Una mostra a Firenze e un testo ritrovato
Ungaretti e i pittori
Picasso, Braque, Fautrier, Rosai, De Chirico, Mafai, Carrà, Burri, Schifano, Guarienti… Leone Piccioni racconta l’arte moderna secondo il suo Maestro, il poeta dell’“Allegria”. Mentre la galleria Tornabuoni Art espone la sua “arte del vedere”
Fino al 6 settembre la galleria Tornabuoni Arte ospita a Firenze la mostra Pittura e poesia: Ungaretti e l’arte del vedere a cura di Alexandra Zingone. L’esposizione affianca a opere d’arte italiane ed europee comprese tra gli anni Dieci e Settanta del ’900 la voce del poeta attraverso corrispondenze, poesie e altri materiali d’archivio. Al tema del rapporto di Ungaretti con la pittura, Leone Piccioni, allievo ed esegeta del poeta dell’Allegria, dedicò nei suoi ultimi anni l’articolo che qui pubblichiamo.
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In occasione dei suoi ottant’anni Ungaretti pubblicò nel 1960 presso Mondadori le poesie del Taccuino del vecchio con una importante appendice di testimonianze di amici stranieri e con uno scritto introduttivo di Jean Paulhan: in tutto 54 testimonianze per lo più di autori francesi con alcune brevi comunicazioni o anche lunghi saggi critici. Paulhan ci dice tra l’altro che in ogni pagina d’Ungaretti sente Leopardi e più ancora Rimbaud eApollinaire. René Char trova l’occasione per dire che al centro della nostra intera emozione trova l’opera di un grande poeta contemporaneo: Giuseppe Ungaretti. Dos Passos, l’autore di 42° parallelo, ricorda di aver letto con entusiasmo il libro delle poesie di Ungaretti sulla prima guerra mondiale. T.S. Eliot scrive: «Sento che Giuseppe Ungaretti è uno dei pochissimi autentici poeti della mia generazione e un degno rappresentante della poesia italiana nel resto d’Europa e in America. Desidero salutarlo fraternamente». Odisseo Elytis in un lungo saggio afferma che le poesie di Ungaretti lo riconducono ai lirici greci, «e sono certo – prosegue – che le generazioni a venire gli saranno grate di aver resistito all’andazzo dello stile prosaico, di non aver raccolto i motivi ornamentali della civiltà meccanica contemporanea e di essere rimasto fedele al lirismo e di aver reso lo spirito del suo tempo con la scrittura eternadell’uomo, gli alberi, le nuvole, le stelle, come avevano fatto al loro tempo Archiloco e Saffo».
Marianne Moore in un felice e sintetico messaggio ci chiede: «Come non potrei ammirare Ungaretti? Armonie quali “…il loro lume è chiaro/ lontano // Con le rondini fugge/ l’ultimo strazio?”. Come potremmo mai stancarcene?». Octavio Paz partecipa all’omaggio con una lunga poesia, mentre Saint-John Perse scrive: «Onore a voi, poeta così puro per il quale l’atto poetico fu soprattutto una testimonianza ad essere umano. Ardentemente italiano voi avete portato alla universalità il grido dell’uomo europeo». Ezra Pound brevemente scrive: «Senza indugi i miei migliori auguri a Ungaretti e congratulazioni per aver sopravvissuto alle vicissitudini di una difficile epoca». Leo Spitzer dedica un importante commento della sua critica stilistica alla poesia L’Isola del Sentimento del tempo. Allen Tate scrive: «Annovero Ungaretti tra i più grandi poeti europei moderni, un poeta che dopo la morte di Valéry non ha chi lo superi in Europa. È un fenomeno interessante il fatto che il centro poetico dell’Europa continentale si sia spostato dalla Francia all’Italia, il Paese che vanta due grandi poeti: Ungaretti e Montale». Jacques e Raïssa Maritain scrivono: «Siamo felici di associarci all’omaggio reso a Ungaretti del quale noi ammiriamo, dopo molti anni, l’arte sottile e delicata e la grande opera poetica».
Per l’omaggio a Ungaretti occorrerebbe vedere a fondo il carteggio con Paulhan: inizia nel 1921, finisce nel 1968, quando Paulhan muore. Da Paulhan viene a Ungaretti il più grande elogio che si possa ottenere: Paulhan dice a Ungaretti che i suoi poemi gli ispirano la certezza che l’anima umana è salva e noi con essa.
