Moby Dick/10
L’ultima caccia
Con l'ultima, tragica e proverbiale caccia di Achab si conclude "Moby Dick" nella versione di Alessandro Macchi per Succedeoggi, illustrata da Roberto Cavallini
CAPITOLO CXXXII
LA SINFONIA
Qui e là in alto guizzavano le ali, bianche come neve, di piccoli uccelli immacolati; erano i pensieri delicati dell’atmosfera femminea; ma giù negli abissi dell’azzurro senza fondo, passavano e ripassavano enormi Leviatani e pesci-spada e squali; e questi erano i pensamenti vigorosi e tormentati del maschio mare. Ma, sebbene tanto contrastanti nell’intimo, l’esteriore contrasto era soltanto di riflessi e d’ombre; quei due cielo e abissi marini parevano una cosa sola; era soltanto il sesso, per così dire, che li distingueva. In alto nel cielo come un re o uno zar il sole pareva donare quell’aria gentile al vigoroso ondeggiante mare proprio come una sposa al suo sposo.
Achab si piegò sulla murata e guardò come la sua ombra dentro l’acqua affondava e quanto più lui si sforzava di penetrarne la profondità, affondava sempre più al suo sguardo.
Quell’aria beata, felice, quel cielo ammaliatore, lo afferrarono infine carezzevoli; una lacrima cadde nel mare dall’occhio di Achab, tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia.
Starbuck vide il vecchio; lo vide appoggiarsi pesantemente alla murata, e gli parve d’udire nel proprio cuore fedele il singhiozzo smisurato che usciva segreto in mezzo a tutta quella serenità. Attento a non toccarlo e a non farsi notare, gli venne vicino, e si fermò. Achab si volse.
Starbuck!
Signore.
— Oh, Starbuck è un vento dolce, dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo. In un giorno simile, di altrettanta dolcezza, ho colpito la mia prima balena, giovane ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quaranta anni fa! Caccia ininterrotta, sempre questa guerra sugli orrori dell’abisso. È proprio così, Starbuck; di questi quarant’anni ne ho passati a terra nemmeno tre. Quando penso a questa vita che ho fatto, alla desolazione, al deserto di solitudine che è stata, all’isolamento come da città chiusa tra le mura di un capitano che entro la sua cinta così poco ammette della verde campagna esterna… oh, stanchezza! oh, peso! schiavitù africana di comando solitario. Quando penso a tutto questo, che solo vagamente avevo sospettato, non mai veduto con tanta lucidità, e come per quarant’anni non ho mangiato che cibo secco salato, giusto emblema dell’asciutto nutrimento della mia anima! Mentre il più povero uomo di terra ha avuto frutta fresca quotidiana e ha spezzato il pane fresco del mondo, invece delle mie croste ammuffite… lontano, lontano, oceani interi da quella mia moglie bambina che presi come compagna dopo i cinquanta, mettendo la vela il giorno dopo al Capo Horn e non lasciando nel cuscino nuziale che un’impronta.Si, l’ho resa vedova il giorno delle nozze!
E poi, la follia, il delirio, il sangue in fiamme e la fronte accesa, con cui in migliaia di discese il vecchio Achab ha dato la caccia furiosa, rabbiosa, schiumosa, alla preda, da demonio più che da uomo! Sì, sì! che stupido è stato per quarant’anni, che stupido, che stupido, che vecchio stupido è stato Achab! E adesso quant’è più ricco o migliore Achab?
Guarda, guardami. Oh, Starbuck! Non è terribile che con questo grande fardello che porto, una misera gamba mi debba essere stata strappata? Via, scostami via questi vecchi capelli, mi accecano che sembra che io pianga. Capelli tanto grigi vengono soltanto dalle ceneri! Ma sembro davvero molto vecchio, tanto, tanto vecchio, Starbuck? Mi sento stanco a morte, prostrato, ricurvo come se fossi Adamo, barcollante dal tempo del Paradiso sotto il cumulo dei secoli. Dio! Dio! Dio! spezzami il cuore! sfondami il cervello! beffa! beffa! amara beffa dei capelli grigi; ho forse provato abbastanza gioia da dovervi portare, e sembrare e sentirmi tanto insopportabilmente vecchio? Più vicino! stammi accanto, Starbuck; fammi guardare un occhio umano; è meglio che guardare nel mare o nel cielo, è meglio che guardare Dio. Quest’è lo specchio magico, marinaio; vedo mia moglie e mio figlio nel tuo occhio, no! No! Rimani a bordo, a bordo! non scendere nella lancia con me, quando Achab marchiato darà la caccia a Moby Dick. Tu non dividerai quel rischio. No, no, non con la casa lontana che vedo in quell’occhio!
-Oh! Capitano! Capitano! anima nobile! grande vecchio cuore, dopo tutto! Perché dovrebbe qualcuno dare la caccia a quel pesce maledetto? Via, andiamo via! fuggiamo queste acque di morte! torniamo a casa! Il mio ragazzo ai dolci venti del mattino d’estate si sveglia e sua madre gli racconta di me. È la mia Mary, è proprio la mia Mary! Ogni giorno porta il ragazzo sulla collina per vedere per primo la mia vela …con quanta gioia con quanta allegria, capitano, faremmo la corsa per rivedere la vecchia Nantucket! Io credo, signore, che anche a Nantucket ci siano altre dolci giornate azzurre e miti come questa. Avanti capitano! Avanti, capitano, studiamo la rotta, portaci via-
Ma lo sguardo d’Achab era già altrove; come un albero disseccato, egli si scosse e gettò al suolo il suo ultimo frutto incenerito.
-Che cos’è questa indicibile cosa imperscrutabile, sovrumana che contro ogni amore e naturale desiderio che continua a sovrastarmi in ogni istante, a tormentarmi e che mi prepara a ciò che un buon cuore di uomo non osa nemmeno immaginare? contro ogni amore e naturale desiderio? -È Achab? Sono io, o è Dio? chi solleva questo braccio, chi? Se persino il sole immenso non si muove da sé e non è che un fattorino del cielo; se nemmeno una stella può ruotare se non per un potere invisibile, come può dunque questo piccolo cuore battere, e questo piccolo cervello pensare, se non è Dio che dà quel battito, che pensa quei pensieri, che vive quella vita, e non io? Starbuck! –
Sbiancandosi come un cadavere per lo sgomento, l’ufficiale era fuggito via.
Achab attraversò il ponte e, affacciandosi all’altra murata, guardò giù nel mare e vide due occhi sbarrati, fissi nell’acqua e trasalì, era Fedallah!
CAPITOLO CXXXIII
LA CACCIA. PRIMA GIORNATA
Quella notte, durante il turno di guardia di mezzo, il vecchio, quando uscì dal boccaporto in cui s’appoggiava — com’era ogni tanto sua abitudine— andò al suo perno e tutto a un tratto cacciò innanzi fieramente la faccia fiutando l’aria marina, come fa un cane sagace di nave avvicinandosi a qualche isola selvaggia. Dichiarò che una balena non doveva essere lontana. Presto quel sentore particolare, che qualche volta il capodoglio vivo manda a grande distanza, fu chiaramente percettibile a tutto l’equipaggio e nessuno rimase sorpreso che, consultata la bussola e la manica a vento e accertato infine la possibile provenienza dell’odore, Achab ordinasse in fretta di modificare un poco la rotta della nave e ridurre le vele.
L’accortezza di queste misure venne confermata all’alba quando, diritto a prua, apparve sul mare una lunga striscia lucente, liscia come olio, e simile, nelle increspature pieghettate dell’acqua che l’orlavano, alla liscia superficie metallica mossa da qualche repentino e netto frangente di marea alla foce di un fiume rapido e profondo.
