Herman Melville
Moby Dick/7

La ferocia della caccia

Con il racconto terribile della caccia ai pescecani continua la pubblicazione dell'ampio sunto di "Moby Dick" nella versione di Alessandro Macchi, illustrata da Roberto Cavallini

CAPITOLO XXXV
LA TESTA D’ALBERO
In quasi tutte le baleniere americane le teste d’albero vengono guarnite d’uomini non appena la nave lascia il porto, anche se la nave avrà da fare quindicimila miglia e più prima di giungere nelle acque di caccia vere e proprie.

Il vostro “posatoio” più abituale è la testa dell’alberetto, dove vi mettete su due sottili traverse parallele (quasi esclusive delle baleniere) chiamate le crocette d’alberetto. Qui, sbatacchiato dal mare, il principiante si sente su per giù altrettanto comodo come stare ritto sulle corna d’un toro.

Di forma il posatoio detto «nido di cornacchia di Sleet» è un po’ come una grossa botte o barile, però aperto dalla parte di sopra, dove è provvisto di uno schermo laterale da disporre sopravvento per ripararsi la testa durante le raffiche di burrasca. Siccome è fissato alla cima dell’albero, vi si accede dal fondo attraverso un piccolo boccaporto a trabocchetto. Nella parte posteriore, o parte a poppavia dell’albero, c’è un sedile molto comodo, con sotto una cassa per gli ombrelli, le sciarpe e gli abiti. Di fronte c’è una rastrelliera di cuoio in cui tenere il megafono, la pipa, il cannocchiale e altri arnesi nautici.

I marinai seguono turni regolari e si danno il cambio ogni due ore.

Nel clima sereno dei tropici stare sulla testa d’albero è molto piacevole e per un tipo sognatore e contemplativo addirittura delizioso. State cento piedi sopra la coperta e fate grandi balzi, camminate sull’abisso come se gli alberi fossero trampoli giganteschi, mentre sotto di voi nuotano quasi sotto le vostre gambe i più grossi mostri del mare proprio come nei tempi antichi dove le navi passavano fra gli stivali del famoso colosso di Rodi.

Ma voglio liberarmi qui la coscienza una volta per tutte e ammettere francamente che la mia guardia era piuttosto infelice. Col problema dell’universo che mi si rivolgeva dentro, come potevo io, lasciato tutto solo a un’altezza talmente generatrice di pensieri, come potevo compiere se non alla leggera il mio dovere di stare alla norma precisa di ogni baleniera: «Apri l’occhio e segnala ogni volta»?

Non c’è ora in te, lassù, nessuna vita eccetto quella dondolante che ti è impressa dal lieve rollio della nave e che la nave deriva dal mare, e il mare dal flutto imperscrutabile di Dio. Ma mentre siete preda di questo sonno, o di questo sogno, spostate d’un pollice il piede o la mano, lasciate andare comunque la presa, e l’identità vi ritorna insieme al terrore. Sei appeso sopra vortici cartesiani.

CAPITOLO LVIII
IL BRIT
Governando a nord-est delle Crozetts, capitammo in vaste praterie di brit (plancton e Krill, crostacei minutissimi- N d T), quella sostanza organica gialla e minuta di cui la balena franca si nutre abbondantemente. Per leghe e leghe il brit ci ondulò sotto lo scafo, in modo che ci pareva di navigare per campi sconfinati di grano maturo e dorato.

Il secondo giorno, venne avvistato un buon numero di balene franche che, al sicuro da ogni attacco da parte di una baleniera da capodogli com’era il «Pequod», nuotavano indolenti a fauci spalancate nel brit che, entrando tra i fanoni della meravigliosa persiana di quelle bocche, veniva in tal modo separato dall’acqua che poi defluiva espulsa dalle labbra.

Come mietitori, che di buon mattino spingono fianco a fianco le falci sconvolgenti nell’erba tenera, lunga e bagnata di rugiada, questi mostri nuotavano facendo un rumore strano, erboso e maciullante, mentre lasciavano dietro di loro strisce d’azzurro sul mare giallo.

Il mare, il fascinoso mare, che però da sempre incute paure soprannaturali nell’uomo e ogni giorno il sole tramonta nel mare e il vivo mare inghiotte alla stessa maniera navi e ciurme. Ma non solo il mare è nemico dell’uomo, che dopo tutto gli è estraneo, esso è anche un demonio per le sue stesse creature.

Considerate l’astuzia del mare: come le sue creature più temute scivolino sott’acqua, quasi invisibili, perfidamente nascoste sotto le più incantevoli tinte dell’azzurro.

Pensate alla bellezza e splendore delle sue tribù più spietate come le forme aggraziate ed eleganti di molte specie di squali e considerate il cannibalismo universale del mare le cui creature non fanno altro che mangiarsi l’una con l’altra in una guerra eterna.

Poi volgetevi a questa verde graziosa e dolcissima terra: consideratele entrambe, la terra e il mare poiché, come questo spaventevole oceano circonda la terra verdeggiante, così nell’anima dell’uomo c’è un’insulare Tahiti, piena di pace e di gioia, ma circondata da tutti gli orrori della vita a metà sconosciuta.

Che Iddio vi protegga! Non allontanatevi da quest’isola, ché potreste non tornare mai più.

CAPITOLO LIX
IL CALAMARO
Lentamente, galleggiando tra le praterie di brit, il «Pequod» continuava sempre il suo viaggio a nord-est verso l’isola di Giava; una brezza leggera, gentile, spingeva la sua chiglia, e nella circostante serenità oscillavano dolcemente i suoi tre alberi affusolati a quel soffio languido, come tre molli palme in una pianura. E sempre, a lunghi intervalli nelle notti argentee, si poteva vedere il solitario spruzzo allettatore.

Ma in un azzurro mattino trasparente e nella bonaccia le onde sussurravano tra loro, Deggu in vedetta sulla testa di maestro scorse uno strano fantasma.

In distanza emerse pigramente una grande massa bianca che, emergendo sempre più e distaccandosi dall’azzurro, alla fine ci scintillò in prora come un ammasso di neve franato allora dal monte. Così rifulse per un istante, poi si abbassò altrettanto lentamente e scomparve. Poi salì ancora e scintillò in silenzio. Non sembrava una balena, eppure, -che sia Moby Dick? – pensò Deggu. Di nuovo il fantasma andò giù, ma quando ricomparve il negro strillò, con un urlo come una stilettata che fece scattar tutti dal dormiveglia: «Laggiù! laggiù ancora! laggiù salta! dritto in prora! La Balena Bianca! La Balena Bianca! ».

A sentir questo, i marinai balzarono ai bracci dei pennoni, come le api al tempo dello sciame che si affrettano ai rami.

Le quattro lance furono presto in acqua, quella di Achab in testa, e vogavano svelte alla volta della preda.

Una vasta massa polposa, lunga e larga centinaia di metri, di uno smagliante colore lattiginoso, stava stesa fluttuando sull’acqua, innumerevoli lunghi tentacoli si irradiavano dal suo centro e si arricciavano e si avvolgevano come un nido di anaconda, come volessero afferrare ciecamente qualunque oggetto sfortunato che si fosse trovato alla loro portata. Non aveva volto o fronte visibili, ne segno immaginabile di possibili sensazioni e di istinti, ma ondeggiava là, sopra i flutti come un’ultraterrena, informe, casuale apparizione di vita.

Mentre, con una specie di barbaro rumore di risucchio, la cosa lentamente tornava a scomparire, Starbuck, fissando ancora le onde agitate dove s’era sommersa, esclamò con una voce sconvolta— Avessi piuttosto visto e assalito Moby Dick che non te, spettro bianco!