Nel febbraio del ’69 Paulhan, Jean Fautrier e Ungaretti organizzano un viaggio in aereo intorno al mondo. Hanno tutti quasi ottant’anni e diranno di aver passato uno dei periodi più belli della loro vita. Arrivano lettere del poeta da Tokyo, da Hong Kong, da Istanbul. Aerei «che alla velocità ti catapultano/ di mille miglia all’ora»: così dirà nel coro 23 de Il taccuino del vecchio che ricorda quel volo. Tra Fautrier e Ungaretti è nata un’amicizia fraterna. Nel dicembre del ’62 Fautrier è a Roma; ci torna nel maggio del ’63. Partecipa a una trasmissione in diretta de L’Approdo, intervistato da Ungaretti: «L’intervista con Fautrier – scrive Ungaretti – è andata molto bene e ho sentito commenti favorevolissimi». Il grande pittore francese, padre dell’informale, regala alla presentatrice della trasmissione Edmonda Aldini, alla redattrice Lucia Campione e a me tre guaches molto belle. Fautrier spera che io possa dargli delle indicazioni perché vorrebbe acquistare una casa (una fattoria o una casa un po’ antica) nelle vicinanze di Roma. Nel febbraio del ’64 Ungaretti mi dice che le notizie di salute del pittore non sono buone: «Il suo successo invece cresce – continua Ungaretti – la Galleria d’Arte Moderna gli prepara una grande prospettiva per aprile…». Sulla sua casa di Parigi si è aperta una controversia che si risolve con la decisione che il pittore può rimanervi fino alla morte. Dopo sarà trasformata in Museo Fautrier. E Ungaretti conclude: «Dopo la morte di Braque, è il maggiore vivente». (Nella foto: Giuseppe Ungaretti tra Jean Fautrier, alla sua destra, e Franco Gentilini. Si riconoscono nell’immagine Palma Bucarelli, Giulio Carlo Argan, Leone Piccioni).
Maggio del ’64, un biglietto di Ungà: «Ho notizie che Fautrier è moribondo. Se ne va l’ultimo dei veri pittori. Di poeti ne sono rimasti di più. Ma non molti». Fra le opere più importanti Fautrier lascia la serie degli Otage, dedicati alle vittime delle guerre. Valgono molto, quasi 5 milioni di franchi ciascuno. Ungaretti vorrebbe farmene comprare uno: ma dove ho i soldi?
Insieme a Fautrier, l’altro pittore che Ungaretti ama di più negli ultimi anni è Alberto Burri (nella foto). Ecco come lo presenta in una lettera dell’aprile ’63: «Burri, il medico, poi pittore reduce dalla prigionia nei campi di concentramento che, con quell’orrore negli occhi vuota, nelle sue opere, il bubbone infernale, ne mostra in mezzo ai lutti, l’ingiusto cratere di sangue e di fuoco voluto dall’inferno, e mostra come la fiamma della libertà domini alla fine anche il più atroce sadismo». Nel luglio del ’66 Ungaretti visita la Biennale di Venezia e dice della «stupenda sala di Burri, l’ultimo pittore rimasto nel mondo… Fontana ha una purezza unica. Il resto o è vecchio o è stupido. La pittura è morta. La poesia è morta. Tempi allegri!». Per gli ottant’anni di Ungaretti preparammo in piccola tiratura la pubblicazione di Dialogo, le poesie d’amore tra Ungà e Bruna Bianco. Burri regala una combustione. L’editore è Fogola di Torino. Anche la raccolta delle ultime poesie di Ungaretti sotto il titolo Morte delle stagioni viene tirata in un numero limitato di copie con acquaforte e disegni regalati da Manzù. Provai io a sondare Manzù perché illustrasse quel volume. Prendendola alla larga, come fa Manzù, mi chiese che temi poetici toccavano questi versi, e io risposi che si trattava di poesie d’amore. Allora Giacomo si è entusiasmato e si è offerto di preparare lui le illustrazioni.
Ma non si può fare a meno di ricordare altri grandi pittori amati e amici di Ungaretti. Carlo Carrà, ad esempio: Ungaretti lo incontra a Parigi nel ’14. Ungaretti ammira molto il saggio di Carrà su Giotto pubblicato dalla Voce nel 1915: «Che cosa delicata e limpida. Hai approfondito anche il senso di quella pittura, con quel tuo linguaggio che è una vera trasposizione di realtà». È un panorama entusiasmante: c’è Apolinnaire e la Jolie Rousse, Valéry e la Jeune Parque, Stravinskij che rimedita la musica del ’600 e del ’700, Picasso che scopre Pompei, Raffaello e Ingres, e Carrà, superato il futurismo, partecipe della stessa ricerca metafisica di De Chirico. In questo panorama nasce il Sentimento del tempo.