– Le vedette agli alberi! In coperta tutti gli uomini!
– Cosa vedete? — urlò Achab
— Nulla, nulla, signore! — fu il grido che venne giù in risposta,
— Belvedere, velaccio e velaccino! Coltellacci e scopamari! in basso e arriva, alle due bande! –
Issate tutte le vele, Achab sciolse il cavo riservato a sospenderlo in testa all’alberetto di controvelaccio. Era giunto appena a due terzi della salita, quando cacciò un urlo nel cielo, come di gabbiano: -Laggiù soffia! laggiù soffia! La gobba come un mucchio di neve! È Moby Dick! È Moby Dick!
Eccitati dal grido che parve ripreso quasi simultaneamente dalle tre vedette, gli uomini di coperta corsero alle manovre, Achab era intanto arrivato al suo posatoio di qualche piede più in alto delle altre vedette, con Tashtego subito sotto alla cima del velaccio. Da quell’altezza la balena si vedeva ora a qualche miglio circa in prora: a ogni ondata di mare mostrava l’alta gobba scintillante, e regolarmente sfiatava con il suo getto silenzioso nell’aria. Agli ingenui marinai quello parve lo stesso getto fantasma e silenzioso che per tanto tempo avevano veduto sotto la luna nell’Atlantico e nell’Indiano.
-E nessuno di voi l’ha veduta prima? — gridò Achab agli uomini appollaiati intorno a lui.
-L’ho veduta quasi nello stesso istante del capitano, signore, e ho gridato — disse Tashtego.
– Non lo stesso istante, non lo stesso … no, il doblone è mio. II destino riservava a me il doblone. A me soltanto: nessuno di voi avrebbe potuto avvistare prima di me la Balena Bianca. Laggiù soffia! laggiù soffia laggiù soffia! Là ancora! là! dinuovo! — gridò in toni lunghi, vibranti, metodici allo stesso ritmo dei graduali prolungamenti delle sfiatate visibili del mostro. — Sta per inabissarsi! Serra i coltellacci! ala i velacci! Pronti alle tre lance. Signor Starbuck, ricorda, tu resti a bordo e pensi alla nave! Timoniere, orza, orza una quarta! Così, alla via, marinaio, alla via! Laggiù si tuffa! No, no; è soltanto acqua della coda! Tutte pronte le lance? Sotto, sotto! mollami, signor Starbuck; mollami, mollami, presto, più presto! — e scivolò rapido nell’aria giù sul ponte.
-Va’ dritto a sottovento, signore — gli gridò Stubb — proprio davanti a noi; non può ancora aver visto la nave.
-Zitto, marinaio! Pronti ai bracci! Barra tutta a sottovento! braccia di punta! Ralinga, ralingal Così, bene! Lance, lance! –
In breve tutte le lance, tranne quella di Starbuck, furono in mare, le vele issate, le pagaie in azione con increspante velocità, filando a sottovento, e Achab guidava all’assalto. Un pallido lucore di morte accendeva gli occhi infossati di Fedallah, un movimento orribile gli mordeva la bocca.
Mentre si avvicinavano, l’oceano si faceva sempre più liscio; pareva distendere un tappeto sulle onde; pareva una campagna nel meriggio, tanto serenamente si stendeva. Alla fine il cacciatore anelante giunse così vicino alla preda apparentemente ignara, e tutta la gobba abbagliante si vide ben distinta scivolare sul mare come una cosa a sé, circondata da un anello rotante di stupenda schiuma fioccosa e lucente di color verde. Vedemmo le grandi rughe involute della testa che sporgeva leggermente in avanti. Sulle morbide acque del tappeto, si muoveva la bianca ombra scintillante della fronte nivea ed enorme, e quell’ombra era accompagnata da un ritmico sciacquio, scherzoso; dietro, le acque azzurre si riversavano mescolandosi nella mobile vallata della scia diritta e, ai due fianchi, bolle rilucenti venivano a galla e danzavano. Simile a un’asta di bandiera che sorga sullo scafo dipinto di un galeone, la lunga pertica spezzata di una lancia recente sporgeva dalla schiena della Balena Bianca, e, ad intervalli, dalla nube degli uccelli dal tocco leggero che svolazzavano sul pesce lì intorno avanti e indietro come un baldacchino, uno di loro si posava silenzioso oscillando su questa pertica, le lunghe piume della coda sventolanti come fiamme.
Una gioia serena, una immensa dolcezza di riposo nella rapidità, rivestiva la balena nuotante …neppure i miti superavano la maestà della Balena Bianca mentre così divinamente nuotava.
Ma ben presto la parte anteriore del suo corpo emerse lentamente dall’acqua; per un istante la figura marmorea formò un grande arco, simile al Ponte Naturale della Virginia, e con un gesto ammonitore sventolando nell’aria la coda come una bandiera, il grande dio si mostrò, si tuffò, e scomparve. I bianchi uccelli marini, arrestandosi a mezz’aria e cadendo sull’ala, attesero impazienti sullo stagno agitato che era rimasto.
—Un’ora- disse Achab, piantato in poppa alla lancia, e spaziò con lo sguardo oltre il punto della immersione della balena verso le cupe distese azzurre e i vuoti immensi affascinanti dell’oceano a sottovento. Fu soltanto un istante, e di nuovo gli occhi parvero turbinargli nel capo, mentre spaziava sul cerchio delle acque.
Gli uccelli! gli uccelli! — gridò Tashtego. La loro vista era più acuta di quella dell’uomo: Achab non riusciva a vedere nessun segno nel mare. Ma, d’improvviso, scrutando giù negli abissi, vide al fondo un punto bianco vivente, non maggiore di una donnola bianca, che veniva su con rapidità prodigiosa e ingrandiva salendo, finché si volse e si videro allora, ben chiare, due file storte di denti bianchi, scintillanti, sorgenti dall’abisso imperscrutabile. Era la bocca aperta e la mandibola ricurva di Moby Dick, il corpo enorme, in ombra, ancor mezzo confuso nell’azzurro del mare. La bocca scintillante si spalancava sotto la lancia come una tomba di marmo scoperchiata, e Achab dando un colpo obliquo col remo di governo, scostò il legno dall’apparizione terribile. Poi, gridando a Fedallah di scambiare il posto con il suo, andò davanti in prua e, afferrato il rampone di Perth, comandò all’equipaggio di dar mano ai remi e stare pronti a rinculare.
Ora, per via di questa tempestiva rotazione della lancia sul proprio asse, la prua venne in anticipo portata a fronteggiare la testa della balena ancora sommersa. Ma, come accorgendosi dello stratagemma, Moby Dick, con quella maligna intelligenza che gli attribuivano, slittò di fianco, scagliando in un attimo la sua testa rugosa di traverso sotto la lancia.
Tutta la lancia, ogni tavola e ogni costa, tremò per un istante, mentre la balena, distesa obliquamente sulla schiena come un pescecane che azzanna, prese lentamente e a tastoni la prora nella bocca e così la lunga e stretta mandibola ricurva si levò alta nell’aria e uno dei denti s’impigliò in una scalmiera. Il biancoperla azzurrino dell’interno della mascella era a cinque pollici dalla testa di Achab e arrivava anche più in alto. In questa posizione, la Balena Bianca scuoteva ora il cedro leggero come un gatto delicatamente crudele fa col topo. Fedallah impassibile incrociava le braccia mentre i suoi uomini giallo tigre ruzzolavano nella barca.