-Che cos’era, signore? — disse Flask.

-Il Grande Calamaro vivente. Sono poche le baleniere, dicono, che l’hanno visto e che sono tornate nei loro porti a raccontarlo.

Ma Achab non disse nulla, girò la sua lancia e veleggiò alla nave. Gli altri lo seguirono anch’essi in silenzio

Alcuni naturalisti che hanno sentito parlare di questa creatura misteriosa, essa viene inclusa nella classe delle seppie a cui di fatto per certi aspetti potrebbe appartenere, ma solamente come il gigante della tribù.

CAPITOLI LX e LXIII
LA LENZA E IL FORCACCIO
La lenza baleniera ha soltanto due terzi di pollice di spessore. A prima vista non la credereste tanto resistente com’è in realtà. È stato sperimentato che ciascuna delle sue cinquantun filacce può reggere un peso di centoventi libbre; cosicché il cavo intero sopporterà uno sforzo quasi pari a tre tonnellate. In lunghezza la comune lenza da capodogli misura poco più di duecento tese. Essa viene addugliata a spirale nella tinozza alla poppa della lancia, non però come la serpentina di un alambicco ma in modo da formare una massa rotonda a forma di cacio, con fasci «fitti» disposti a spirali concentriche, senza alcun vuoto tranne il «cuore» o piccolo tubo verticale lasciato nell’asse della forma di cacio. Siccome il minimo garbuglio o viluppo nell’addugliatura afferrerebbe infallibilmente, svolgendosi, o la gamba o il braccio o tutto quanto il corpo di qualcuno, si usa la massima cautela nel disporre la lenza nella tinozza.

Prima di calare la lancia per la caccia, l’estremità superiore della lenza viene riportata dalla tinozza di poppavia fino a prua, quindi corre per l’intera lunghezza della lancia, e nel suo percorso viene poggiata sul giglione, o impugnatura del remo di ciascuno, in modo che i polsi dei vogatori la mantengano in linea mentre si rema. All’estrema punta di prora viene fatta passare nel passacavo o scanalatura rivestita di metallo qui posto e dove una caviglia, o piolo di legno, della grandezza di una penna comune, le impedisce di sgusciar fuori. Infine la lenza viene unita alla sagola, il cavetto che è direttamente agganciato al rampone.

A prua nel capobanda di dritta è inserito il forcaccio, un bastone lungo due piedi con delle tacche di forma speciale. Nel forcaccio stanno pronti due ramponi, ciascuno unito con la sua sagola alla lenza, e lo scopo è di lanciarli tutti e due rapidamente l’uno dietro l’altro sicchè se uno fallisse o uscisse fuori del corpo della balena che fugge il secondo continui la presa.

Ma capita molto sovente che, a causa della fuga istantanea, violenta e spasmodica della balena quando ha ricevuto il primo ferro, diventi impossibile per il ramponiere, per fulminei che siano i suoi movimenti, scagliarle dietro il secondo. Nondimeno, siccome il secondo rampone è già attaccato alla lenza e la lenza sta scorrendo, succede che la lenza divenga vagante e sia un’arma e bisogna in ogni caso gettarla fuori in tempo, in qualunque modo e da qualunque parte, altrimenti il più terribile dei pericoli sovrasterebbe tutti.

Così la lenza può inviluppare tutta la lancia nei suoi intrighi complessi, che le girano e s‘attorcigliano intorno in quasi tutte le direzioni. Tutti i rematori sono presi in questi pericolosi avvolgimenti, in modo che all’occhio timido dell’uomo di terra essi somigliano a giocolieri indiani coi serpenti più micidiali allegramente intrecciati alle membra.

Essere seduti allora nella lancia è come essere seduti in mezzo ai molteplici sibili degli ingranaggi di una macchina a vapore in pieno movimento, quando ogni biella in azione, ogni albero, ogni ruota vi sfiora.

Tutti gli uomini di questo mondo vivono come ravvolti in lenze da balena. Tutti sono nati con capestri intorno al collo; ma è solamente quando vengono presi nel rapido, fulmineo giro della morte, che i mortali diventano consci dei muti, sottili, onnipresenti pericoli della vita.

CAPITOLO LXI
STUBB UCCIDE UNA BALENA
Il giorno dopo il tempo fu calmissimo e afoso. Non essendo occupato in nulla di particolare, l’equipaggio del Pequod fece fatica a resistere all’incanto del sonno favorito da un mare tanto vuoto.

Era il mio turno di vedetta alla testa di trinchetto e dondolavo in un’aria che pareva incantata, D’improvviso, mi parvero come delle bollicine che scoppiassero dentro i miei occhi chiusi, le mani afferrarono come morse le sartie: una qualche forza invisibile e benefica mi salvò, e con un sussulto ritornai alla vita, e, meraviglia! vicinissimo a noi, sottovento, non più di quaranta tese lontano un capodoglio gigantesco nuotava nell’acqua come lo scafo capovolto di una fregata, con la schiena enorme, lucida, d’un bel color moro, smagliante ai raggi del sole come uno specchio.

“Mollate le lance! All’orza!» gridò Achab.

L’urlo improvviso dell’equipaggio doveva avere allarmato la balena; prima che le lance scendessero in mare, quella, volgendosi maestosamente, prese a nuotare a sottovento, ma con una tranquillità tanto sicura e con così scarse increspature che, persuaso che dopo tutto la balena poteva non essersi ancora accorta di nulla, Achab ordinò di non usare nemmeno un remo e che nessuno parlasse se non a bisbigli.

D’un tratto, mentre così scivolavamo in caccia, il mostro sventagliò verticalmente la coda a quaranta piedi nell‘aria e poi scomparve giù come una torre inghiottita. Quando il tempo di immersione fu trascorso comparve di lato alla lancia di Stubb, a lui quindi l’onore della possibile cattura.

La balena si era intanto accorta della nostra presenza e fuggiva a testa alta.

— Forza, forza, marinai! Non in fretta: avete tempo, ma forza, forza alla lancia, come tanti cannoni, così — gridava Stubb, che, accesa la pipa, gettava fuori con forza il fumo nel parlare. — Forza, su, palata lunga e forte, Tashtego. Forza, Tash, ragazzo mio, forza tutti; ma calmi, calmi, comodi, freddi come i cocomeri: solo forza, come il diavolo e la morte, e che tutti i morti saltino fuori dalle tombe a testa in su, ragazzi, così, forza!

Si sentiva l’urlo selvaggio di incitamento degli altri ramponieri, uhuu- uhuu del Capo Allegro, kiihii kii-kii del grido di Deggu, Ka.la Kuu.luu di Quiqueg.

I marinai arrancavano e facevano forza come tanti disperati, finché non s‘udì il grido benedetto:

-In piedi! Tashtego! daglielo secco!! E il rampone volò…

-Indietro tutta! — I rematori sciarono sull’acqua e in quell’attimo qualcosa di caldo e sibilante filò sui polsi di ciascuno. Era la magica lenza. La lenza, mentre scorreva e riscorreva intorno al ceppo, prima di raggiungere il bersaglio, passava a scorticapelle tra le due mani di Stubb.

— Bagna la lenza! bagna la lenza! — gridò Stubb al rematore di tinozza.

La lancia ora volava in mezzo all’acqua ribollente, come un pescecane tutto pinne, Stubb e Tashtego si cambiarono di posto, prua per poppa, acrobaticamente in quel rollio.

La lenza tesa, come la corda di un’arpa, vibrava nell’aria e la lancia trascinata con forza incredibile avanzava.