Nel ’31 si tiene a Roma una importante esposizione pittorica. Il secondo premio va a Carrà (sono 50 mila lire), il terzo a Soffici; vince inopinatamente Tosi. «Soffici che è uno di quelli, direi solo con te, che ha creato il clima dell’arte moderna italiana». Ungaretti conosce Soffici a Parigi nel ’14. «Ho visto a Parigi – scrive – Apollinaire e Picasso e abbiamo parlato di Soffici, bravo, gentiluomo, Soffici maestro d’arte e di vita, con tante altre parole di lodi che tralasciamo». L’affetto non si logora nel tempo ma i giudizi mutano.Soffici rivede i suoi felici giudizi sull’arte francese della quale ha scritto e che lo ha entusiasmato in altri tempi. Ma scrive che una diecina d’anni dopo, rivedendole, ritrova talune tele impressioniste, di Manet, Monet, Renoir«smorte e bigie». Ungaretti gli risponde sul Tevere, soprattutto per il ripudio di Soffici di Mallarmé. È il periodo del ritorno all’ordine: «Dunque bruci tutto quello che hai adorato, caro Soffici? Non ti danno più piacere le natiche delle ragazze di Renoir? Nemmeno le zinne di Degas?». A proposito di Mallarmé, Ungaretti conclude: «Mi sembrava, secondo le più remote immagini, che danza e musica generassero poesia. Mi sembrava che musica e parola, parola e danza, il ritmo, fosse all’ordine della poesia umana e tuttora accompagnasse i moti della nostra natura. Ma oggi un amico che mi è carissimo, Soffici, vorrebbe farmi credere che sia una stranezza da decadenti la musica nella poesia». (Nella foto: Carlo Carrà, “La marina dell’Approdo”, 1952).
Con Carrà e Soffici non poteva mancare De Chirico. Nel 1916 De Chirico e Carrà si fanno ricoverare all’ospedale militare di Ferrara per essere riformati per disturbi nervosi. In ospedale i due lavorano. Basti pensare ai “biscotti” e al “pane ferrarrese” per avere un’idea della grande ispirazione di De Chirico. Passa l’ufficiale medico per la visita conclusiva e si ferma a guardare i quadri: «Questi due – sentenzia – non hanno bisogno neppure di essere visitati, basta guardare cosa dipingono: questi sono matti davvero». Intorno al ’20 Ungaretti ci ricorda che De Chirico non aveva pagato l’affitto della sua casa a Parigi. «Andandosene – scrive – aveva lasciato diversi quadri del periodo delle Piazzeche erano accatastati in portineria. La portiera voleva portarli al mercato delle Pulci. Io dico di no. Chiedo a De Chirico scrivendogli di venderli e gli mando un po’ di quattrini… Li ha comprati – conclude Ungaretti – Breton e della gente che è diventata ricca con quei quadri».
Di Scipione (Gino Bonichi), che dipinse un magnifico ritratto di Ungaretti, il poeta scrive che è l’unico pittore surrealista e che la sua pittura è nata con quella di Mafai. De Chirico per Ungaretti è un metafisico. Mafai sarebbe potuto essere il vero testimone di Scipione, il quale attraverso particolari letture e ripensamenti viene ricondotto al Greco: «Roma fu così vista surrealisticamente attraverso il Greco, con una forza sensuale da colosso e una disposizione da agonizzante, con l’incubo della morte in una vita che non si arrendeva». Io posseggo un quadro di Mafai e Ungaretti mi ha scritto che «quel fondo lapislazzuli del tuo quadro di Mafai è una delle invenzioni pittoriche più straordinarie che si possano vedere». (Nella foto).
In una lettera del ’63 Ungaretti mi scrive di aver visto una grande riproduzione di Guernica e aggiunge: «dopo Michelangelo del Giudizio, il più bel quadro del mondo». Ha definito Picasso «il toro della libertà»: «il mostro che si avventa e aggredisce e l’umana libertà che alla fine, per eterna grazia sua, sarà sempre vincitrice». Anche una lettera del ’63 si occupa ampiamente di pittura e indica «la rivelazione di Pollock» del 1952.
Sebbene lo amasse molto non ci sono nelle lettere ungarettiane ricordi di Rosai. Ma nel Sentimento del tempo la poesia Senza più peso è dedicata a Ottone Rosai: «Per un Iddio che rida come un bimbo/ tanti gridi di passeri/ tante danze nei rami…». Nell’autunno del ’68 una serie di litografie di Piero Dorazio illustravano l’edizione limitate del volume di Ungaretti La luce – poesie 1914-1961 edito da Erker Presse St. Gallen in Svizzera. Contemporaneamente scrisse un saggio sui disegni di Guttuso che a lui piacevano più della pittura del maestro siciliano. Ungaretti ammirava anche Mario Schifano: quando il giovane pittore venne incriminato per uso di droga – e accadde più d’una volta – Ungaretti fu sempre presente in tribunale come testimone per illustrarne la personalità artistica. Richiesto dal Cancelliere di quanti anni avesse, rispose che dopo tanto tempo non se lo ricordava.
Nel ’68 a Roma Ungaretti scrisse il catalogo per una mostra di Carlo Guarienti che da sei anni non esponeva. Il testo ungarettiano è molto impegnato e va in profondo scoprendo l’intensità della pittura di Guarienti. Del resto Ungaretti non ha mai scritto una riga se non persuaso del suo giudizio: non ha mai parlato di qualche cosa così per fare, ma sempre in profondità. Si è battuto per tanti nuovi artisti, italiani e stranieri del ’900 e in questa prefazione si batte per indicare un pittore nuovo: Carlo Guarienti.
(Nella foto una sua opera, appartenuta a Leone Piccioni: “Susanna e i vecchioni”, 1965. Nella foto vicini al titolo: particolare di un’opera di Burri).