Fu allora che il folle Achab, inferocito per quest’esasperante vicinanza col suo nemico che lo metteva vivo e disarmato proprio nelle fauci aborrite, afferrò delirante il lungo osso con le mani nude e pazzamente tentò di strapparne la presa. Mentre si sforzava così invano, la mandibola gli sfuggì; i fragili capi di banda si curvarono, cedettero e saltarono mentre le due mascelle come enormi cesoie, avanzandosi ancora a poppavia, troncarono il legno di netto in due e si richiusero con colpo secco nel mare, a ugual distanza tra i due relitti galleggianti.
Nell’attimo prima che la lancia andasse in pezzi, Achab, si era accorto dell’intento della balena dal quel suo scaltro rialzare della testa, mossa questa che ne allentò per un momento la presa, e allora lui aveva tentato in quell’istante con la mano un ultimo sforzo di spingere la barca fuori dal morso. Ma la lancia, scivolando invece sempre più nella bocca e piegandosi per capovolgersi mentre scivolava, gli aveva fatto lasciare la presa e, mentre lui si piegava a dar la spinta, l’aveva rovesciato; così Achab cadde bocconi nell’acqua dell’oceano.
Ritraendosi dalla preda tra la spuma, Moby Dick sostava ora a breve distanza, inalberando verticalmente il capo bianco oblungo, su e giù in mezzo ai flutti, e nello stesso tempo girando lentamente tutto il corpo affusolato. Ma presto, riprendendo la posizione orizzontale, Moby Dick si mise a nuotare veloce tutt’intorno all’equipaggio naufrago facendosi schiumare l’acqua ai fianchi nel cammino vendicatore, come se si stimolasse per sferrate un altro e più mortale assalto. La vista della lancia in frantumi pareva renderlo folle come il sangue d’uva e di more gettato innanzi agli elefanti di Antioco nel libro dei Maccabei. Intanto Achab, mezzo affogato nella schiuma dell’insolente coda del mostro e troppo storpio per nuotare, benché sapesse sempre tenersi a galla per quanto in mezzo a un simile vortice, il povero Achab mostrava la testa come una bolla sbatacchiata che il minimo urto casuale può far scoppiare.
Dal pezzo di lancia di poppa Fedallah intanto lo guardava con ghigno pacato e assente. L’equipaggio, aggrappato all’altra estremità galleggiante, non poteva prestargli soccorso; c’era già un bel da fare per badare a se stessi. Poiché tanto turbinosamente terrificante era l’aspetto della Balena Bianca e a una tal velocità siderale andavano i suoi circoli sempre più stretti, che pareva piombasse loro addosso difilato. E benché le altre lance, incolumi, incrociassero tutte lì vicino, pure non osavano spingersi nel mulinello e colpire, per timore di dare il segno per la distruzione istantanea degli arrischiatissimi reietti Achab e gli altri, e nemmeno, in quel caso, avrebbero potuto sperare di scampare essi stessi. Aguzzando gli occhi, quindi, rimasero sull’orlo esterno della zona spaventevole il cui centro era ora la testa del vecchio.
Intanto, tutto ciò era stato osservato, sin da principio, dalle teste d’albero della nave, e questa, orientando i pennoni, era accorsa sul luogo della scena e ora si trovava tanto vicino, che Achab, dall’acqua, le gridò: —Addosso alla… — ma in quell’istante una grande ondata alzata da Moby Dick gli piombò addosso rovesciandosi e lo sommerse. Ma uscitone dibattendosi e riuscendogli di alzarsi su una cresta di un’altra ondata, urlò:
-Addosso alla balena! Cacciatela via! –
La prora del Pequod virò, e rompendo il cerchio incantato, la nave divise di fatto la Balena Bianca dalla sua vittima. E mentre quella s’allontanava torva, le lance volarono al salvataggio.
Tirato Achab nella lancia di Stubb, con gli occhi iniettati di sangue e accecati, col sale bianco incrostato nelle rughe, la sua lunga tensione fisica si spezzò ed egli cedette per un po’ annientato dalla debolezza del corpo giacendo tutto pesto nel fondo dell’imbarcazione come uno che fosse schiacciato sotto le zampe di mandrie d’elefanti. Dal suo intimo più profondo uscivano gemiti senza nome, come suoni desolati provenienti da burroni.
Ma l’intensità della sua prostrazione fisica non fece che abbreviargliela. Nel giro di un istante i grandi cuori condensano qualche volta, in una sola fitta acutissima, la somma di tutte quelle scialbe sofferenze benevolmente disperse lungo tutta la vita di uomini più deboli.
— Il rampone — disse Achab, rialzandosi a mezzo busto e appoggiandosi con difficoltà sul braccio piegato — è salvo?
-Sì, signore, non è stato lanciato: eccolo — disse Stubb mostrandolo
-Mettimelo davanti. Manca nessuno?
-Uno, due, tre, quattro, cinque; c’erano cinque remi signore, e ci sono cinque uomini.
-Bene… Dammi appoggio, marinaio; voglio alzarmi in piedi, così, così, la vedo! là! là! là! va sempre a sottovento, che sfiatata scattante! … Giù le mani da me! La linfa eterna torna a scorrere nelle ossa di Achab! Alla vela, fuori i remi, barra! –
Accade sovente che, quando una lancia viene sfondata, l’equipaggio, raccolto da un’altra imbarcazione, aiuta a manovrare quest’ultima, e si continua così la caccia con quelli che si chiamano remi a doppio banco. Fu così anche stavolta. Ma l’accresciuta potenza della lancia non eguagliava l’accresciuta potenza della balena, che pareva avesse triplicati i banchi d’ogni sua pinna, nuotando con una velocità che mostrava chiaramente che la caccia, se continuava in quelle circostanze, si sarebbe prolungata senza fine per non dire senza speranza.
E nessun equipaggio avrebbe potuto reggere a lungo un tale sforzo al remo, intenso e ininterrotto, una cosa che è appena tollerabile per un lasso di tempo molto breve. La nave stessa, allora, come qualche volta accade, offriva il modo più diretto e più rapido per riprendere la caccia. Di conseguenza le lance le andarono incontro e vennero presto agganciate alle gru mentre le due parti della lancia spaccata erano state già prima recuperate dalla nave, poi, issando tutto sulle murate e spiegando ogni vela e allargandole ai lati con i coltellacci come le ali a doppia articolazione di un albatro, il Pequod si gettò sottovento nella scia di Moby Dick.
Ai ben noti, metodici intervalli, la sfiatata scintillante della balena veniva regolarmente annunziata dalle vedette sugli alberi, e quando riferivano che s’era tuffata, allora Achab guardava l’ora esatta e poi, passeggiando in coperta con l’orologio di chiesuola in mano, e appena l’ultimo secondo dell’ora assegnata era trascorso, faceva udire la sua voce:
– Di chi è il doblone adesso? Vedete Moby Dick? — E se la risposta era: — No signore! — subito lui ordinava di essere alzato al posatoio. In questo modo passò la giornata.
Il giorno era quasi finito; soltanto frusciava l’orlo del suo vestito d’oro. Presto fu quasi buio, ma le vedette restavano sempre lassù.
Non si vede più la sfiatata, signore; troppo scuro — gridò una voce dal cielo.
