Giuseppe Grattacaso
Cattive abitudini

Tempo di ultras

Ricomincia il campionato di calcio: il mondo dello sport torna nelle mani degli ultras dopo l'illusione olimpica di un pubblico competente e appassionato, commosso e commovente

Al termine della 10 chilometri di nuoto alle Olimpiadi di Parigi, disputata nelle acque della Senna, conclusa al quarto posto, l’italiano Domenico Acerenza non ha avuto dubbi: „Un bellissimo campo di gara anche a livello di pubblico. Una delle più belle gare nelle acque libere mai fatte». In effetti, non saranno state limpidissime le acque della Senna, ma una cosa è nuotare in mare aperto e il pubblico lo vedi solo all’arrivo, altra cosa è sentirne la presenza (numerosissima) e ascoltarne gli incitamenti lungo tutto il percorso. Altra cosa insomma è capire che il pubblico, lungo quel fiume così pieno di storia, oltre che di batteri, è lì per vederti gareggiare, per dirti che sei un bravo atleta, a prescindere dalla tua posizione al traguardo.

Già, ma dove lo portate quel pubblico competente e appassionato, felice e comprensivo, commosso e commovente, che abbiamo visto seguire la scherma al Grand Palais, la ginnastica artistica e il basket alla Bercy Arena, la ginnastica ritmica (sì, ritmica, con esibizioni davvero da brividi) all’Arena di Porte de la Chapelle, la pallavolo alla South Paris Arena? Era un pubblico di donne e di uomini capaci di non dividersi in gruppi faziosi e bercianti, con tutta evidenza restio a credere che tifare significa prodursi in esibizioni da ultras e urlare, urlare contro gli altri, perché ci sono sempre dei nemici contro cui prendersela; donne e uomini disposti a comprendere gli errori, anche dei propri beniamini, anche di quelli che sembrano eroi e lo erano prima di sbagliare e lo saranno un po’ anche dopo, donne e uomini che riescono a gioire per una vittoria, anche se chi vince certe volte sventola un’altra bandiera che non è quella della propria nazione e canta un altro inno. Un pubblico fatto di donne e di uomini che sanno che gli avversari non sono brutta gente, non contengono sostanze tossiche e non sono da offendere.

E a proposito, dove portate quelle atlete e quegli atleti che stanno lì a dirci che è già un’impresa esserci, che si può arrivare anche quarti o quinti o ultimi alzando al cielo le braccia, e che va bene così, perché tante volte gareggiare è già aver vinto. Dove li portate quelle atlete e quegli atleti che di fronte a un microfono non dicono frasi fatte, non si aggrappano alla retorica della fede nei propri colori, che ancora si emozionano, piangono e ridono come tutta la gente che piange e che ride, e non parlano solo alla pancia di chi li ascolta ma anche, soprattutto, alla loro testa. Un esempio? A chi le chiedeva che valore dare alla presenza nella nazionale di pallavolo femminile, medaglia d’oro alle Olimpiadi, di giocatrici con radici in vari Paesi, dalla Germania alla Nigeria, dalla Costa d’Avorio alla Russia, Myriam Sylla, anima del volley italiano, nata a Palermo da genitori ivoriani, infanzia vissuta nel quartiere di Ballarò prima che la famiglia si trasferisse in Lombardia (da conservare l’immagine in cui, medaglia d’oro al collo, piange sulla spalla di una sorridente Paola Egonu, nata a Cittadella da genitori nigeriani), la schiacciatrice Sylla ha risposto: «Noi come gruppo siamo il riflesso preciso dell’Italia di oggi. Questo siamo noi, che lo vogliano o no. Non abbiamo bisogno di aggiungere o spiegare nulla». Stop. Non una parola di più, quanto basta a cancellare quel senso malato di patria, quell’idiota sciovinismo dei tratti somatici, che fanno la fortuna di qualche politico e di qualche giornalista al seguito, che alimentano il fanatismo arrabbiato degli sbandieratori di odio e confini, la bieca esaltazione intollerante che i giochi olimpici per qualche settimana hanno ridotto al silenzio.

Ecco, per favore, diteci se quelle donne e quegli uomini, quelle atlete e quegli atleti rimarranno confinati in qualche arena, o passeggeranno lungo la Senna, o se ne staranno al chiuso delle loro stanzette dinanzi a un televisore. Sarà possibile ogni tanto sentire i loro applausi, gli “ooohhh” di meraviglia o di dispiacere, vedere gli abbracci, ascoltare le loro interviste? Dobbiamo saperlo, perché oggi comincia il campionato di calcio.

Comincia il campionato di calcio e dunque iniziano le lunghe maratone televisive nazionali e locali a parlare di schemi, di giocatori inadeguati, di allenatori che hanno perso la bussola, di avversari che hanno rubato, di arbitri incapaci, di calciatori che non sudano, di complotti, di gol che potevano essere evitati, di gol fumati, di gol che quasi erano gol, di gol annullati, soprattutto. È straordinario come si parli più dei gol annullati e di rigori non concessi che delle belle giocate che portano a una realizzazione. E poi ognuno a urlare contro tutti gli altri, perché ognuno è convinto di sapere come stanno le cose, qual è la verità, quella sola ovviamente, non ce n’è altre.

