A proposito di "Postomeriche"
L’uomo Ulisse
Poesia e illustrazione, nel libro di Claudio Damiani e Giuseppe Salvatori, cercano il senso della modernità nella classicità: il nodo è sempre cercare di ritrovarsi
Molte suggestioni assalgono il lettore di questo piccolo, suggestivo libro di versi e disegni, Postomeriche, Amos edizioni, scritto da Claudio Damiani e illustrato da Giuseppe Salvatori, entrambi dal 2013 impegnati, in forma scritta e grafica, con altri, nella rivista Viva, una rivista in carne e ossa. Come sempre nella poesia di Claudio Damiani ritroviamo non solo la riflessione sull’uomo, sul senso di essere umani, ma anche la discesa paradisiaca o perlomeno sacra a ciò che di essenziale c’è in radice nell’essere vivi, e poi la restituzione dell’uomo alla natura, in convivenza non belligerante, in armonia dialettica. La risorsa primaria che qui lega i testi e li sedimenta o meglio li ha accumulati (seppure, prima di questa raccolta, in forma sparsa, ma, salta all’occhio, persistente) è il legame con l’antico – non in forma ossequiosa e ortodossa ma come discussione sull’umanità cantata epicamente e la attuale semplificazione, o, forse è bene ripeterlo, riduzione all’essenziale della vita umana, dunque alla sua essenza, spogliandola di ogni travestimento, o di ogni semiologica differenziazione.
Sono parole di Achille, che rievoca Aiace – per riconoscersi (a stento) in un altro guerriero di cui non vive e non (ri)conosce le sue stesse debolezze, e rabbie, e fastidi, e riottosità. Conosce le proprie, però.
Si fa presto a dire eroismo, meno immediato e semplice è dire umanità.
Ecco, tra le suggestioni di questa raccolta a cui le figure evocate dall’illustratore, segni e stilizzazioni di grande suggestione, aggiungono simbolismo e concretezza nello stesso momento, c’è un’idea letteraria di lunga tradizione: chi è l’uomo attuale, ordinario, corrente, rispetto agli eroi antichi, ai forti guerrieri?
È qualcuno che come gli antichi eroi pastori achei vive in colloquio perenne con la natura, inquadrato nel contesto naturale, non immiserito da un’esistenza essenziale fatta di poco, ma al contrario restituito a una armonia fatta di niente, che in questa poesia Damiani restituisce a un sapore di ballata senza levarle il sacro – anzi, ritrovando la sacralità del vivere comune e unico, irripetibilmente (torno a dire) essenziale.
E questo canto, amore mio, di cicale
sotto il sole di luglio, in una campagna italiana,
cielo azzurro e poche nuvole, piccole,
odore forte di rosmarino e ginestre
e questo canto pazzo che non si ferma
nell’aria bianca bruciata
e noi, io e te, sotto questi pini
alziamo i calici e brindiamo, silenziosi,
tu vestita come una dea, con lunghe ciocche annodate
e perle tra i capelli,
là sulla collina il nostro capanno di legno
e giù lo scoglio dove passo tutte le notti
a piangere guardando il mare.
L’uomo conduce battaglie, non solo guerre. Sfida l’esistenza anche quando sceglie il pacifismo. Sente il rischio, fiuta il pericolo – eppure desidera solo starsene in pace, desiderio che si fa certo in vecchiaia. Bene, qui ritroviamo un altro tòpos letterario che, come sempre accade nella poesia di Claudio Damiani, è sì elemento ereditato dalla tradizione ma è anche chiave, escamotage non solo di stile ma anche tematico: […]
Poi morirono insieme, come avevano chiesto
agli dei, nello stesso momento, non prima l’uno e poi l’altro,
mano nella mano. Zeus e Hermes giravano
di casa in casa in veste di viandanti
chiedendo ospitalità
e tutti sbattevano a loro la porta in faccia
solo i due vecchietti, Filemone e Bauci,
accolsero gli ospiti e offrirono loro una cena
frugale. Finito il pasto gli dei
si rivelarono: “Manderemo un diluvio
e tutta la terra sarà sommersa
solo la vostra casa sarà risparmiata
e diventerà un tempio, e voi sarete i custodi.
Esprimete un desiderio e sarete esauditi”.
I due coniugi gettatisi a terra
in adorazione, risposero all’unisono:
“Ciò che desideriamo è, compiuto il nostro tempo,
di morire insieme, nello stesso momento,
non prima l’uno e poi l’altro, mano nella mano”.
Qui non possono non tornare in mente due finali struggenti: il Console e Yvonne in Sotto Il Vulcano di Malcolm Lowry, e Aleksandr e Thea in Il Minotauro di Benjamin Tammuz – la perfetta armonia coniugale, congiunta nella morte, inaugurata in Ovidio da Filemone e Bauci, bracci di un compasso (evocando Donne) che si muovono all’unisono, per quel miracolo di sintonia che è l’amore, e si spengono nello stesso istante per non sopravvivere l’uno all’altra o viceversa. Anche questa sincronicità, segno antico e attuale, junghiano ma ancor prima postomerico e metafisico, è l’invocazione a un ritorno, in Damiani, a una restituzione della vita alla vita, della singolarità delle esistenze unitarie alla vastità della vita come fenomeno di comunità non solo umano. È la speranza sorridente che l’uomo accetti di essere reintegrato in una naturalità senza sfarzo, senza straordinarie eccezioni o smaccati anzi arroganti privilegi, ma in una rasserenata quiete finalmente di qualche significato.
[…]
Ora vorrei essere accanto a te con la mia mano nella tua
aspettando la morte, senza sapere niente di te,
senza sapere niente di niente,
essendo completamente ignorante.
Ulisse, semidìo molto uomo, non è più un’arca di conoscenza: è diventato qualcuno che si è scrollato di dosso tutte le sovrastrutture e le superfetazioni e punta a un finale lieve, decisamente alleggerito. Ulisse nel tempo ha avuto qualche mutazione, o forse ha dovuto, ben più a lungo dei vent’anni di lontananza da sé stesso a cui gli dèi lo avevano destinato, attraversare i millenni per continuare a ritrovarsi. Come noi.
La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.