–Che direzione l’ultima volta?- Come prima, signore, diritta a sottovento.-
-Ammaina i coltellacci, signor Starbuck. Non dobbiamo raggiungerlo prima di domattina:
Poi, avanzando verso il doblone dell’albero di maestra:
— Marinai, quest’oro è mio, perché l’ho guadagnato io; ma lo lascerò qui finché la Balena Bianca non sia morta, e allora chiunque sarà stato il primo a segnalarla nel giorno in cui verrà uccisa, quest’oro sarà suo: e se in quel giorno sarò di nuovo io a segnalarla, allora una somma di dieci volte quest’oro verrà divisa tra tutti voi! Via, ora! A te il ponte, ufficiale.
CAPITOLO CXXXIV
LA CACCIA. SECONDA GIORNATA
Al levar del giorno, le vedette alle tre teste d’albero vennero puntualmente rinnovate.
-La vedete? — gridò Achab, dopo aver lasciato un po’ di tempo alla luce per diffondersi.
-Nulla, signore.
-Tutti fuori in coperta, aumentate le vele! Moby Dick viaggia più presto che non credessi: belvedere, velaccio e velaccino!… davvero, bisognava mantenerle tutta la notte. Ma non importa, è soltanto una pausa, un respiro per lo slancio della rincorsa.-
Tale è la meravigliosa abilità, la capacità sperimentata e la fiducia invincibile acquistata da alcuni grandi geni naturali tra i comandanti di Nantucket, che, dalla semplice osservazione di una balena l’ultima volta che è stata avvistata, essi possono, in certe date circostanze, predire con grande accuratezza tanto la direzione in cui essa continuerà per un pezzo a nuotare quando sarà fuori vista, quanto sia la sua probabile velocità durante tutto questo tempo sempre che il mare sia un alleato certo.
La nave balzava innanzi, lasciando un tale scia o solco nel mare come quando una palla di cannone, mal diretta, diventa un vomere e squarcia la pianura.
-Per mille aringhe sotto sale -gridò Stubb -questa velocità ti sale lentamente nelle gambe e dà un formicolio al cuore-
-Laggiù soffia! soffia! soffia! dritto in prora! — sentimmo il grido dall’albero.
-Ecco! ecco! — gridò Stubb. — Lo sapevo, non potevi sfuggire: soffia e spaccati il buco dello sfiato, balena! hai il diavolo dietro! soffia la tromba, spellati i polmoni!… Achab darà la stura al vostro sangue come un mugnaio intercetta con la chiusa l’acqua precipite di un torrente!
E Stubb non faceva che parlare per quasi tutto l’equipaggio. Le frenesie della caccia li facevano ormai ribollire tutti come un vino vecchio che rifermenta. La mano del Destino aveva ghermito le loro anime; e dai pericoli eccitanti del giorno prima, dalle torture d’attesa della notte, dal modo risoluto, cieco e temerario con cui la loro nave selvaggia si precipitava sfrenata alla sua preda fuggente, da tutte queste cose, erano trascinati i loro cuori.
Essi erano un solo uomo, non trenta. L’equipaggio era un tutt’uno ed era del tutto simile all’unica nave che li conteneva tutti, poichè sebbene questa fosse fatta di ogni sorta di cose contrastanti, quercia, acero e pino, ferro, pece e canapa, pure fondeva tutte queste cose in un solo scafo compatto che filava nella sua rotta equilibrato e indirizzato dalla lunga chiglia centrale; così, allo stesso modo, tutte le individualità dell’equipaggio, il valore di uno, la paura di un altro, la colpa e la colpevolezza, tutte le differenze, erano saldate in una unità ed erano tutte indirizzate a quel segno fatale, che Achab, loro unico signore e loro chiglia, poneva.
Le manovre vivevano. Le teste d’albero come cime di palme altissime, erano tutt’intorno fronzute di braccia e di gambe. Afferrati a una gomena con una mano, alcuni stendevano l’altra agitandola ansiosi; altri, facendosi schermo agli occhi dalla vivida luce del sole, sedevano in punta ai pennoni oscillanti; tutte le aste degli alberi avevano generato mortali, pronti e maturi per il loro destino che li aspettava a meno di un miglio a prora.
Achab non era ancora stato tirato su del tutto al suo posatoio che egli stesso diede il via a una orchestra che fece vibrare l’aria come una scarica di fucileria. Era il grido trionfale di trenta polmoni di cuoio….
Moby Dick in carne e ossa si stava proiettando a galla! E non con tranquille e indolenti sfiatate, non col pacifico zampillo di quella mistica fonte del suo capo, la Balena Bianca, questa volta, rivelava la sua presenza col prodigio, immensamente più grandioso, del salto in totale emersione. Proiettato a galla dai più lontani abissi con tutta la sua velocità, il capodoglio scagliava la sua intera massa nel puro elemento dell’aria e, sollevando una montagna di schiuma accecante, rivelava la sua posizione alla distanza di sette miglia e più.
-Laggiù salta! laggiù salta! – fu la fucileria dell’urlo mentre nelle sue bravate colossali la Balena Bianca schizzava come un salmone verso il cielo. Vista così di botto nella pianura azzurra del mare e stagliata sull’orizzonte anche più azzurro del cielo, la schiuma sollevata da quel movimento scintillò e risplendette abbagliante come un ghiacciaio e andò poi svanendo, svanendo via via, passando dalla sua intensità radiosa alla fosca nebulosità come d’un acquazzone che avanza in una valle.
-Sì, si!, fa’ il tuo ultimo salto nel sole, Moby Dick! – esclamò Achab. – La tua ora e il tuo rampone sono vicini! –
-Ammaina! tutti giù, solo un uomo al trinchetto. Pronti alle lance!
Sdegnando le tediose scale di corda delle sartie, i marinai scivolarono dalla coperta come stelle cadenti, giù per i paterazzi e le drizze isolate mentre Achab, meno fulmineamente, ma sempre con gran fretta veniva mollato dal posatoio.
Come per incutere loro un vivo terrore, essendo stavolta lui Moby Dick stesso che assaliva per primo, s’era voltato e venne alla volta dei tre equipaggi. La lancia di Achab era al centro e Achab incitando i suoi, disse che avrebbe preso la balena di testa, di fronte, ché, entro un certo limite, una tale direzione nasconde gli assalitori alla vista laterale del mostro. Ma prima di poter raggiungere questo stretto limite e quando ancora tutte le lance gli stavano chiare allo sguardo come i tre alberi della nave, la Balena Bianca si buttò avanti schiumando in corsa furiosa, e quasi in un lampo, per così dire, precipitatasi tra le imbarcazioni con le mascelle aperte e la coda che sferzava, offrì battaglia terribile da ogni parte e, noncurante dei ramponi che da ogni parte le venivano scagliati, parve soltanto intesa ad annientare ciascuna singola tavola di cui le lance erano fatte. Ma, manovrate abilmente, e facendo incessanti conversioni, come ben addestrati destrieri nel campo, le imbarcazioni per qualche istante le sfuggirono benché a volte soltanto per lo spessore di una tavola, mentre per tutto il tempo l’urlo disumano di guerra di Achab copriva lacerante tutte le altre grida.
Ma alla fine, nelle sue indistricabili evoluzioni, la Balena Bianca incrociò e talmente e in mille modi aggrovigliò le tre lenze attaccate al suo dorso, che queste finirono per raccorciarsi col trascinare le lance condannate verso i ramponi piantati nel suo corpo. E la balena poi per un momento si ritrasse in disparte, come a raccogliere le forze per un assalto più tremendo. Cogliendo l’occasione, Achab prima mollò, poi recuperò rapidamente di nuovo la lenza e a strattoni sperava così di sbrogliarla un po’, quando, di botto, si presentò uno spettacolo più feroce di quello dei denti a saracinesca dei pescicani!