Una cascata incessante era a prora, un incessante vortice turbinava nella scia, e, alla minima mossa nell’interno, anche soltanto d’un dito, l’imbarcazione si tuffava vibrando e scricchiolando in uno spasmodico sforzo bassa fino al capo di banda nel mare. Così volavano ognuno afferrato al suo banco quanto più poteva per evitare di venire lanciato nella schiuma. In questa corsa precipitosa interi Atlantici e Pacifici parvero che venissero attraversati, finché alla fine la balena rallentò via via la fuga.

— Recupera, recupera! gridò Stubb al prodiere, e volgendo la faccia alla balena, tutti cominciarono a tirarvi più vicino l’imbarcazione, che ancora veniva rimorchiata.

Appena furono accostati, Stubb, puntò forte il ginocchio nella rozza galloccia, e vibro colpi su colpi di rampone sulla balena in fuga; fiotti rossi grondavano ora dai fianchi della balena come ruscelli giù da un colle.

Il sole cadente giocava su questo stagno vermiglio del mare, e ne gettava il riflesso su ogni volto, e tutti apparivano avvampati come tanti pellirosse. E per tutto il tempo, uscivano getti su getti di fumo bianco cacciati dal mostro agonizzante dallo sfiatatoio.

— Ala, ala! — gridò Stubb al prodiere, mentre la balena venendo meno rilassava la furia…Ala, sotto! e l’imbarcazione si affiancò al pesce.

Allora, sporgendosi molto in prora, Stubb dimenò adagio la lunga lancia aguzza nel pesce e ve la tenne muovendola accuratamente, come se cercasse con cautela qualche orologio d’oro inghiottito dalla balena e temesse di romperlo prima di riuscire a estrarlo. Ma l‘orologio d‘oro che cercava era l’intima vita del pesce. E d’improvviso la toccò; infatti scattando con un sussulto ed ecco quelle cose indescrivibili che sono chiamate le convulsioni, il mostro si dibattè terribilmente nel sangue: si rivoltò in un’impenetrabile schiuma, folle, ribollente. E alla fine, sgorgate-su sgorgate di rosso sangue come vino scuro, schizzarono nell’aria spaventata, e ricadendo corsero gocciolando giù per i fianchi immobili nel mare. Le era scoppiato il cuore …

— È. morta, signor Stubb — disse Deggu.

— Si, tutte e due le pipe sono spente e traendo la sua dalla bocca, Stubb sparse le ceneri morte sul mare, e per un istante stette a guardare pensoso il gran cadavere che aveva fatto…

CAPITOLO LXIV – LXVI
LA CENA DI STUBB E IL MASSACRO DEI PESCECANI
Quantunque, dirigendo la caccia della balena, Achab avesse dimostrato la sua solita, per chiamarla così, attività, pure, ora che l’animale era morto, qualcosa come malcontento o impazienza o disperazione pareva travagliarlo, quasi che la vista di quel corpo gli ricordasse che Moby Dick era ancora da uccidere.

Il secondo ufficiale Stubb, eccitato per la vittoria tradiva una insolita ma pur sempre bonaria irrequietezza sicchè Starbuck, suo superiore, gli aveva affidato tacitamente, per il momento, tutta la direzione delle operazioni di recupero della balena. Si capì anche che quell’eccitazione derivava seppur in minima parte dal fatto che Stubb era un buongustaio e al suo palato la balena era un cibo gustosissimo cui lui andava pazzo.

-Una bistecca, una bistecca, prima di dormire! Deggu! cala giù a tagliarmene una dal piccolo!

Verso mezzanotte la bistecca era tagliata e arrostita; e, al lume di due lanterne d’olio di balena, Stubb attaccò vigorosamente la cena capodogliacea preparata sul tronco dell’argano, come se l’argano fosse la credenza. E non era Stubb il solo a banchettare con carne di balena, quella notte banchettavano anche un numero incalcolabile di pescecani che si erano si erano fatti attorno alla carcassa ormeggiata che, se questa fosse stata lasciata così, mettiamo per sei ore filate, poco più dello scheletro sarebbe rimasto visibile al mattino.

Guardando fuori bordo, si poteva appunto vederli i pescecani (come prima sentirli), che si dimenavano nelle acque tetre e nere e si rivoltavano sulla schiena mentre strappavano grossi brani tondeggianti della grandezza di una testa umana.

Ma, quando Stubb, finito che ebbe la sua cena mise la guardia all’àncora, e quando Quiqueg e un marinaio vennero in coperta, non poca agitazione si produsse tra i pescecani poiché, questi due, sospese subito fuori bordo le impalcature da squartamento e abbassando tre lanterne in modo che gettassero lunghi fasci di luce sulle onde torbide, incominciarono a  vibrare le lunghe vanghe da balena, e iniziarono a fare una strage senza fine tra i pescecani, conficcando loro l’acciaio affilato nel cranio, che pareva l’unica parte vitale.

Ma, nella schiumante confusione degli avversari che si mescolavano e si dibattevano, i tiratori non potevano sempre colpire nel segno; e così si rivelavano altri aspetti dell’incredibile voracità dei nemici. Quelli azzannavano ferocemente non soltanto i visceri sbudellati l’uno dell’altro, ma, come archi flessibili, si piegavano e mordevano i propri; sicché quegli intestini parevano inghiottiti e ringhiottiti dalla stessa bocca e riversati per la ferita aperta dall’altra parte. E non era tutto. Era pericoloso avere a che fare coi cadaveri e gli spettri di quegli esseri. Pareva che nelle giunture e nelle ossa quelli nascondessero una specie di vitalità generica o panteistica, dopo che già quella che potremmo chiamare la vita individuale se n’era andata.

Così ucciso e issato a bordo un pescecane per levargli la pelle per poco lui non riuscì a staccare una mano a Quiqueg e lui: “A Quiqueg non importa quale dio fece lui pescecane” e, agitando la mano ferita, continuò “Dio delle Figi o dio di Nantucket, non sapere, ma certo questo dio che fece pescecane doveva proprio essere un gran balordo!”

CAPITOLO LXX
LA SFINGE
Il corpo del Leviatan prima che fosse spellato interamente, venne decapitato. Va notato che la decapitazione di un capodoglio è un’impresa scientifica d’anatomia di cui provetti chirurghi balenieri vanno alteri e non senza ragione (NdT tutte le parti utili della balena vennero prelevate e stivate cap. LXVII Squartamento).

Appena staccata, la testa viene allascata a poppa e trattenuta qui da un cavo finché il corpo non è tutto spellato.

Decapitata e spellata la balena del «Pequod», la testa venne issata contro il fianco della nave ed era circa metà fuori dall’acqua, in modo che potesse ancora in gran parte essere sostenuta dal suo naturale elemento. Qui, la testa sgocciante sangue pendeva alla cintola del «Pequod» come quella del gigante Oloferne alla cintola di Giuditta.

Passò un po’ di tempo ed ecco che Achab uscì dalla cabina in quel silenzio fissando assorto gli occhi sulla testa.

Era una testa nera e incappucciata e, pendendo là in mezzo a una quiete tanto intensa, pareva la testa della Sfinge nel deserto.

«Parla, testa enorme e venerabile» mormorò Achab «tu che, sebbene non abbia una barba, pure ti mostri tutta brizzolata di muschi, parla, o testa poderosa, e rivelaci il segreto che si nasconde in te. Di tutti i palombari tu sei quello che è disceso a maggior profondità. Questa testa, su cui ora splende il sole, è passata tra le fondamenta del mondo dove flotte e nomi dimenticati arrugginiscono e marciscono, ed ancore e mute speranze.

