Giuliano Compagno
L’addio a un’icona del ’900

Miracolo Delon

La bellezza senza paragoni di cui l’attore francese si trovò dotato ha contribuito alla sua leggenda che risuona in queste ore, dopo la sua morte. Ma sarebbe sbagliato ridurre il suo talento, a iniziare da “Plein soleil” di René Clément che colpì Luchino Visconti

Se quelli erano segnali, direi che non vi sia stata intermittenza, ieri, alla notizia della morte di Alain Delon. Non un incendio ma un’infinità di piccoli fuochi che non sembravano spegnersi, protetti com’erano dalle mani di migliaia di persone. Ciascuna, a commento del suo lutto, ricordava una scena, uno sguardo, una pausa e, soprattutto, un profilo umano che l’attore aveva saputo interpretare, come se uscisse, dal suo animo, un respiro che infine esalava da se stesso. Forse nascosto. Per quel che vale l’accademia dei social, non ricordo una reazione collettiva a tal punto unanime. Da parte di una comunità in età matura si sono susseguiti, uno dopo l’altro, commenti che ancora si stanno levando in un coro dolente, in un funerale che non attende alcun amen. Si è aperto un libro, e poi tanti pensieri, e le firme… Quando esso verrà chiuso, come d’abitudine, a sfogliarlo saranno gli eredi, ovvero gli spettatori che in oltre sessant’anni di cinematografo hanno lasciato le sale di mezzo mondo al termine di un film con Alain Delon. Se questo è un segnale, direi che in poche ore null’altro è valso a ribadire che la cosiddetta “Settima” è ancora la Prima e ultima Arte che ci rimane dentro; la felice malinconia del sentire noi stessi dinanzi a uno schermo, nella magia di un’improvvisa solitudine.

E così è accaduto che un volto invecchiato, quasi irriconoscibile, abbia percorso inosservato l’ultimo tragitto di senescenza, il più lungo, e giunto al proprio capolinea si sia immediatamente consegnato al ricordo in tutto il suo splendore. Era stato il caso di Marcello Mastroianni, che dal mondo era come svanito per poi riapparire con quel suo accenno di sorriso, meraviglioso. Anche per lui s’era trattato di un refolo che soffiava su ogni forma di apparenza per poi restare immoto, nemmeno tanto distante, alla contemplazione di tutti. Nulla che avesse che vedere con l’eternità: anzi, Mastroianni e Delon custodivano dentro di loro un tocco di fragilità, ben coscienti che quello era il dono più grande. Le donne sì che sanno narrarla, la Bellezza di quei due! Meglio e prima di tutti, loro colgono l’intimità vera che si cela dietro la maschera di un viso senza paragoni, perché ad Alain e a Marcello «la sorte, non avara di doni curiosi» ai loro volti aveva affidato la Grazia. Essa era il rivelarsi dell’immagine sublime, mai nitida, di una dote femminile per eccellenza; e invece la Grazia si era distratta e aveva toccato anche la fronte di un italiano e di un francese. Se n’era invaghita e aveva disubbidito alle sue stesse regole. D’altronde, all’origine dei Miti, vi è spesso una deviazione.

Alain Delon ha incarnato una sembianza che superava ogni fantasia di un volto maschile. Di un decennio più giovane rispetto a Mastroianni, egli ne aveva perfezionato il tratto di indolenza, tanto da raffigurare dei lineamenti così delicati da non essersi mai immaginati prima del suo passaggio. I due transiteranno nel ’900 come se nulla fosse. Viceversa, al loro apparire, avranno luogo due piccoli miracoli: non vi sarà donna che non accetterà l’idea di una bellezza maschile che la eguagli; non vi sarà uomo che non riconoscerà la presenza di una figura imbattibile. Le une e gli altri si metteranno il cuore in pace.