Impigliati e attorcigliati nei grovigli delle lenze, ramponi liberi e coltellacci, con tutte le loro lame, punte e uncini, balzarono sibilando e gocciolando fino ai passacavi di prua dell’imbarcazione di Achab. Non c’era che una cosa da fare: afferrando il coltello, egli diede con competenza colpi dentro, e poi in mezzo, e poi di lato, e, attraverso quei lampeggiamenti d’acciaio, ricuperò la lenza al di là della barca, la passò al prodiere, poi, troncato due volte il cavo presso i passacavi, buttò in mare il fascio di cavi d’acciaio intercettato, e tutto fu di nuovo come prima.
In quell’istante la Balena Bianca si gettò improvvisamente tra i grovigli di lenze che restavano delle altre barche e, così facendo, trascinò irresistibilmente verso la sua coda le lance più imbrogliate di Stubb e di Flask, le sbatté insieme come due gusci che rotolano nella risacca di una spiaggia, e poi, tuffandosi nel mare, scomparve in un gorgo ribollente sul quale i frantumi, odorosi di cedro, dei relitti girarono per un po’ danzando mentre i due equipaggi continuavano a roteare nell’acqua, cercando di aggrapparsi alle danzanti tinozze, ai remi e agli altri attrezzi oscillanti a fior d’acqua. In quel disastro, mentre Stubb gridava vigoroso al salvataggio e il piccolo Flask arricciava le gambe per tema dei pescicani, la lancia ancora immune di Achab gli permetteva di vogare nello stagno schiumoso per salvare chi poteva; ma in quella selvaggia simultaneità di mille pericoli reali, l’imbarcazione di Achab parve d’un tratto sollevata verso il cielo da fili invisibili, mentre, come una freccia, scattando perpendicolarmente dal mare, la Balena Bianca le picchiava la sua gran fronte sotto il fondo e la mandava a catafascio, in aria;… finalmente poi la lancia ricadde, capo di banda all’ingiù, e Achab coi suoi uomini si dibatterono là sotto come foche in una caverna di una scogliera.
La Balena in quello sfracello sostò un momento tastando lenta con le pinne della coda da parte a parte, e ogni volta che un remo alla deriva, un pezzo di tavola, una minima briciola delle lance le toccava la pelle, la coda si ritraeva fulminea e percuoteva obliquamente il mare. Ma presto, come soddisfatta che il suo lavoro per il momento fosse finito, cacciò la fronte rugosa nell’oceano e, trainandosi dietro le lenze aggrovigliate, riprese la via a sottovento, al passo metodico del viaggiatore.
Come la volta precedente, la nave attenta, avendo osservato tutto il combattimento, venne difilata al salvataggio e, calata una lancia, raccolse i marinai, le tinozze, i remi galleggianti e tutto il resto che si poté raccogliere, e li depose al sicuro in coperta. Qualche spalla, polso e caviglia slogati, contusioni, lividi, ramponi e lance distorti, grovigli inestricabili di cavo; remi e tavole in frantumi; tutto questo c’era; ma nessuna disgrazia fatale o anche soltanto seria pareva fosse toccata a qualcuno. Come il giorno prima, Achab venne anche stavolta trovato ferocemente aggrappato a una metà della sua imbarcazione che gli aveva fornito un galleggiamento abbastanza facile e non lo prostrò come l’accidente del giorno prima.
In coperta tutti gli occhi si puntarono su di lui che continuava ad appoggiarsi a metà sulla spalla di Starbuck che era stato fino allora il più sollecito ad assisterlo. La sua gamba d’avorio era saltata, non lasciando che una corta scheggia di troncone.
-La ghiera non ha tenuto, signore – disse il maestro d’ascia, venendo avanti – Io ho lavorato bene quella gamba.
-Ma non ci sono ossa rotte, signore, spero – disse Stubb con sincero Interesse.
-Si invece! e tutte in frantumi, Stubb! … lo vedi… Ma anche con un osso rotto, il vecchio Achab è illeso e nessuna delle mie ossa viva io la stimo più viva di quanto non ritenga mio questo morto osso che ho perduto. Né la Balena Bianca né uomo né demonio può giungere a sfiorare il vecchio Achab nella sua essenza reale e inaccessibile. Può uno scandaglio toccare quel fondo laggiù, o un albero graffiare quel soffitto? … –
-Ehi, voi là sulla coffa! In che direzione si muove?
-Dritto a sottovento, signore!
-Barra sopravvento, allora; forza di vele, ancora, voi della nave! giù le lance di riserva, armatele. Signor Starbuck, andate, radunate gli equipaggi, fate l’appello… Non ho ancora visto il Parsi- Ma Fedallah, ricercato dappertutto non c’era.
-Il Parsi, gridò Stubb deve essere rimasto impigliato nei grovigli della vostra lenza… m’era parso, e trascinato giù … ed è.il primo –
-E’ morto allora? Morto? che senso ha questa piccola parola? … che presago rintocco risuona in essa? Forse perchè il vecchio Achab tremi? …. E anche il rampone quello forgiato per la balena bianca c’è o no? Cercate marinai in quel mucchio di relitti… no, no … maledetto stupido, è stata questa mano a scagliarlo, è nel mostro! -Presto su tutti gli uomini alle lance, i ferri, i ferri, su issate tutti i controvelacci, tendete le scotte…-
-Gran Dio! mostrati solo un istante; – esclamò Starbuck – mai la catturerai, mai, vecchio. In nome di Cristo, ora basta, è peggio che una pazzia diabolica. Tutti gli angeli buoni offrono presagi … che altro vuoi? Inseguire quel pesce assassino. … Ci faremo trascinare da lui in fondo al mare? O farci trascinare all’inferno? Oh! è un’empietà, è una bestemmia darle ancora la caccia! –
-Starbuck in questi ultimi tempi mi sono sentito stranamente vicino a te; da quando tutti e due abbiamo veduto… tu sai che cosa, negli occhi l’uno dell’altro… ma Achab è sempre Achab! –
-Ubbidisci! Questa scena è tutta scritta, immutabile. È stata provata da te e da me un miliardo d’anni prima che quest’oceano si stendesse. Insensato! Sono il luogotenente del Destino; ridete forte allora e gridate al bis! Perché, prima di annegare, le cose che annegano vengono a galla due volte; poi, ancora una volta, prima d’affondare per sempre. Così è per Moby Dick: due giorni è stato a galla, domani sarà il terzo. Marinai, emergerà ancora una volta… ma soltanto per dar l’ultima sfiatata. Vi sentite coraggiosi, marinai: coraggiosi? –
-Del coraggio del fuoco – gridò Stubb.
Quando scese il crepuscolo, la balena si vedeva ancora a sottovento.
Così di nuovo le vele vennero ridotte, e tutto andò su per giù come la notte prima.
Intanto con la chiglia rotta del legno naufrago di Achab, il maestro d’ascia fece un’altra gamba.
CAPITOLO CXXXV
LA CACCIA. TERZA GIORNATA
II mattino del terzo giorno albeggiò fresco e sereno. Un’altra stupenda giornata! Se ci fosse un mondo nuovo or ora creato per la villeggiatura degli angeli e questo mattino fosse quello dell’inaugurazione, un giorno più bello non potrebbe sorgere su questa terra. Questo sarebbe cibo per il pensiero, se Achab avesse tempo a pensare, ma Achab non pensa; egli sente soltanto, sente, sente sempre; è già abbastanza tormentoso per l’uomo mortale!… pensare è un’audacia. Dio soltanto ha questo diritto e privilegio. Il pensiero è, o dovrebbe essere, una cosa fredda e calma; ma i nostri poveri cuori sussultano e i cervelli pulsano troppo per questo affanno.