-Tu sei giunta dove non sono mai discesi né campane né palombari; hai dormito al fianco di tanti marinai, dove madri insonni darebbero la vita per comporli. Tu hai veduto amanti abbracciati saltare dalla nave incendiata. Tu hai veduto i pirati buttare dal ponte l’ufficiale assassinato. O testa, tu hai veduto abbastanza da ridurre in polvere le stelle e fare di Abramo un miscredente, eppure tu non pronunci una sillaba! -.

CAPITOLO LXIX
IL FUNERALE
-Ricupera le catene! Molla a poppa la carcassa!

I grossi paranchi hanno ormai fatto il loro dovere, II corpo bianco e spellato della balena decapitata risplende come un sepolcro di marmo e, sebbene mutato di colore, non ha perduto all’occhio nulla in volume. È sempre colossale. Lentamente si scosta sempre più, l’acqua tutto intorno è squarciata e schizzata dai pescecani insaziabili e l’aria in alto è tutta tormentata dai voli rapaci di uccelli stridenti i cui rostri s’accaniscono sulla balena come tanti irriverenti pugnali.

Sotto l’azzurro sereno e tranquillo, sul bel volto del mare dolcissimo, ventilato da brezze gioiose, quel grande ammasso di morte va innanzi fluttuando finché si perde in prospettive infinite.

È quello un tristissimo e beffardo funerale.

CAPITOLO LXXI
LA STORIA DEL GEROBOAMO
-Vela a prora- gridò una voce esultante dal colombiere di maestra.

-Si? Bene, è una notizia che fa piacere-, esclamò Achab drizzandosi di colpo, mentre nuvole temporalesche gli fuggivano dalla fronte. — Quel bel grido di vita in questa morta quiete potrebbe quasi convertire un uomo migliore. Che direzione? — Tre quarti a destra, capitano, e ci porta la brezza con sé! –

— Di bene in meglio, marinaio. Potesse ora discendere san Paolo per quella via e portare la sua brezza alla mia bonaccia! Oh Natura, e tu, anima umana! come le vostre analogie siano difficili da esprimere! non il minimo atomo si muove, o vive nella materia, che non abbia il suo sottile riscontro nello spirito-.

Nave e brezza correvano dandosi la mano.

Al segnale del Pequod rispose finalmente la sconosciuta vela alzando la sua bandiera di riconoscimento e si apprese così che la nave era il «Geroboamo» di Nantucket. Bracciando ad angolo retto, essa puntò su di noi e si mise di traverso sottovento al «Pequod», e ammainò una lancia che fu presto vicina.

Ma date uno sguardo alla pia, onesta, umile, ospitale, socievole e semplice baleniera! Che cosa fa la baleniera quando incontra un’altra baleniera in un tempo che sia, tanto che basti, decente? Essa fa un “gam”, cosa assolutamente sconosciuta a tutte le altre navi. Un “gam” è un incontro socievole di due (o più) baleniere, generalmente in una zona di caccia, quando, scambiati i saluti, gli equipaggi si fanno visita per mezzo delle lance.

Agli ordini di Starbuck stavamo attrezzando la scaletta di fuoribanda per l’uso del capitano che ci veniva a visitare; lo sconosciuto in questione agitò la mano dalla poppa della lancia per farci segno che quella predisposizione non era affatto necessaria. Seppimo così che il «Geroboamo» aveva a bordo una grave epidemia e che Mayhew, il capitano, temeva d’infettare l’equipaggio del Pequod.

Ma la lancia del Geroboamo era al comando di Gabriele, un fanatico che diceva di essere l’omonimo arcangelo: la lancia si avvicinava nonostante il richiamo del capitano Mayhew, spinta da una violenta improvvisa ondata che la scagliò avanti e il ribollire dell’acqua tagliò le parole.

–Ha veduto la Balena Bianca? -domandò Achab.

-Pensa, pensa alla tua baleniera, sfondata e sommersa! Bada all’orribile coda! –

La lancia balzò avanti, come tirata da demoni. Per un poco non vi furono parole, mentre un seguito di ondate turbolente passavano e, per uno di quei capricci occasionali delle acque, si rompevano rotolando, senza gonfiarsi. E la testa del capodoglio, che staccata dal corpo era ancora appesa fuori murata, sbatacchiava con violenza.

Quando finì quell’intermezzo, il capitano Mayhew cominciò una storia tenebrosa intorno a Moby Dick, non senza frequenti interruzioni da parte del mare impazzito.

Quando Moby Dick era stato bellamente avvistato dalle teste d’albero, Macey, il primo ufficiale, si era acceso dell’ardore d’incontrarlo: e, poiché lo stesso capitano, vedeva non malvolentieri quest’opportunità, Macey era riuscito, malgrado tutte le accuse e gli avvertimenti del sedicente arcangelo Gabriele che quella era una azione contro i dettati della Bibbia, a persuadere cinque uomini che gli equipaggiassero la lancia. Ora mentre Macey, l’ufficiale, era in piedi sulla prora della lancia e con tutta la temeraria energia della sua gente si sfogava in feroci insulti alla balena e cercava una buona opportunità per lanciarle il rampone, di botto una grande ombra Bianca era emersa dal mare, togliendo, per un momento, col suo scatto fulmineo e sventagliante, il fiato ai rematori. L’istante dopo, il disgraziato ufficiale, così traboccante di vita furibonda, veniva scagliato di peso nell’aria e, discendendo con una lunga arcata, cadeva in acqua alla distanza di una cinquantina di metri. Non un pezzetto dell’imbarcazione era stato danneggiato, non un capello dei rematori, ma l’ufficiale era scomparso per sempre e quando si era potuto recuperare il cadavere, non si era visto in esso nessun segno di violenza: l’uomo si era inabissato per sempre.

Achab si volse pacatamente, poi disse a Mayhew:

-Capitano, mi ricordo ora della borsa della posta; c’e una lettera per uno dei tuoi ufficiali, se non sbaglio. Starbuck, va’ a cercare la borsa-.

Achab, con la lettera in mano, sgualcita e fradicia di muffa verde, degna di essere recapitata dalla morte stessa, borbottava: — Sig. si … Signor Harry (un carattere di mano delicata da donna: sua moglie, scommetto), si… Sig. Harry Macey, nave «Geroboamo»; ma … è per Macey, e Macey è morto!

-Povero diavolo, povero diavolo! -Sospirò Mayhew: – ma … passatemela.

E Gabriele dalla lancia –No, tienla tu- gridò ad Achab. -Farai presto la sua stessa strada-

— Che Iddio ti strangoli — urlò Achab. — Poi – capitano Mayhew state pronto a prenderla – e, infilatala nello spacco di un palo, la tese alla barca, ma, come per stregoneria la barca si spostò, la lettera ondeggiò all’improvviso vicino alla mano avida di Gabriele che la rapinò fulmineo, afferrò il coltello da bordo e piantandovi la lettera, la scagliò alla nave: … Cadde ai piedi di Achab!

CAPITOLO LXXIII
STUBB E FLASK UCCIDONO UNA BALENA FRANCA, E POI CI DISCORRONO SOPRA
Ora, durante la notte e il mattino, il «Pequod» era lentamente andato alla deriva in un mare che, con le sue chiazze occasionali di brit giallo, dava insoliti indizi della vicinanza di balene franche, una specie del Leviatan che pochi supponevano si nascondesse da quelle parti in quella particolare stagione. Venne annunciato con sorpresa di tutti che quel giorno, ove se ne fosse presentata l’opportunità, si sarebbe catturata una balena franca seppure poco pregiata.

