti. Guido occupava una posizione di rilevo in un’azienda del comparto agroalimentare: paste, biscotti, acque minerali, grande distribuzione, con recenti diramazioni anche nel calcio, in serie A. La Ditta aveva sede in un palazzetto del XVII secolo, di proprietà della famiglia. Al piano nobile c’erano gli uffici dei padroni: amministratore delegato, presidente e vicepresidenti vari; il board aziendale aveva più l’aria di un consiglio di famiglia: tre generazioni diverse di quella nota dinastia d’imprenditori presidiavano tutti i gangli vitali dell’azienda. Il secondo piano era destinato dall’amministrazione, il terzo alla direzione commerciale, il quarto agli uffici tecnici. In quel palazzetto, Fabrizio Cervi era di casa. Da anni il suo studio di commercialista faceva da consulente fiscale alla Ditta. Partecipava alle riunioni di bilancio, era uno dei principali collaboratori esterni di Guido.
Mormorii su quel che stava accadendo a piazza Sempione lo accompagnarono per i corridoi, provenienti dalle porte semiaperte degli uffici. Entrò nella sua stanza e si chiuse dentro. Un minuto dopo Pamela, la segretaria, bussò all’ingresso laterale ed entrò col caffè. Glielo servì con un’aria contrita, quasi addolorata, che finì d’irritarlo.
“Dottore, che tragedia…,” si fermò, nell’attesa che Guido commentasse. Lui non aveva alcuna intenzione di farlo. Al contrario, sentiva di voler sottrarre agli altri quel fatto, tenerlo per sé.
“Com’è possibile, non mi capacito,” insistette Pamela. “Nessuno si capacita… il dottor Cervi, una persona così squisita, tanto distinta…”
Silenzio. Pamela indurì il tono, richiamandolo alle sue responsabilità.
“Siamo tutti sconvolti, sa? Sbalestrati. Non era prevista proprio per domani quella riunione col dottor Cervi per la chiusura del bilancio trimestrale? Che facciamo?”
Con sua sorpresa, Guido replicò con durezza, alzò persino la voce:
“Che vorrebbe fare, Pamela? Quel che capita al dottor Cervi non ha nessuna relazione con la trimestrale! La riunione di domani è confermata. Che ciascuno faccia quel che deve. Preparate i dossier. Nel pomeriggio faremo la verifica interna. E domani presenteremo il tutto all’amministratore delegato, come previsto.”
Offesa (ma rassicurata) Pamela raccolse la tazzina e uscì. Guido sapeva che ci avrebbe messo pochi secondi a passare la voce per tutto il piano, condita dei commenti di rito sul suo cinismo. Come segretaria, in complesso non valeva granché – poco accurata nella redazione della corrispondenza, disordinata nella sua archiviazione, priva d’iniziativa nel gestire un’agenda – ma come megafono delle sue direttive era un fenomeno. La routine dell’ufficio per qualche ora ne avrebbe tratto vantaggio.
Eppure, malgrado la corazza del ruolo in cui s’era prontamente calato, qualcosa non andava. Quella storia seguitava a disturbarlo.
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Dopo la crisi, Fabrizio fu preso in cura da uno psicologo. Restò in terapia per quasi sei mesi, e in apparenza quel professionista fece un buon lavoro. Passato un primo periodo in cui sembrava aver paura di tutto e restava attaccato alle sottane della madre come un bimbetto, gradualmente riprese fiducia in se stesso, recuperò un certo equilibrio, autonomia, autostima, e a ottobre fu in grado d’iscriversi a un’altra scuola. Ricominciò a fare sport, la pallavolo fu d’aiuto. A giugno diede di nuovo l’esame di maturità, stavolta con successo.
L’anno dopo Guido se lo ritrovò iscritto a Economia e Commercio. Solo un anno dietro di lui, un’inezia. Non si frequentarono, all’università. Con l’anno di differenza, non seguivano gli stessi corsi e preparavano esami diversi. E poi, a dirla tutta, provava ormai aperta antipatia per quel tipo. Scorie di un’amicizia fallita. Anche se, non frequentando lo stesso giro, la rivalità del liceo era svanita. L’incrociava di quando in quando alla Sapienza, se proprio era costretto lo salutava. Ma, potendo, lo evitava.