-Cosa vedete?
-Nulla, signore.
-Nulla, e mezzogiorno s’avvicina! Il doblone chiede l’elemosina! Guardate il sole! Proprio, sì, dev’essere così. Gli sono passato avanti, sorpassato? Com’è possibile? ho preso troppo slancio? Sì, adesso dà lui la caccia a me; non io a lui… Male, questo è un male; avrei dovuto saperlo, però. Che stupido! Con tutte le lenze, i ramponi che si tira dietro. Sì sì, l’ho raggiunto stanotte. –
-Pronti a virare! Scendete tutti, tranne le vedette! Forza, ai bracci!
Governando come prima, il Pequod aveva preso il vento al largo di poppa, cosicché ora, invertendo la rotta e puntando nella direzione opposta, la nave volava controvento, solcando con forza la schiuma della propria scia bianca.
-Contro il vento, ora, governa verso le fauci spalancate – mormorò Starbuck tra sé e sè mentre assicurava alla murata il pennone di maestra alato appena allora. – Che Iddio ci salvi, ma già le ossa mi sembrano umide nel corpo e dall’interno m’infradiciano la carne. Disobbedisco al mio Dio, per obbedire a lui! –
-Pronti a issarmi! — gridò Achab, avvicinandosi alla coffa di canapa.
Passò un’ora buona, martellata una come lamina d’oro che parve un secolo. Persino il tempo ora traeva lunghi respiri, sospeso nell’ansia.
Achab, a tre gradi in prora, avvistò il getto e grida come lingue di fuoco scesero dalle vedette.
-Fronte a fronte t’incontro questa terza volta, Moby Dick.
-Signor Starbuck, filare le vele strette a prua, la nave nell’occhio del vento, non mollarlo, è presto per ammainare-
E mormorò tra sè e sè: -Veloce corre la nave, presto dovrò scendere. Da bordo, da quassù voglio vedere ancora una volta il mare. Uno spettacolo antico, antichissimo, e pure in certo modo tanto giovane: davvero, non è cambiato per nulla da quando ragazzo lo vidi la prima volta dalle colline sabbiose di Nantucket! lo stesso! … lo stesso per Noè come per me. C’è un piovasco leggero a sottovento. Che orizzonti delicati, incantevoli! Dovete pur condurre in qualche luogo, a qualcos’altro che la solita terra, a qualcosa di più radioso che quella …. Là sottovento! La Balena Bianca va per quella via, e allora noi guardiamo a sopravvento; il migliore quadrante, anche se il più duro, il più amaro. Ma addio, addio, vecchia testa d’albero. Cos’è questo?… color verde? Ma si, un po’ di muschio in queste logore fessure. Nessuna simile macchia verde del tempo è sulla testa d’Achab! Ecco la differenza tra la vecchiaia dell’uomo e la vecchiaia delle cose. Sì, ma sì, vecchio albero, siamo invecchiati insieme, sani di scafo, però, non è vero, mia nave? Certo, una gamba di meno, tutto qui. Per gli dèi, questo legno morto è in vantaggio sulla mia carne vivente, in ogni senso. Non posso paragonarmi a lui, e ho visto navi fatte di alberi morti sopravvivere a uomini fatti della più vitale materia da padri ben vivi-
-Ma dov’è il Parsi il mio pilota? Avrò occhi in fondo al mare? Si, si, sapevi la tua fine come tanti ma quella di Achab l’hai mancata.
Addio, testa d’albero, fa’ buona guardia alla balena, mentre sarò lontano. Parleremo domani, anzi stanotte, quando la Balena Bianca galleggerà qui, legata testa e coda-
Lentamente Achab veniva calato sul ponte ma in piedi sulla sua lancia a poppa ancora sospeso ordinò di fermare.
Starbuck! –
-Signore? –
-Per la terza volta la nave della mia anima si butta in questo viaggio, Starbuck! –
-Sì, signore, tu lo vuoi-
-Qualche nave salpa dal porto e per sempre poi è perduta, Starbuck! –
– È vero, signore: triste e vero-
-Ci sono uomini che muoiono nella risacca della marea, altri con la bassa marea, certi nel pieno dell’onda… e io mi sento ora come la cresta di un’onda che sta per frangersi, Starbuck. Sono vecchio: dammi la mano, stringi la mia mano, amico-
Le mani si strinsero; gli occhi si unirono, le lacrime di Starbuck come sigillo.
-Oh, Capitano, Capitano! cuore nobile… non andare … non andare! … guarda, è un uomo di coraggio che piange; è atroce la sofferenza in questa mia preghiera! –
-Ammainate, tutto giù! – gridò Achab, scostando il braccio dell’ufficiale. – Bada all’equipaggio! –
In un attimo la lancia cominciò a virare sotto la poppa.
-I pescicani! i pescicani! -gridò una voce dalla finestrella bassa della cabina. -Signore, mio signore, tornate indietro!
Ma Achab non sentì Pip poiché in quel momento stava gridando, e la lancia balzò avanti.
E la voce diceva la verità, una frotta di pescicani, spuntata dall’abisso scuro sotto lo scafo, azzannava le pale dei remi, i pescicani inseguivano la barca come un presagio, così era stato già al primo avvistamento di Moby Dick, forse l’esca sarà stato il color giallo tigre dell’equipaggio di Achab mentre indenni erano lasciate le altre lance.
– Cuore d’acciaio temprato! – mormorò Starbuck piegandosi dalla murata e seguendo con gli occhi la lancia che s’allontanava – come può la tua voce levarsi tanto audace con quel presagio? ammainare lo scafo tra gli squali voraci, inseguito a bocca aperta da loro; e questo, nel terzo e decisivo giorno?… Poiché, quando in una caccia continua e intensa, tre giorni trascorrono insieme l’uno nell’altro, sta certo che il primo è il mattino, il secondo il mezzogiorno e il terzo la sera e la fine dell’avventura… qualunque sia questa fine. Oh, mio Dio! Che cos’è che mi trafigge e mi lascia così mortalmente calmo, eppure attendo … immobile sul bordo di un brivido-….
Le lance non s’erano allontanate di molto, quando, a un segnale delle teste d’albero, un braccio puntato all’ingiù, Achab seppe che la balena si era tuffata; Achab decise di trovarglisi accanto all’emersione, l’equipaggio era attonito nel silenzio.
Di botto, l’acqua intorno si gonfiò lentamente in vasti cerchi, poi montò fulminea, come scivolando sui lati di un masso di ghiaccio sommerso che rapidamente venga a galla. Un cupo suono come di terremoto si fece udire, un rombo sotterraneo, e poi tutti tennero il fiato, mentre impacciata di cavi pendenti, di ramponi e di picche, una grande forma balzava in tutta la sua lunghezza di traverso sul mare. Sfumata da un sottile velo cadente di nebbia, si librò un istante nell’aria iridata e poi piombò sprofondando nuovamente nell’abisso. Schizzate trenta piedi in alto, le acque splendettero un istante come un fascio di mille fontane, poi, rompendosi, balenarono in un diluvio di nivee faville lasciando la superficie tutto all’ingiro schiumante intorno al tronco marmoreo del mostro come latte appena munto.