E l’opportunità non si fece attendere a lungo. Alti spruzzi s’avvistarono sottovento; e due lance, quelle di Stubb e di Flask, vennero mandate all’inseguimento. Allontanandosi sempre più, le imbarcazioni finirono per rendersi quasi invisibili agli uomini di vedetta. Ma questi videro improvvisamente in distanza un grande agitarsi di acque bianche sconvolte, entrambe le lance dovevano aver fatto presa. Passò un intervallo, e le lance furono visibilissime, in atto di venir trascinate dritto verso la nave rimorchiate dalla balena in fuga. Così vicino giunse il mostro allo scafo che sulle prime parve avesse intenzioni bellicose, ma poi tuffandosi di botto in un maelstrom a tre pertiche dal ponte, scomparve completamente come se volesse passare sotto la chiglia. -Taglia! taglia! – si gridò dalla nave alle lance che per un attimo parvero sul punto di venir mortalmente sbattute contro lo scafo della nave. Ma quelli, avendo ancora molta lenza nelle tinozze e poiché la balena non si tuffava molto velocemente, continuarono a dare lenza e intanto arrancavano a tutta forza per arrivare a prora della nave. Per qualche istante la lotta fu intensamente critica poiché, mentre le lance mollavano la lenza tesissima in una direzione e continuavano a puntare i remi in un’altra, la tensione contrapposta minacciava di tirarle sotto. Ma cercavano di guadagnare soltanto un vantaggio di pochi piedi. E v’insistettero tanto che lo ottennero: e allora un rapido tremito trascorse istantaneo come la folgore lungo la chiglia, poi la lenza tesa che strisciava sotto la nave, emerse di botto comparendo in prua, schioccando e vibrando e cosi veniva scrollata l’acqua in una miriade di gocce che cadevano in mare come pezzi di vetro; al di là, a prua, la balena compariva anche lei e di nuovo le lance avevano campo per correre. Ma l’animale spossato diminuì di velocità, e, cambiando ciecamente la direzione, girò intorno alla nave da poppa, rimorchiandosi dietro le due lance che così fecero un giro completo.

Intanto queste ricuperavano sempre di più le lenze, finché, affiancate alla balena ai due lati, Stubb rispose a Flask rampone per rampone; e cosi si svolse la battaglia intorno al Pequod, mentre le moltitudini di pescecani che nuotavano prima intorno al corpo del capodoglio, si buttavano ora sul sangue fresco che sgorgava, tracannandolo avidamente a ogni nuovo squarcio, come gli Israeliti assetati facevano ai nuovi zampilli che uscivano dalla rupe percossa da Mosè. Alla fine lo sfiato della balena si intorbidò e, con un rollio e un vomito spaventosi, la balena si girò sul dorso, cadavere.

“Non capisco che vuole fare il vecchio Achab con questo mucchio di lardo puzzolente.” disse Stubb.

“Cosa vuol farne?” fece Flask, arrotolando la lenza rimasta a prua della barca. Ed aggiunse: “Stubb non l’avete mai sentito dire che una nave che abbia, anche una sola volta, una testa di capodoglio issata sul suo lato di tribordo e quella di una balena franca sul lato di babordo che, così facendo, la nave non potrà mai capovolgersi?”

“Perché mai?”

“Non lo so, ma l’ha detto quel fantasma di guttaperca di Fedallah, l’uomo segreto di Achab con i suoi uomini neri, e quello sembra che sappia tutto sulle stregonerie delle navi. Ma alle volte penso che i suoi incantesimi finiranno di portare la nave alla rovina”.

E Stubb: “Crepi affogato! Ma se qualche notte scura, lì, vicino alla murata, e non ci fosse nessuno nei paraggi, … guarda lì in basso, Flask…” e indicò il mare insieme a un gesto significativo di tutte e due le mani: “sì, appunto, Flask, per me quel Fedallah è il diavolo, travestito. Chi potrebbe credere a quella panzana dell’imbarco clandestino? È il diavolo quant’è vero Giuda. La coda non gliela vedi perchè se l’arrotola sotto … Gli prenda un cancro!” –

“Ma via, ci credi proprio a quello che hai detto, Stubb?” Intanto remando erano arrivati alla nave.

E qui venne gridato alle lance di rimorchiare la balena alla banda sinistra, dove stavano già preparate le catene per le pinne da coda e fervevano gli altri preparativi per assicurarla a rimorchio.

— Non l’ho forse detto? — disse Flask. — è sicuro, presto vedremo la testa di questa balena franca issata a bilanciamento di quella del capodoglio-.

Non molto dopo l’affermazione di Flask apparve esatta. Mentre prima il Pequod era sbandato a sinistra, causa il peso della testa del capodoglio, ora, per il contrappeso a dritta dell’altra testa mozzata, si raddrizzò anche se con scricchiolante sforzo.

Allo stesso modo, quando voi pensatori filosofi issate da una parte la testa di Locke, vi abboccate da quella parte, e se voi allora issate dall’altra la testa di Kant tornerete a rizzarvi, ma in uno stato, con uno sforzo, pietoso. E così che certe menti continuano sempre a sudare per mantenere in equilibrio la loro barca.

Poveri sciocchi! Gettate in mare tutte quelle zucche famose e galleggerete leggeri e liberi che sarà un piacere.

CAPITOLO LXXIV
LA TESTA DEL CAPODOGLIO.
Siamo così di fronte a due grandi balene che mettono insieme le teste: uniamoci ad esse e mettiamo anche la nostra.

Del grande ordine dei Leviatani in-folio, il capodoglio e la balena franca sono di gran lunga i più notevoli.

Tutt’e due le teste sono abbastanza massicce, a dire il vero, ma c’è in quella del capodoglio una certa matematica simmetria, che a quella della franca fa malinconicamente difetto. Nella testa del capodoglio c’è più carattere.

Contemplandola, si riconosce involontariamente la sua immensa superiorità in fatto di dignità generale. Nel caso presente poi, questa dignità è accresciuta dal color pepe e sale della sommità del capo, che rivela età avanzata e vasta esperienza. È, insomma, è un bell’esemplare di ciò che i pescatori chiamano una “balena testa grigia”.

La posizione degli occhi della balena corrisponde a quella delle orecchie dell’uomo: cercate d’immaginarvi come sarebbe per voi se scorgeste le cose lateralmente, attraverso le orecchie. Vi accorgereste che potete soltanto disporre di una visuale di trenta gradi sul davanti della vostra visione laterale e di circa altri trenta dietro di essa. Se il vostro più acerrimo nemico vi venisse incontro col pugnale levato alla luce del sole, voi non potreste vederlo più di quanto non lo vedreste se vi giungesse addosso alle spalle. In una parola, voi avreste, per dir così, due schiene, ma nello stesso tempo anche due fronti (fronti laterali), poiché che cos’è che fa la fronte di un uomo? che cos’è, se non i suoi occhi? La balena, perciò, deve vedere una scena distinta da una parte, e un’altra scena distinta dall’altra; mentre, nel mezzo, tutto dev’essere per lei tenebra e il profondo nulla.

Si può effettivamente dire che l’uomo guarda l’universo da una garitta che ha per finestra due telai scorrevoli congiunti.

Cosa accade allora alla balena? Entrambi i suoi occhi, è vero, agiscono per se stessi simultaneamente, ma è forse possibile che il suo cervello sia tanto più comprensivo, combinante e più sottile di quello dell’uomo, che essa possa nello stesso istante esaminare attentamente due spettacoli distinti, uno da una parte e l’altro esattamente dall’altra? Se lo può, questa allora è in essa una cosa altrettanto meravigliosa quanto un uomo che potesse simultaneamente svolgere la dimostrazione di due problemi distinti di Euclide.

Ma l’orecchio della balena è altrettanto curioso quanto l’occhio.

L’orecchio non ha assolutamente lobo esterno comunque inteso, e nel condotto uditivo non si può quasi introdurre una penna d’oca, tanto è stupefacentemente minuto. Esso è collocato un po’ dietro l’occhio.