Gli unici che non urlano sono i calciatori, troppo impegnati a difendersi, nei casi peggiori, o a dire il meno possibile, quel meno molto vicino al nulla, in tutti gli altri casi. Provate a ascoltare le dichiarazioni alla fine di partite diverse, fatte da calciatori diversi, in luoghi diversi, in settimane diverse. Mischiate. Ascoltate di nuovo. Non cambia nulla. Le frasi si assomigliano tutte, vanno bene in ogni occasione. L’impegno, l’amore per la maglia, si vince tutti insieme, poteva andare meglio ma poi alla fine è bene così, da oggi bisogna pensare al prossimo incontro, i veri vincitori sono i tifosi (a maggior ragione quando si perde, ovviamente).

Ecco, appunto. A furia di dirlo, i tifosi ci hanno creduto, cioè quelli che sono i veri tifosi, a detta degli ultras, cioè gli ultras stessi, che lo sospettavano già da tempo del resto. Gli altri, il resto del pubblico (pagante) sono gli imbelli, inetti alla guerra (di questo si tratta), oppure la feccia della tifoseria opposta. Quando non si tratta di tifoserie alleate: altra tragica consuetudine di questi anni tristi, avere degli alleati dichiarati, che corrono in aiuto in caso di bisogno, e dei nemici giurati. Una cosa che è già stupida tra gli Stati, figuriamoci tra le tifoserie.

Diteci se il pubblico delle Olimpiadi è da qualche parte a fare il pubblico, perché nei prossimi mesi saremo costretti a assistere a spettacoli indecorosi. Potremmo averne bisogno, quando la squadra perdente al termine della partita si reca sotto la propria curva a chiedere scusa ai tifosi (ultras): ormai succede quasi in ogni stadio a ogni giornata di campionato, i calciatori a testa bassa, gli ultras che urlano contro (oppure rimangono in un silenzio ostile, oppure si voltano di spalle). E se uno dei giocatori rifiuta il redde rationem o mostra un atteggiamento da cui traspare un falso pentimento, non la passerà liscia. Come si è permesso?

E poi, l’assordante, a volte inadeguato tifo continuo (è da questo che si vede il vero tifoso), la colonna sonora degli slogan e delle canzoncine anche quando non c’è nulla di cui andare fieri, con tanti che non seguono le azioni, troppo impegnati a essere, loro, il vero spettacolo. Hanno vinto i tifosi, dirà alla fine il giornalista, lo spettacolo vero è stato sugli spalti.

E sugli spalti, nell’unico settore che veramente conta, quello occupato dagli ultras, gli slogan parlano di Fede, perché ce n’è una sola e non può che riversarsi sulla squadra, di Onore, quello che è dovuto a tutti coloro che non dubitano mai, primi tra tutti gli ultras colpiti da Daspo (che è il divieto di accedere alle partite, dopo che si è commesso un atto grave durante una manifestazione sportiva), di Rispetto, per la maglia innanzitutto. Sembra di assistere a una parata militare di altri tempi (e un po’ è quello che stiamo vedendo), invece in campo non ci sono reparti addestrati e carri armati, ma giovani tatuati, in braghe corte e dalle acconciature sempre perfette, che si mettono le mani nelle loro perfette capigliature se il pallone “esce di un soffio” o mostrano il fisico scolpito (che, bisogna che qualcuno lo dica, non è mai servito a giocare meglio al calcio, vedi alla voce Corso, Mazzola, Rivera, Domenghini) se lo stesso pallone, griffato, “rotola in rete”. Ah, sono gli stessi giovanotti che non esultano, anzi si scusano con le mani giunte, se il pallone l’hanno fatto rotolare nella porta della squadra dove hanno giocato per qualche tempo. Per Rispetto di quei tifosi, naturalmente, e di quella maglia che più non indossano. Un’idiozia da cui l’Onore ultras non transige.

Succederà anche quest’anno, statene certi, e molto di più che nello scorso campionato. E il calcio, non dimentichiamolo, è lo specchio di questo Paese.

Io rivado alla Arena di Porte de la Chapelle. Chissà non ci sia ancora una ragazzina ucraina che lancia la palla in aria, danza, rotola, piroetta e riprende la palla con una sola mano e sembra che la palla non sia mai volata alta nel cielo e che su quel palmo di mano ci sia un collante a presa rapida e che forse la palla e quel braccio esile sono una cosa sola. E tutto avviene con una grazia e un’eleganza che non appartiene a questo mondo, che è un mondo abitato da ultras. Il pubblico applaude estasiato. Tutto il pubblico. Migliaia di persone (quanti saranno gli ucraini nel pomeriggio di Porte de la Chapelle?). La ragazzina ride e si tiene stretta la palla. Si chiama Taiisia Onofriichuk.


Nella fotografia accanto al titolo, Vittorio Gassman ultras dal film I mostri di Dino Risi (1963).

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