A questo punto devo, nel mio piccolo, rimproverarmi, perché nell’immediatezza di un commento emotivo ho espresso un parere frettoloso, e dunque sbagliato. Paragonando istintivamente la carriera artistica di Mastroianni alla sua, ho commentato che Delon non era stato un grandissimo attore (tranne in Rocco e i suoi fratelli) e che non aveva alcun bisogno di esserlo. A ciò sono seguiti commenti e citazioni che subito mi sono apparsi condivisibili: Mr. Klein, Il Gattopardo, Le samourai… Allora ho domandato a due amici il loro parere. Andrea Pergolari mi ha immediatamente ricordato che Plein soleil di René Clément era valso a Delon (nella foto, in una scena del film, ndr) la considerazione di Luchino Visconti. Poi ha commentato che l’attore possedeva la virtù di saper recitare «sotto le righe, in una sorta di inapparenza, e considera che quella non era esattamente una qualità comune agli attori francesi e, più in generale, a quelli a lui coevi»… A seguire ho chiesto lumi a Steve Della Casa, che mi ha affidato questa riflessione: «Di film importanti Alain Delon ne ha fatti: La prima notte di quiete di Zurlini è uno dei grandi capolavori degli anni 70, e lì è veramente magnetico. Lo è talmente che, com’è noto, Marlon Brando utilizza lo stesso cappotto per Ultimo tango a Parigi. Tra i suoi registi, oltre a Luchino Visconti e a Valerio Zurlini, ricorderei Jean-Pierre Melville, uno dei più grandi a livello mondiale. In realtà Delon ha una sua presenza importante… Quello che si può dire di lui è che è il figlio meglio riuscito di una stagione in cui, siccome quasi tutti i film italiani erano coprodotti con la Francia, ci voleva sempre un attore francese. E così in cartellone apparivano i nomi di Jacques Perrin, Jean-Louis Trintignant, Alain Delon, Fernandel, Louis De Funes, Bernard Blier… il che dimostrava l’esistenza di un cinema capace di sporgersi al di là dei suoi confini nazionali, fenomeno che oggi appare assai più episodico. Delon era il figlio migliore di quell’epoca forse perché, da un certo punto di vista, appariva come il più antipatico. Era colui che nella vita privata ne faceva davvero di tutti i colori, però era iconico e capace di dare un senso profondo ad alcuni dei suoi personaggi». Poco dopo Brunella Bonanni, una cinefila che stimo, ha citato per prima una frase goethiana che Valerio Zurlini ed Enrico Medioli fanno pronunciare al professor Daniele Dominici: «La prima notte di quiete è la morte, perché finalmente si dorme senza sogni».

Se vi è qualcosa di profondamente vissuto, da parte di Alain Delon, sono queste parole, che negli ultimi anni egli ha sentito e risentito nel suo animo. Nel suo animo tormentato. L’icona del ’900 desiderava essere appesa da qualche parte in modo da assopirsi per sempre. Era come chiedere al suo pubblico, che tanto lo aveva apprezzato, di lasciarlo andar via, perché era stanco e perché era giunto il momento. Lo disse a Cannes l’anno scorso, dopo aver tenuto tra le mani, con nonchalance, la sua Palma d’Oro alla carriera…

«Sapete, quando iniziai questa professione, mi dissero che era una cosa difficile da fare. In realtà non era difficile, era il lavoro che volevo fare. Quello che è molto difficile, è durare. E io sono durato 62 anni. E ora so che la cosa difficile è andarsene, perché io voglio andarmene. Ma non me ne andrò senza dirvelo e senza ringraziarvi, perché ho fatto sempre del mio meglio. Stasera ero sopraffatto da questa proiezione che mi ha mostrato un sacco di cose, ma ho fatto un lavoro che ho scelto e sono stato diretto dai più grandi, dai migliori e, a quanto pare, sarei una star. A quanto pare. Ma se sono una star, ed è per questo che voglio ringraziarvi, lo devo al pubblico e a nessun altro».

Merci à toi, Alain. Ton rêve viene de se terminer.

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