Salendo ora con una scala alla sommità della testa, diamo un’occhiata giù nella bocca.

Che bocca davvero bella e con aspetto di purezza! dal pavimento al soffitto è tutta foderata, o piuttosto tappezzata, di una smagliante membrana bianca, lucida come i rasi nuziali.

Ma adesso uscite fuori, e guardate questa mandibola prodigiosa che somiglia al lungo coperchio stretto di un’enorme tabacchiera, con la cerniera montata a un’estremità invece che su di un lato. Se spalancate la bocca verso l’alto e gli fate mostrare le sue file di denti, prende l’aspetto di una saracinesca spaventosa e tale, ahimè! riesce per parecchi disgraziati cacciatori, sui quali questi lance piombano con tanta forza da impalarli. Ma ben più terribile è vedere questi denti quando, a tese di profondità nel mare, una scura balena fluttua là sospesa, con la sua prodigiosa mandibola di quasi quindici piedi di lunghezza aperta ad angolo retto col corpo, simile in tutto all’asta di bompresso di una nave.

La mandibola del nostro capodoglio, con un lungo e faticoso lavoro di sollevamento, venne issata a bordo come se fosse un’ancora, e, al momento opportuno dopo altri lavori, Quiqueg, Tashtego e Deggu, tutti perfetti dentisti, si erano messi a estrarne i denti.

Poi la mandibola venne segata in lastre via via accatastate come travetti da costruzione.

CAPITOLO LXXX
IL NOCCIOLO
Se dal punto di vista fisiognomico il capodoglio è una Sfinge, il suo cervello pare al frenologo quel cerchio geometrico di cui è impossibile fare la quadratura.

Nell’animale adulto il cervello è almeno venti piedi distante dalla sua fronte apparente; esso è nascosto dietro vaste opere di difesa, come l’interna cittadella dentro le ampie fortificazioni di Quebec. Questo cervello è nascosto talmente bene come un cofanetto prezioso e io ho conosciuto balenieri che negavano perentoriamente che il capodoglio avesse altro cervello che quella sembianza palpabile del medesimo fatta dei metri cubi del suo magazzino di spermaceti. Essendo questa materia disposta a pieghe bizzarre, a giri, a circonvoluzioni, pare al loro comprendonio più in accordo con l’idea della imponenza generale del mostro considerare questa sua mistica parte come la sede dell’intelligenza.

È chiaro quindi che, dal punto di vista frenologico, la testa di questo Leviatan è, nella sua integrità vivente, un’illusione completa. Quanto al suo vero cervello non potete, osservandolo vivente, vederne o sentirne nessun indizio.

La balena, come tutte le creature strapotenti, mostra una fronte falsa al mondo comune.

CAPITOLO LXXXV
LA FONTANA
Ma la balena, per via della sua caratteristica struttura interna che la fornisce di regolari polmoni simili a quelli di un essere umano, non può vivere che aspirando l’aria libera nell’atmosfera aperta

Di lì la necessità delle sue periodiche visite al mondo di sopra e qui farà settanta respiri prima di inabissarsi nuovamente.

Tra le costole da ciascun lato della spina dorsale, la balena è fornita di un curioso e involuto labirinto cretese di vasi che paiono vermicelli, i quali vasi, quando l’animale lascia la superficie, si riempiono interamente di sangue ossigenato. Cosicché, per un’ora o più, la balena porta con sé, a un migliaio di tese di profondità, dove si nutre, una provvista di vitalità nello stesso identico modo che il cammello, quando attraversa l’arido deserto, porta nei suoi quattro stomaci supplementari una provvista d’acqua

Ora, il canale sfiatatorio del capodoglio, essenzialmente dedicato, com’è, alla condotta dell’aria per il suo respiro, è posto orizzontalmente per parecchi piedi proprio sotto la superficie superiore del capo e un po’ di fianco; questo strano canale somiglia molto a un tubo del gas posto, in una città, da un lato della strada e che nella balena si trova al sommo della testa.

Molto si è discusso sullo sfiato della balena, vapore, liquido strano che acceca, fluido irritante, che brucia la pelle…. Allora la cosa più saggia che possa fare il ricercatore, secondo me, è lasciare in pace questa benedetta fontana. E sono convinto che dalla testa degli esseri pensanti e profondi come Platone, Pirrone, il Diavolo, Giove, Dante, si alzi sempre un vapore semi visibile quando essi meditano profondamente. Perché, considerate, gli arcobaleni non si producono nell’aria limpida, ma colorano soltanto i vapori. E così attraverso tutte le brume di dubbi oscuri della mia mente, balenano di tanto in tanto divine intuizioni che accendono la mia nebbia di un raggio celeste.

Dubbi di tutte le cose terrene e intuizioni di qualche cosa divina, questa combinazione non crea né un credente né un miscredente, ma un uomo che considera il credere e non credere con occhio equanime.

«Per via videro molte balene intente a scherzare nell’oceano e, per piacevolezza, a schizzare in alto acqua attraverso i tubi e le aperture che natura ha messo loro sulle spalle».
HARRIS COLL, Viaggi in Asia e in Africa di Sir T. Herbert.

«Dieci o quindici galloni di sangue vengono spruzzati dal cuore a ogni battito, e con immensa velocità».
JOHN HUNTER, Notizia della dissezione di una piccola balena.

«L’aorta di una balena ha un diametro più grande di quello del tubo principale dell’impianto idraulico del Ponte di Londra, e l’acqua che muggisce attraverso questo tubo londinese ha meno impeto e velocità del sangue che sprizza dal cuore della balena›.
PALEY, Teologia.

CAPITOLO LXXV
LA TESTA DELLA BALENA FRANCA.
Attraversiamo il ponte, e diamo a dritta una buona occhiata alla testa della balena franca.

La testa della balena franca assomiglia a grandi linee a una gigantesca scarpa a punta tozza mentre quella di capodoglio al confronto è una biga romana da combattimento.

Ma quando vi avvicinate a questa grossa testa, essa comincia a prendere altri aspetti, a seconda del vostro punto di osservazione. Se le salite in cima e guardate i due sfiatatoi foggiati ad f, potete prendere tutta la testa per un violoncello smisurato e questi due spiragli per le fessure della cassa armonica. Se invece fermate l’occhio sulla strana incrostazione crestata a pettine in cima alla gran massa, potete osservare che è verde e a cirri: i Groenlandesi la chiamano la «corona» e i balenieri australi il berretto, e potreste paragonare quella testa a un enorme tronco di quercia con un nido d’uccello alla sua biforcazione.

Vi potrà riuscire interessante il pensiero che questo mostro fortissimo sia veramente il re del mare dotato di diadema, cui la verde corona è stata composta in questo mirabile modo.

Un gran peccato, però che questa disgraziata balena abbia il labbro leporino. La fessura è larga un piede circa. Probabilmente sua madre in un periodo importante navigava lungo la costa del Peru, quando i terremoti spaccarono le spiagge. Da questo labbro, come fossimo sopra una soglia sdrucciolevole, scivoliamo ora dentro la bocca. Vi dò la mia parola che, se fossi a Mackinaw, direi che mi trovo nell’interno di una capanna indiana. Santo Dio! Questa è la strada che fece Giona? Il soffitto è alto quasi dodici piedi e si restringe culminando ad angolo abbastanza acuto, come se lì dentro ci fosse un vero palo di sostegno; la bocca si estende lateralmente con fiancate ad arco, costolate e pelose, sono quelle meravigliose stecche di balena semi verticali foggiate a scimitarra e sono circa trecento per parte; esse formano quelle persiane attraverso le quali la balena franca filtra l’acqua e nei cui grovigli trattiene i pesciolini quando nell’ora del pranzo va per i mari di brit a bocca spalancata.