-Voga! – gridò Achab ai rematori – e le lance scattarono all’attacco; ma, furibondo per i ramponi del giorno prima che gli rodevano dentro, Moby Dick pareva posseduto da tutti gli angeli precipitati dal cielo. Sulla grande fronte bianca sotto la pelle trasparente, i grossi fasci di tendini intricati comparivano annodati in una rete mentre, a testa avanti, si buttava sventagliando la coda tra le lance. Ancora una volta riusciva a dividerle, rovesciando ferri e arpioni su quelle dei due ufficiali e frantumandone le assi superiori delle prore, ma quella d’Achab la lasciò quasi incolume,
Mentre Deggu e Quiqueg erano tutti presi a rappezzare le tavole rotte, la balena, allontanatasi da loro, faceva un voltafaccia e mostrava tutto un fianco preparandosi a un nuovo attacco; in quell’istante s’udì un grido che si levò altissimo! Allacciato ben stretto alla schiena del pesce, imprigionato negli innumerevoli grovigli di lenze in cui, nella notte precedente, la balena si era rigirata, si vedeva il corpo straziato del Parsi, il vestito nero ridotto in brandelli, gli occhi spalancati fissi in pieno su Achab!
Il rampone gli cadde di mano!
-Beffato! Ah! beffato! – esclamò in un lungo respiro affannoso. – -Sì, Parsi! ti vedo ancora… Sì, tu mi precedi; e questo, questo è dunque il carro funebre che hai promesso? Ma ti costringerò a tener fede fino all’ultima lettera della tua profezia. Dov’è il secondo carro funebre? –
-Andate, ufficiali, alla nave! quelle lance sono inutili ora: riparatele per tempo, se potete, e tornate da me, e se no, basta Achab per morire… Fermi, miei marinai! il primo che fa soltanto il gesto di saltare da questa mia lancia, lo colpirò con l’arpione. Voi non siete uomini come gli altri, ma braccia e gambe del mio corpo; ubbiditemi dunque… Dov’è la balena? si è tuffata di nuovo? –
Moby Dick, come volesse fuggire con quel cadavere che portava addosso, ora nuotava caparbiamente avanti e quasi aveva superato la nave come volesse proseguire il suo cammino.
-Oh, Achab! – gridò Starbuck – non è troppo tardi, neanche adesso, il terzo giorno, per desistere. Guarda! Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu, che lo cerchi da insensato-
Mettendo la vela al vento crescente, la lancia solitaria venne spinta veloce a sottovento tanto dai remi che dalla vela. E alla fine Achab, quando scivolò accanto alla nave, tanto vicino da distinguere bene il volto di Starbuck piegato alla murata, gli gridò di virare e venirgli dietro, non troppo in fretta, a un giusto intervallo, e vide Tashtego, Quiqueg e Deggu che salivano smaniosi alle tre teste d’albero, mentre i rematori nelle due lance sfondate appena issate ondeggiavano sul fianco della nave ed erano tutti affaccendati a rappezzarle.
Mentre vedeva tutto questo, mentre ascoltava i martelli delle imbarcazioni spaccate, ben altri martelli pareva che gli piantassero un chiodo nel cuore. Ma si riprese, radunò le forze.
Ed osservando che la manica a vento o bandiera era sparita dal pomo di maestro, gridò a Tashtego di issare un’altra bandiera e di fissarla con martello e chiodi all’albero.
La Balena Bianca, sia che si sentisse stremata dalla caccia ininterrotta di tre giorni, sia per il groviglio di funi e arpioni che opponevano resistenza a una fuga, sia che nascondesse una qualche sua malvagità e malizia, qualunque fosse la verità, la sua corsa cominciava a rallentare tanto da lasciare che la lancia si avvicinasse.
E mentre Achab scivolava sulle acque lo accompagnavano sempre gli squali impietosi. Con pertinacia attaccavano mordendo le pale dei remi che venivano via via tutte intaccate e rosicchiate e piccoli frantumi rimanevano in mare.
-Ma chi può dire… -mormorò – se questi pescicani vengono a banchetto per la balena o per Achab?… -Ma vogate, vogate! Le mascelle dei pescicani sostengono di più che la molle acqua-
-Ma, signore le pale si fanno più sottili – dureranno quanto basta, così, in gamba ora, siamo vicini. Il timone! prendete il timone! lasciatemi passare – e in così dire due rematori lo aiutarono a spostarsi in prora della lancia che volava sempre.
Finalmente, il legno virò di lato arrivando a correre parallelo al fianco della Balena Bianca, questa parve stranamente disinteressata al suo arrivo come talvolta usa fare la balena e Achab era ormai nella vaporosa nebbia montana che, esalata dallo sfiatatoio del mostro, si alzava in spire intorno alla sua gobba grande come una collina ed era sempre più vicino e così Achab, col corpo inarcato all’indietro, entrambe le braccia levate in alto a dare maggior tensione, scagliò il rampone feroce e la più feroce maledizione nel corpo dell’odiata balena. Mentre acciaio e maledizione affondavano fino al manico, come succhiati in un pantano, Moby Dick si contorse spasmodicamente su un lato, rollò il fianco contro la prora della lancia e, senza produrvi una sola falla, di botto l’abbatté quasi rovesciandola. Achab, se non fosse stato per il capo di banda rialzato cui s’era tenuto, sarebbe stato ancora una volta scaraventato in mare.
I tre rematori invece sbilanciati dal lancio improvviso, vennero gettati fuori bordo e due di loro riuscirono ad aggrapparsi anch’essi al capo di banda e sollevati sulla cresta di un’onda capitombolarono a bordo, il terzo precipitò senza possibilità di aiuto da poppa e continuò a stare a galla e a nuotare.
Nello stesso istante con fiera decisione e fulmineo colpo di testa la Balena Bianca balzò dal mare ribollente.
Ma quando Achab gridò al timoniere di avvolgere ancora la lenza in più giri, e comandò all’equipaggio di voltarsi sui banchi per tirare la lancia fino al bersaglio, la lenza traditrice nell’istante che sentì la tensione moltiplicata in un doppio sforzo, si spezzò nell’aria vuota!
-Che cosa si spezza dentro di me? Qualche nervo cede! … No tutto è ancora intatto –
-Ai remi! Ai remi! saltatele addosso –
Sentendo l’impeto formidabile della lancia che sfondava il mare, la balena si girò di scatto per presentare a difesa la fronte bianca, ma in quell’evoluzione scorse lo scafo nero della nave che s’avvicinava e, forse trovando in essa la sorgente di tutte le sue persecuzioni o ritenendola un più grande e più nobile nemico, d’improvviso si diresse verso la prua accorrente sbattendo le fauci tra fantastici diluvi di schiuma.
Achab barcollò nella schiuma; si batté la fronte con la mano.
-Divengo cieco; oh, mani! stendetevi davanti a me che possa ancora trovare la mia rotta barcollando. È notte? –
-La balena! la nave! – gridarono i rematori terrorizzati.
-Remi! Remi! Scendi verso i tuoi abissi, o mare, prima che per sempre sia troppo tardi, possa Achab scivolare quest’ultima, ultima volta al suo bersaglio! – Vedo, vedo la nave! la nave! –
-Scattate avanti, marinai! non salverete la mia nave? –
Ma le onde battevano come magli e due delle tavole lesionate della barca cedettero, la lancia fu fuori uso nonostante gli sforzi dei marinai di cacciar fuori il torrente d’acqua.
Intanto, nel tempo di uno sguardo, Tashtego rimase con il martello come sospeso nella sua mano su in cima all’albero e la rossa bandiera lo avvolse per metà come una grande sciarpa, poi volò via da lui come se fosse il suo stesso cuore che volava via.
Starbuk e Stubb, dritti accanto al bompresso, s’accorsero con lui del mostro che giungeva.
