Ricordo del poeta a un mese dalla scomparsa
Resistenza e ardore
«Giovanni Piccioni crea un canto che è sapienza poetica...». Un sentire drammatico il suo, ma sommesso, mentre il dramma si «incarna nella parola e prende forma». Un sentire che ama la vita, sa cogliere bagliori e stupori, nutrire speranza. E in cui risuona la lezione dei Maestri, da Leopardi a Eliot
«C’è chi dice, in una ristretta cerchia,/ che io sia un poeta»: È l’incipit di una poesia di Giovanni Piccioni dal titolo inequivocabile, All’inizio di una via. Faccio parte di quella cerchia ristretta: Giovanni, che ci lasciava un mese fa, è un poeta. Poeta tenue, delicato, solo in apparenza reticente. In realtà la sua è poesia drammatica, ove il dramma è espresso a bassa voce, sommessamente, alla ricerca di bagliori. Certo agisce, sulla sua anima, una visione leopardiana sulla natura illusoria del mondo. Ma questa visione convive con un altro sentire, ungarettiano, di amore per la vita, e luziano, di ardore speranzoso. Pur se espresso delicatamente, con umiltà, ma fermezza. Una speranza che comunque vive come ceneri mai del tutto spente: non è certo il fuoco il suo centro, non esiste, in questi versi. Non fulgore. Ma il gioco di ombre conosce davvero anche la luce, intravista e simultaenamente sperata. Non fulgore, ma l’estate è una stagione molto presente in questa poesia, per la sua capacità di animare i colori, per il suo calore. La poesia di Piccioni è delicata ma non incerta, sommessa ma per nulla crepuscolare, priva di epifanie, ma non rassegnata.
Sin dal piccolo libro di esordio, Per dire di un anno, notavo la grazia della visione naturale, con lo sguardo che cerca con amore tracce e segnali nel mondo. E questo atteggiamento perdura in tutta la sua opera, un’espressività sofferta e lancinante che fa pensare all’influenza di un grande italiano poco seguito, e invece da seguire profondamente, come compresero Mario Luzi e Carmelo Bene. Sì, io credo che Dino Campana sia stato un maestro per Piccioni, non per la visionarietà lancinante, ma per lo stupore dello sguardo.
Dal primo all’ultimo libro, Luci da un mare notturno (da cui sono tratte le poesie che seguono, ndr), Giovanni Piccioni crea un canto che è sapienza poetica, mai poesia filosofica, ma agonica resistenza e conoscenza per ardore. Comprendendo bene, dai maestri del passato, che poesia è un «unico tempo presente».
Non l’approdo a un’isola ma nemmeno un viaggio all’inferno, nella felice raccolta che esalta il tema del viaggio, presente in tutta la sua opera. Un viaggio non esotico, ma quotidiano. Un viaggio alla ricerca di se stessi, nella solitudine, ma, oltre le sue pareti di nebbia, cercando il fuoco, la legna da ardere per la casa.
Nella mirabile, fatale citazione dall’Amleto «Ho dentro di me qualcosa/ che supera la possibilità di essere espresso», è la scoperta bruciante dell’infinito, dolorosa perché lo scopri e vivi nella finitudine. Ma i versi di Shakespeare svelano anche la lezione eliotiana di questa poesia. Piccioni sa bene come Eliot, quanto l’amico Pound, facessero presenti versi dei maestri del passato, Dante, Shakespeare, Cavalcanti, in un unico tempo presente della poesia..
«Il mare notturno», scrive Alberto Fraccacreta nella Postfazione, «è l’emblema della fusione di cielo e terra (…), le luci rappresentano invece i segni tangibili di un’illuminazione».
Introducendo due libri precedenti di Giovanni Piccioni, scrissi come nei suoi versi il dramma non è accostato o rievocato dalla parola, ma nella parola si incarna e prende forma. E sottolineavo la capacità di assimilazione dei classici della modernità da parte del poeta.
Sapienza poetica, mai poesia filosofica, ma agonica resistenza e conoscenza per ardore.
Cessato il turbamento di un sogno proibito
si risvegliò il ricordo
della mia città natale,
del mare di un vicino paese,
di carezzevoli mani,
e di quel tempo a misura d’uomo
quando nobiltà e popolo
nella realtà quasi non distinguevo.
Era l’immagine di Firenze rimasta nella mia anima,
di quel suo passato che generò un tempo nuovo.
Di quello spazio così scarso
gremito di opere mirabili,
di quella conca,
di quel crogiolo,
della sua pioggia,
del suo gelido inverno,
del primo sole di primavera,
della sua estenuante estate.
Dei suoi silenzi imperturbabili a sera,
dello scintillio delle stelle
sue custodi notturne.
Di quanto, di tutto quanto
la mia memoria ancora di lei conserva.
*
Dopo i giorni della discordia
arriverà un’acqua che mi monda,
vivrò un solo minuto
di vita iniziale,
in un paese innocente?
È come un lavacro
questo suono lontano,
come una sorgente viva
che non si esaurisce.
*
Non so se fu un miraggio
quel cielo sgombro di nebbie e nubi,
quel sereno dell’animo
cessato il tempo della favola,
della vicinanza degli dei
quando l’invisibile si tramutò in visibile
nell’isola dove nacque il dio della solarità.
Indaco e smeraldo era il mare,
bianco il fiore della bouganville,
e sterminato il verde degli ulivi.
Lì dove non c’era esilio
si alzò e corse leggero come un puledro
il vento di Borea.
Di lontano venne il suono della voce di una ninfa
emersa dalle lunghe chiome bianche del mare,
sul filo dell’onda.
Mi parve di essere nel reale sognato,
ma scese la notte,
ed il sudore gelido della paura
imperlò il volto corrugato e afflitto dell’uomo. (*)
*
La mia vita so quale è stata,
so l’ineluttabilità della sciagura:
lo dico in questo modo scarno
e non so perché questo mi basta.
Prima del pensiero c’era letizia,
e nessuna minaccia gravava:
pareva che il tempo non scorresse,
che così permanesse.
*
Anima mia indocile, informe
sai che tutto è poco certo ai viventi.
Anima che ho tenuto in disparte
per preservare quanto in te è candido
come in un’alba serena,
come la neve che senza venti
cade silenziosa.
*
Il vento che stamani ha spazzato via ogni nube
voglio chiamarlo amore,
e senza più dubbi da lui mi lascerei portare
fino a una terra dove nulla conosco:
lì, dall’aurora al tramonto,
della mia infelicità mi scorderei.
(Da Luci da un mare notturno, Effigie, 2022)