Come tutti sanno, queste stesse «setole di maiale» o «pinne» o «basette» o «persiane» o comunque vi piaccia chiamarle, forniscono alle signore stecche per busti e altri apparati irrigidenti.

Ormai dovete avere chiaramente chiara la verità di ciò che ho detto in principio, che il capodoglio e la balena franca hanno teste quasi del tutto dissimili. In quella della balena franca non si trova molto olio, nessun dente d’avorio, e non c’e nessun lungo e sottile osso mandibolare come nella testa del capodoglio. E nel capodoglio non c’e nessuna di quelle persiane d’osso, nessun grosso labbro inferiore e quasi nulla in fatto di lingua. Inoltre, la balena franca ha due sfiatatoi esterni, il capodoglio uno solo.

“II Cachalot (capodoglio) non soltanto è meglio armato della Balena Vera (Balena di Groenlandia o Franca), in quanto possiede un’arma formidabile a ciascuna estremità del corpo, ma anche dimostra con maggiore frequenza una disposizione a impiegare queste armi offensive e ciò in un modo ch’è insieme tanto sagace, coraggioso e perfido al punto che è considerato il piu pericoloso da affrontare di tutte le specie conosciute della classe balene”
FREDERICK DEBELL BENNETT, Viaggio in Caccia di Balene Intorno al Globo. 1840

CAPITOLO LXXXVI
LA CODA
Altri poeti hanno cantato le lodi dell’occhio soave dell’antilope o del bel piumaggio degli uccelli che non si posano mai: io, meno etereo, celebro una coda.

Calcolando che la coda del capodoglio piu grosso cominci a quel punto del tronco che si restringe fino a raggiungere la circonferenza di un uomo, essa comprende, solo sulla faccia superiore, un’area di almeno cinquanta piedi quadrati.

Questo tronco compatto e rotondo si allarga in due ampie, salde, piatte palme o pinne che vanno gradatamente assotigliandosi fino a meno di un pollice di spessore. È come se il corpo si biforcasse in due ali tra loro piuttosto distanti che sono squisitamente finite negli orli a mezzaluna e tutta la coda presenta linee di bellezza unica tra gli esseri viventi.

L’intero membro di coda sembra un denso letto intessuto di tendini saldati insieme; ma tagliatelo e troverete che lo compongono tre strati distinti: il superiore, il mediano e l’inferiore. Le fibre degli strati superiore e inferiore sono lunghe e orizzontali; quelle del mediano sono molto corte e s’infiltrano negli strati esterni. Questa struttura triplice dà, quant’altro mai, potenza alla coda ma questa forza specifica non basta perchè tutta la massa del leviatano è intessuta di fibre e innervamenti muscolari fuse in tutte le parti del corpo contribuendo grandemente ai fattori di potenza. Ma questa sbalorditiva forza non diminuisce minimamente la leggiadra flessuosità dei movimenti del Leviatano che fluiscono con grazia pur attraverso una forza titanica. È quella forza che Michelangelo infonde in Dio Padre dipingendolo.

Cinque grandi movimenti sono particolari della coda. Primo, quando è usata come organo di spinta per procedere, lei è il motore; le pinne laterali servono per il governo dell’avanzamento del moto. Secondo, quando è usata come mazza in battaglia. Terzo, nel compiere movimenti circolari spazzando tutto attorno. Quarto, nel flagellare. Quinto, nell’inalberarsi.

Le larghe palme della coda quando sono sventagliate in alto nell’aria, e poi, scendono veloci battendo La superficie, uno scoppio come di tuono risuona a miglia di distanza.

CAPITOLO LXXVI
L’ARIETE
Prima di lasciare, per ora, la testa del capodoglio, vorrei che chi legge, come se fosse un fisiologo attento e null’altro, ne osservasse in particolare la fronte in tutta la sua raccolta compattezza. Vorrei che fosse esaminata, allo scopo di farvi un’idea sensata e ragionevole di quella potenza d’ariete ch’essa può esercitare.

Potete notare che nel capodoglio in posizione di nuoto la fronte della testa presenta un piano quasi esattamente verticale, e potete vedere che la bocca è completamente sotto la testa, proprio come accadrebbe a voi se aveste la bocca completamente sotto il mento. Inoltre potrete notare che la balena manca esternamente di naso, e che il suo naso, lo sfiatatoio, le sta alla sommità del capo; che gli occhi e le orecchie le stanno ai lati della testa, quasi a un terzo della lunghezza del corpo partendo dalla fronte. Perciò, dovete ormai esservi accorti che la fronte del capodoglio è una parete inerte, cieca, senza un solo organo nè alcuna prominenza delicata. E infine, sebbene il suo contenuto, come sarà presto rivelato, sia fatto in parte del più fine degli olii, pure, è giunto il momento di conoscere la natura della sostanza che riveste cosi inespugnabilmente tutta quest’apparente delicatezza. Sappiamo che il grasso avvolge il corpo della balena come la scorza di un’arancia. Cosi anche nella testa, ma con questa differenza: intorno al capo questa copertura, sebbene non tanto spessa, è di una durezza gommosa e tenace tale da non credere se non si esperimenta nella realtà. Il rampone dalla punta più aguzza, la lancia più tagliente vibrata dal braccio più robusto vi rimbalzano impotenti. E come se la fronte del capodoglio fosse lastricata di zoccoli di cavallo e non credo che abbia qualche sensibilità nel dare la spinta infallibile a questa parete inanimata, inespugnabile e invulnerabile e alla materia galleggiabilissima che c’e dentro, le nuota dietro tutto un ammasso formidabile di vita, e tutto obbedisce a una sola volontà come nel più piccolo insetto.

CAPITOLO LXXIX
LA PREGHIERA SCRITTA SULLA FRONTE
Una bella fronte umana che pensa è come l’oriente con l’affanno della nascita della nuova luce del giorno. Nel riposo del pascolo la fronte arricciata del toro ha in sé qualcosa di grandioso. Quando spinge pesanti cannoni su per le gole montane, la fronte dell’elefante è maestosa. Umana o animale, la mistica fronte è come quel gran sigillo aureo apposto dagli imperatori tedeschi ai loro decreti; Significa: “Dio: fatto oggi di mia mano … “

Ma nel grande capodoglio quest’eccelsa e poderosa dignità divina a riguardo della fronte è così immensamente ampliata che, contemplandola bene, sentite più fortemente la Divinità e le potenze tremende della natura più che alla vista di qualunque altro soggetto vivente.

Ma non c’e nessun Champollion, che decifrò quei rugosi geroglifici incisi sulla roccia per decifrare quell’Egitto che è sul volto di ogni uomo e di ogni essere vivente. La Fisiognomia, come ogni altra scienza umana, è soltanto una favola effimera. Se, dunque, Sir William Jones, che leggeva in trenta lingue, non riuscì a leggere il volto del più semplice dei contadini nei suoi significati più sottili e profondi, come può l’illetterato Ismaele sperare di leggere il tremendo aramaico della fronte del capodoglio? Io non posso far altro che mettervela davanti, questa fronte. Voi leggetela, se potete.