Dopo la laurea, seppe che era entrato nello studio di un commercialista. Guido, da parte sua, aveva trovato lavoro nel settore amministrativo di quell’importante azienda alimentare. Seguirono carriere parallele, senza mai incrociarsi per molto tempo. Guido percorreva passo passo il routinario iter di un’amministrazione d’impresa: contabilità, magazzino, personale, finanza. Fabrizio invece a un certo punto si mise in proprio: con tre soci alla pari, suoi coetanei e compagni corso, aprì uno studio indipendente di consulenza fiscale.
Anni dopo, seppe che le cose gli andavano piuttosto bene. A quanto sentì dire in giro, quella piccola società di fiscalisti stava facendosi strada in un certo ambiente di professionisti romani – medici, avvocati, piccoli imprenditori, uomini d’affari – cui dava una mano a mitigare gli impatti del fisco sui ritorni del loro lavoro. Pareva che Fabrizio fosse molto bravo in quel campo, escogitava soluzioni innovative ed efficaci.
Nel frattempo s’era sposato, aveva avuto due figli. S’era comprato una villetta nei dintorni di piazza Sempione, una delle non molte abitazioni unifamiliari con giardino indipendente nella distesa di palazzine romane. Lo studio, invece, l’aveva in via Tripoli, ai confini tra il borghese quartiere Trieste e il più popolare Africano; piedi più dentro il secondo, ma clientela orientata decisamente al primo, con interessanti sconfinamenti verso i Parioli.
* * *
Non sentì bussare. Alfredo, il suo braccio destro dell’ufficio finanziario, non lo faceva mai. Un omaccione da più d’un quintale, sempre sudaticcio: calzoni stazzonati, una spolverata di forfora sul risvolto della giacca, camicia regolarmente impataccata e ridicola cravatta ad altezza ombelico. Se lo ritrovò dentro la stanza, l’unico dipendente del suo reparto che si permettesse d’entrare senza chieder permesso. Benché fosse parecchio più anziano di lui, d’anagrafe e d’azienda, Guido l’aveva da tempo scavalcato in carriera. E il suo aspetto trasandato, quand’anche non l’avesse fatto il curriculum, bastava da solo a spiegare perché. Nella nuova dimensione internazionale che la Ditta andava assumendo, Alfredo rappresentava il residuo di uno stato anteriore. Solo ragioniere, nessuna formazione universitaria, non padroneggiava nemmeno decentemente l’inglese. Un impresentabile vecchio fagotto. La Ditta l’avrebbe presto scaricato, probabilmente alla boa dei sessanta: un bel prepensionamento alla prima occasione d’incentivi favorevoli, pensò Guido. Nel frattempo, avrebbe detto a Pamela di chiudere a chiave la porta che dava sul corridoio: che tutti – Alfredo incluso – passassero dalla segreteria prima d’entrare da lui.
“Ce l’hai un attimo?”, disse Alfredo.
“Per te sempre, vecchio mio, cosa c’è?”
“Sai, quel che sta succedendo a piazza Sempione…” Gli affiorava negli occhi uno sguardo furbo che Guido non poteva soffrire, quando assumeva quel tono confidenziale. “Che gli avrà preso, a Fabrizio, di’… Tu lo conosci meglio di tutti. Non eravate compagni di corso, all’università?”
“Anche a scuola.”
“Ecco, mi pareva, anche a scuola… Lo frequenti fin da ragazzino… Ma che gli è saltato in mente?”
“Che vuoi che ne sappia… Sono esterrefatto quanto te.”
“Sai, si dice che avesse qualche problema a studio. L’avrai sentito anche tu. Sì, insomma, un mesetto fa ha avuto un’ispezione della Finanza. Hanno portato via faldoni e computer.”
“L’ho sentito dire, sì. Vuoi che non circoli un’informazione del genere sul nostro consulente fiscale?”
“Beh, pare che gli abbiano trovato parecchie irregolarità… Quel che si dice è che i soci vogliano mollarlo. Troppo compromesso. L’hanno spinto spalle al muro. Due soldi di buonuscita e via. Una bella pedata nel culo.”