-La balena, la balena! Barra a sopravvento, barra a sopravvento! –
-Oh, voi tutte, dolci potenze dell’aria, tenetemi stretto! Che Starbuck se deve morire, non muoia in un pianto da donna-.
-Barra a sopravvento, vi dico… idioti! Le fauci, le fauci!
-È questa la fine di tutte le mie ferventi preghiere? di una fedeltà lunga una vita? Oh, Achab, Achab, guarda l’opera tua-
-Alla via! timoniere, alla via! No, no! Barra a sopravvento … di nuovo! si volta per incontrarci! -La sua fronte implacabile punta su un uomo cui il dovere dice che non può fuggire! Oh Dio! stammi accanto, adesso! –
-Macché starmi accanto esclamò Stubb, stammi sotto, chiunque tu sia che aiuterai ora Stubb perché anche Stubb non si muove di qui: ti ghigno in faccia, o balena che ghigni! –
Sulla prora della nave quasi tutti i marinai restavano ora inerti: martelli, pezzi di tavola, lance e ramponi stretti macchinalmente in mano, nell’atto appunto in cui erano accorsi dalle loro occupazioni; e tutti gli occhi affascinati erano fissi alla balena che, vibrando stranamente da parte a parte la testa predestinata, si cacciava innanzi nella corsa: un largo nastro di schiuma s’allargava a semicerchio.
Castigo, pronta vendetta e malvagità eterna si mostravano in tutto il suo aspetto e, ad onta di tutto ciò che i mortali potessero fare, il solido contrafforte bianco della fronte di Moby Dick picchiò sulla destra la prora della nave, fino a far tremare uomini e travi.
Attraverso lo squarcio udirono l’acqua rovesciarsi, come torrenti montani in un burrone.
-La nave! Il carro funebre!… il secondo carro funebre! — gridò Achab dalla lancia. –
Tuffandosi sotto la nave affondante, la balena percorse la chiglia che rabbrividì, ma, voltandosi sott’acqua, si precipitò di nuovo rapida alla superficie al largo dell’altro fianco di prora a poche jarde dalla lancia d’Achab e qui per un momento si fermò, calma.
-Volto le spalle al sole. Olà, Tashtego! fammi sentire il tuo martello. Oh voi, mie tre guglie indomabili, tu chiglia intatta, oh scafo, maltrattato soltanto da un Dio! Tu, sicura coperta, tu, barra superba, tu, prora dritta al cielo, nave gloriosa fino alla morte! devi dunque perire, e senza di me? Mi è tolto anche l’ultimo caro orgoglio del più meschino capitano naufrago? Oh, una morte solitaria dopo una vita di solitudine! Ora sento che la mia maggior grandezza sta nel mio maggior dolore! –
-Su di te mi infrango, balena di tutto distruttrice, di nulla vincitrice: fino all’ultimo ti combatterò; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro-
-Che tutte le bare e tutti i carri funebri affondino in un solo vortice! e poiché queste cose non sono per me, trascinami con te, e, legato a te, ancora ti darò la caccia, balena dannata! Così, io scaglio la mia arma! –
Il rampone venne scagliato, la balena colpita fuggì avanti e la lenza con velocità da far faville scorse nella scanalatura: s’imbrogliò, Achab si piegò a districarla, la disimpegnò; ma la spira volante lo prese intorno al collo e, senza una parola, come un muto turco strangola la sua vittima, Achab schizzò via dalla lancia di botto tanto che l’equipaggio solo dopo si accorse che era sparito poi, l’istante successivo, la pesante gassa impiombata in cima alla lenza volò fuori dalla tinozza vuota, abbatté un rematore e, staffilando il mare, scomparve negli abissi.
Per un momento l’equipaggio della lancia impietrito stette immobile, poi si volse.
-La nave? Gran Dio, dov’è la nave? –
Presto, attraverso una bruma fosca e confusa, ne videro il fantasma inclinato che svaniva come nei vapori della fata Morgana. Soltanto le vette degli alberi erano fuori acqua, mentre immobili, per follia o fedeltà o destino, ai posatoi un tempo tanto alti, i ramponieri pagani affondando mantenevano le vedette sempre scrutando il mare. E veloci cerchi concentrici afferrarono anche la lancia solitaria e tutto l’equipaggio e ogni remo fluttuante e ogni asta e, facendo girare le cose vive e quelle inanimate tutto intorno in un vortice, trascinarono giù anche il più piccolo avanzo del Pequod finchè scomparve.
Ma quando gli ultimi frangenti scrosciavano sul capo sommerso dell’indiano alla testa dell’albero maestro, qualche pollice d’alberatura rimaneva ancora in vista insieme a un lungo lembo di bandiera libera sventolante, calma, sulle onde distruttrici che quasi la toccavano. In quell’istante un braccio rossiccio e un martello si librarono nell’aria, tesi nell’atto d’inchiodare ancora la bandiera all’affondante albero. Un falco del cielo che aveva beffardamente seguito il pomo di maestra giù dalla sua naturale dimora tra le stelle, dando beccate alla bandiera e molestando Tashtego, cacciò ora la sua larga ala palpitante tra il legno e il martello; contemporaneamente, sentendo quel palpito etereo, il selvaggio sommerso là sott’acqua, nel suo anelito di morte, vi piantò sopra il martello in modo che l’uccello celeste, con strida d’arcangelo, col rostro imperiale puntato in alto e il corpo prigioniero avvolto nella bandiera di Achab, andò a fondo con la nave. La nave, come Satana, non volle sprofondare all’inferno finché non ebbe trascinato con sé per farsene elmo una parte vivente del cielo.
Piccoli uccelli volavano ora, strillando, sull’abisso ancora spalancato; un tetro frangente bianco si infranse contro i suoi orli scoscesi poi tutto ricadde, e il gran sudario del mare tornò a rollare come sapeva fare da cinquemila anni.
EPILOGO
«E io solo sono scampato per raccontare»
Giobbe
Il dramma è finito. Come mai allora qualcuno si fa avanti? Perché uno è scampato al naufragio!
Accadde che, dopo la sparizione del Parsi, io, Ismaele, fossi quello che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere d’Achab assumendo il posto vacante; e fui ancora io quello stesso che, quando all’ultimo giorno i tre marinai vennero scaraventati fuori dalla lancia rollante dall’urto, cadde a poppa. Fu così che, galleggiando al margine della scena che seguì e dominandola tutta, quando mi raggiunse il risucchio indebolito della nave affondata venni trascinato ma lentamente verso il vortice che si chiudeva. Quando lo raggiunsi, il vortice s’era calmato in uno stagno di schiuma. Tutt’intorno, allora, e sempre attratto verso l’occhio dell’ultimo moto lentamente roteante, una bolla nera in forma di bottone individuava l’asse del gorgo, e anch’io giravo come un altro Issione. Finché, raggiunto quel centro vitale, la bolla nera scoppiò rilasciata dalla sua molla ingegnosa: allora, per la sua grande leggerezza, il gavitello-bara venne a galla con gran forza, balzò su completamente dal mare, ricadde e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi un giorno intero e una notte andai alla deriva su un mare morbido, funereo. I pescicani senza toccarmi mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini passavano coi becchi inguainati. Il secondo giorno, una vela s’avvicinò e finalmente mi raccolse. Era la bordeggiante «Rachele» che, nella sua ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano.
10. Fine
La traduzione del romanzo di Herman Melville, di cui Succedeoggi ha pubblicato un ampio sunto, è di Alessandro Macchi. Le fotografie originali sono di Roberto Cavallini.