CAPITOLO LXXVII
II GRANDE TINO DI HEIDELBERG
La testa del capodoglio è un immenso favo d’olio, formato dall’incrociarsi ripetuto, per dritto e per traverso, di diecimila cellule di dure fibre elastiche bianche che occupano tutto il volume, detto cassa, pieno appunto di olio: questo gran favo si può considerare il grande Tino di Heidelberg del capodoglio. Ebbene quella botte famosa è scolpita sul davanti di mistici intagli, e, analogamente, la vasta fronte corrugata della balena forma innumerevoli disegni bizzarri, che servono da emblematico ornamento al suo tino meraviglioso. E ancora, come quello di Heidelberg, che è sempre stato riempito dei più eccellenti vini delle vallate renane, cosi il Tino della balena contiene di gran lunga il piu prezioso di tutti i raccolti oleari, vale a dire l’apprezzatissimo spermaceti nel suo stato più puro, limpido e odorifero. Esso, sebbene si mantenga perfettamente liquido finchè il capodoglio è vivo, esposto all’aria dopo la morte comincia tosto a rapprendersi, dando luogo a bellissime formazioni cristalline, come quando il primo ghiaccio sottile si va formando sull’acqua. La cassa di una balena grossa dà generalmente cinquecento galloni circa di spermaceti.

Detto tutto questo, state ora attenti, ve ne prego, alla meravigliosa e, in questo caso particolare, quasi fatale operazione con cui il grande tino di Heidelberg del capodoglio viene svuotato.

CAPITOLO LXXVIII
CISTERNA E SECCHIE
Svelto come un gatto, Tashtego sale sull’alberatura e, senza mutare la sua posizione eretta, corre diritto in fuori sul pennone di maestro dov’esso strapiomba esattamente sul tino sospeso. Ha portato con sé un paranco leggero, detto frusta, fatto di un solo cavo con le due estremità che scorrono attraverso una sola carrucola o bozzello. Assicurando il bozzello in modo che penda dal pennone, getta un’estremità del cavo a un marinaio in coperta che lo afferra saldamente. Poi, via via, giù per l’altra estremità, l’indiano si lascia scivolare nell’aria, finche atterra agilmente alla sommità della testa e rivolto all’equipaggio lancia un grido che sembra un muezzin turco.

Gli fanno arrivare un’affilata vanga dal manico corto, e lui comincia a rovistare diligentemente un punto adatto dove aprire il tino. In questa ricerca va molto cauto, come un cercatore di tesori che in qualche casa antica sondi le pareti per scoprire dov’è I’oro murato. Quando la ricerca prudente è finita, all’estremità del cavo viene attaccata una massiccia secchia cerchiata di ferro, in tutto simile a una secchia da pozzo. Tashtego cala il recipiente nel tino, fino a quando esso non scompare del tutto; poi, dando una voce ai marinai della frusta, ecco che la secchia ricompare, tutta spumosa come il secchio di una lattaia pieno di latte fresco. Poi si ripete l’operazione, fino a quando la cisterna profonda non dà più nulla.

Sia che Tashtego, quel barbaro Indiano, fosse tanto imprudente e temerario da lasciare per un istante la sua presa con una sola mano ai grandi cavi dei paranchi che reggevano la testa del capodoglio, sia che il luogo dove lui si trovava fosse tanto traditore e sdrucciolevole, sia che il Maligno in persona volesse così senza precisare oltre le sue ragioni, come andò esattamente è impossibile dire, ma fatto sta che d’improvviso, mentre l’ottantesima o la novantesima secchia veniva su con un risucchio, Dio Buono! il povero Tashtego, come la secchia gemella che scende in un vero pozzo, precipitò a capofitto in questo grande Tino di Heidelberg e con un’orribile gorgoglio d’olio scomparve ai nostri sguardi.

— Un uomo in mare! — gridò Deggu che, nella costernazione generale, fu il primo a riprendere il dominio di sé. — Qua la secchia, — urlò e mettendovi dentro un piede in modo da assicurare meglio la mano alla presa sulla corda della frusta, gli issatori lo fecero scendere fino sulla testa del capodoglio, appena prima che Tashtego potesse averne raggiunto il fondo

Guardando fuoribanda si vedeva la gran testa prima inanimata palpitare e sussultare proprio sotto il pelo dell’acqua come se un’idea di somma importanza l’avesse illuminata in quel momento, mentre era soltanto il disgraziato indiano che inconsciamente rivelava con quei guizzi la pericolosa profondità cui era disceso. S’udì un improvviso un secco rumore di schianto e, con orrore indescrivibile di tutti, uno dei ganci smisurati che trattenevano la testa si spezzò di botto, mentre con una intensa vibrazione la massa enorme oscillò di lato e la nave ubriaca oscillava anche lei e rollava come cozzata da un iceberg. L’unico gancio rimasto, che reggeva ormai tutto il peso, pareva sul punto di cedere, il che era più che probabile anche per le oscillazioni indotte dalla testa.

In nome del cielo, urlò Stubb, mentre Deggu ben aggrappato al cavo del paranco calava veloce la secchia all’interno del tino ché Tasthego la potesse afferrare.

“Allontanatavi dal paranco”, urlò una voce forte come lo scoppio di un razzo.

Quasi nello stesso istante con fragore di tuono, come se il fronte roccioso da cui scende la cascata del Niagara scoppiasse precipitando, così la massa enorme della testa piombò nel gorgo; lo scafo, improvvisamente liberato, oscillò nel rollio abbassandosi fino a mostrare la luccicante lamiera di rame della chiglia, e tutti trattennero il fiato. Deggu si trovò ad oscillare appeso ai cavi strappati dei paranchi ora venendosi a trovare sopra le teste dei marinai ora sull’acqua ed appariva e spariva attraverso una nebbia di spruzzi, e intanto il povero Tashtego sepolto affondava giù, giù dentro il mare! Ma s’era appena dileguato il vapore accecante che una figura nuda con in mano una sciabola d’abbordaggio apparve per un attimo ritta sulla murata. L’istante dopo un gran tonfo annunciava che il mio coraggioso Quiqueg s’era tuffato al salvataggio. Corremmo in massa alla murata e ciascun occhio contava le increspature del gorgo del tuffo. Guardando più lontano, vedemmo un braccio cacciarsi dritto fuori dalle onde azzurre, ed era una cosa strana a vedersi, appariva come un braccio che spunti tra l’erba di una tomba.

Alcuni marinai saltarono su una lancia accorrendo verso di loro.

— Tutt’e due! tutt’e due! ci sono tutt’e due,- gridò Deggu in uno strillo di gioia, e subito dopo si vide Quiqueg dare bracciate vigorose con una mano, e con l’altra stringere la chioma lunga dell’indiano. Tirati nella lancia che li attendeva, vennero portati immediatamente sul ponte, ma Tashtego ce ne mise per riaversi e neanche Quiqueg pareva troppo vispo.

Quiqueg affermò che con la sciabola era riuscito con un gran colpo a sfondare la testa in basso, e lasciata la sciabola, aveva cacciato dentro il suo lungo braccio; al suo prima rovistare gli s’era presentata una gamba, ma, sapendo bene che ciò non era regolare e poteva causare grandi difficoltà, lui aveva respinto la gamba e con un’abile spinta e una scossa, aveva fatto fare un salto mortale all’indiano, cosicché questi, al nuovo tentativo, era venuto fuori nel buon modo antico, a testa innanzi. Quanto al testone del capodoglio, quello si era comportato che meglio non si poteva.

E così il coraggio e la grande destrezza ostetrica di Quiqueg portarono felicemente a termine la liberazione, o piuttosto il parto, di Tashtego, e ciò a dispetto degli ostacoli più avversi e apparentemente disperati; che è senza dubbio una lezione da non dimenticare. L’ostetricia bisognerebbe insegnarla nella stessa scuola con la scherma, il pugilato, l’equitazione e il canottaggio.

7. Continua


La traduzione del romanzo di Herman Melville, di cui Succedeoggi sta pubblicando un ampio sunto, è di Alessandro Macchi. Le fotografie originali sono di Roberto Cavallini.

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