“Chiacchiere,” tagliò corto Guido. “Vorrei vederli. Non credo che Fabrizio sia a quel punto. E comunque, non imbracci il fucile e fai fuori tua moglie e un prete per questo.”
In quel momento, senza bussare, entrò Pamela dalla porta laterale. Pallida in volto.
“Dottore… Dio mio. Ha ucciso un poliziotto…” Deglutì qualcosa che le si era fermato in gola. “Quello era entrato in giardino per cercare di portar via i corpi. E lui ha sparato. Ora ce n’è tre, di cadaveri, su quel vialetto. La polizia ha risposto al fuoco, lui s’è barricato dentro coi bambini. Dice che li ammazza, se ci riprovano. Si sono ritirati. Il commissario tratta al telefono, cerca di convincerlo ad arrendersi…”
“Come le sa tutte queste cose, Pamela…”
“Come? Ma c’è quasi una diretta, sulle tivù locali. E anche le radio… Non si parla d’altro… Dottore, la vuol proprio fare quella riunione, nel pomeriggio? Con le notizie che arrivano, come si fa a lavorare?”
“Dica immediatamente a tutti che la riunione è confermata,” scandì Guido. “Alle quindici. E mi aspetto che siano pronti. Spegnete le radio, via le tivù da computer e tablet. Metteteci su le tabelle della trimestrale. Dev’essere tutto chiuso in serata. Non voglio brutte figure, domani, con l’amministratore delegato.”
Pamela gli lanciò lo sguardo che avrebbe rivolto a un mostro, ma non disse nulla. Girò sui tacchi e sparì.
“Sicuro?” Disse Alfredo.
“Dammi retta, è la cosa migliore. Se ha steso un poliziotto, poi… Prima ce ne stacchiamo, meglio è.”
“Beh, se la pensi così… vado anch’io a preparare la mia parte di trimestrale.”
Uscì. Ma una volta rimasto solo… a tutti gli altri aveva intimato di lavorare, tornare ai loro posti, ridare ordine a quella giornata assurda. Però lui non ci riusciva. Accese il computer, sbrigò alcune mail facili, non si sentì d’affrontare quelle più impegnative. Non riusciva a mettere a fuoco i temi. Le tabelle della trimestrale, che aveva sullo schermo, contenevano insignificanti sequenze di cifre. Non gli dicevano nulla, come se non sapesse più leggere i numeri. Non ne deduceva andamenti, problematiche, prospettive. Numeri muti.
Dopo mezz’ora in cui tentò invano di concentrarsi, alzò il telefono interno:
“Ho un impegno fuori, Pamela. Mi chiami un taxi.”
“Un impegno? Non ho niente, in agenda…”
“Una cosa imprevista. Tornerò dopo pranzo. Ricordi a tutti d’essere pronti per le quindici, in sala riunioni.”
Non dava mai il pieno controllo della sua agenda alla segretaria. V’inseriva a casaccio intervalli vuoti, di cui non la teneva al corrente. I suoi piccoli margini di libertà.
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Dopo l’università, non rivide Fabrizio per anni. Seppe però che il lavoro gli andava di bene in meglio, il suo studio di commercialisti prosperava. Finché un giorno Guido sentì menzionare il suo nome tra i possibili nuovi consulenti della Ditta. Era stato segnalato alla famiglia da alcuni amici. Proprio lui, Fabrizio Cervi, quello che aveva fallito la maturità e devastato casa…
Entrò nel giro di fiscalisti dell’azienda. E ci seppe fare, con le sue trovate a volte un po’ spericolate, piuttosto borderline ma tremendamente efficaci, si conquistò la fiducia del board, divenne il consulente fiscale più ascoltato, quello cui affidare questioni delicate. Quasi un confessore di famiglia. Quando Guido lo incrociò, un giorno, nell’atrio del palazzetto di via del Pie’ di Marmo, non erano più sullo stesso piano.
Fabrizio andava a un appuntamento con l’amministratore delegato. Indossava un elegante abito di sartoria che cascava a pennello sul suo fisico asciutto e longilineo. In faccia un fondo tenace d’abbronzatura, benché fosse ormai novembre inoltrato. La chioma rossa s’era solo un po’ diradata e ingrigita, quel tanto che serve a conferire l’aspetto vissuto che un professionista del suo ramo deve mostrare a clienti importanti.
Guido era ancora a mezza strada nel suo percorso aziendale, un modesto addetto agli uffici gestionali. Con sua sorpresa, Fabrizio fu molto caloroso con lui. Gli strinse vigorosamente la mano, fu a un pelo dall’abbracciarlo. Sembrava davvero contento di rivederlo. Fecero fianco a fianco la prima rampa di scale. All’ingresso del piano nobile, l’AD lo attendeva sulla porta di un salottino riservato. Si davano del tu. Guido passò oltre, salì mestamente l’altra rampa di scale e s’infilò nello stanzone che occupava allora, assieme ad altri cinque colleghi.
Però quell’incontro – umiliazione e invidia a parte – significò qualcosa per lui. Pochi giorni dopo ricevette una telefonata dalla segretaria dell’amministratore delegato: voleva vederlo. Aveva giusto cinque minuti liberi, doveva scendere immediatamente. Guido, in maniche di camicia nella stanza surriscaldata, infilò la sua giacca dozzinale e scese di corsa al primo piano.
Il dottor Cesare – avendo pressoché tutti i membri del consiglio d’amministrazione lo stesso cognome, li si distingueva chiamandoli per nome – non sapeva molto di Guido, uno dei suoi oscuri dipendenti. Gli chiese di cosa s’occupasse esattamente in azienda e se conosceva davvero così bene Fabrizio Cervi: “M’ha detto ch’eravate amici, da ragazzi. Ha stima di lei, la considera una persona in gamba.”
Guido non gli credette. Ma doveva esser così, perché da quel giorno la sua carriera cambiò. Imboccò come una sorta di corsia preferenziale. I suoi diretti responsabili gli affidarono compiti sempre più impegnativi, evidentemente imbeccati dall’alto. Lui li svolse bene e n’ebbe di maggiori. Fu promosso ripetutamente, scavalcò alcuni di quei responsabili. Ebbe un ufficio tutto suo e del personale a riporto. Capì d’essere tenuto d’occhio da qualche membro della famiglia e si buttò a capofitto nel lavoro, a ritmi forsennati.
In quel periodo – la fase ascendente di una carriera in un’azienda intensamente padronale – ebbe più d’una volta la sensazione che lavorare in quel modo fosse un po’ come fare patto col diavolo. Si stabiliva un legame fiduciario tra sé e i suoi padroni. Quasi un legame di complicità, con scopi dichiarati e altri sottintesi. Svolgeva per loro compiti impegnativi, sempre più delicati. La difficoltà e il livello di non detto compresi in quegli incarichi, la quota d’intelligenza autonoma delle aspettative, senza che queste venissero espresse apertamente, erano proporzionali al piacere che provava nel soddisfarle e alla confusa sensazione di meriti che venivano puntualmente riconosciuti, anche al di là del dovuto.
Viaggiava di continuo, passava tre quarti del suo tempo in giro, incontrando gente d’ogni tipo. Quand’era a Roma, stava in ufficio tredici, quattordici ore al giorno. Non solo per svolgere moli crescenti di lavoro che gli venivano vorticosamente affidate, ma anche per compiacersi d’essere così vicino alla famiglia: non andava mai via dal palazzetto di via del Pie’ di Marmo se c’era ancora uno dei suoi membri al primo piano.
Superò tutti i colleghi più anziani. In capo a tre anni fu nominato direttore esecutivo. Una delle poche cariche, in azienda, che dessero accesso libero al primo piano e colloqui diretti pressoché quotidiani col dottor Cesare e gli altri membri della famiglia.
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Il taxi lo scaricò sul lungotevere, davanti al circolo canottieri. Altra cosa che doveva a Fabrizio. Sia lui che sua moglie, Luciana, erano soci del club da molti anni. Dopo la nomina a direttore, durante uno dei tanti incontri sui bilanci aziendali Guido chiese a Fabrizio d’aiutarlo a entrare. Per essere ammesso, oltre a titoli, referenze e versamento di salatissime quote, occorreva la presentazione di quattro soci anziani. Fabrizio non ebbe difficoltà a procurarglieli.
1. Fine della prima parte. Continua.
La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso