Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Fantasmi di famiglia

Marco Tullio Giordana, dopo molti anni, torna dietro la macchina da presa con un film (mal riuscito) scritto con Marco Bellocchio: la storia di una famiglia borghese minata dalla follia

Vicenza 1980, Nord-est sazio e tutt’altro che disperato, i protagonisti di questa storia sono due gemelli belli, colti e soprattutto ricchi: lui è il ginecologo più famoso della città, lei una pianista acclamata, insieme al suo Steinway & Sons entriamo nella meraviglia del Teatro Olimpico progettato da Andrea Palladio. Osvaldo ed Erminia vivono nel grande palazzo nel centro di Vicenza costruito dal nonno, lui al piano nobile con la giovane moglie Maria, lei sopra, circondata dai suoi pianoforti. La loro felicità esplode quando Maria annuncia di essere finalmente incinta: i tre si abbracciano e saltano come bambini. Inizia così La vita accanto, il film con cui Marco Tullio Giordana – il regista di Maledetti vi amerò e La meglio gioventù, per citare i suoi titoli più famosi – ritorna nelle sale dopo sei anni di assenza.

A riportarlo dietro la macchina da presa è un libro con lo stesso titolo, il romanzo di Mariapia Veladiano, candidato allo Strega 2011. Ma il motivo che mi ha spinta a vedere subito questo film è un altro: a firmare la sceneggiatura, con Gloria Malatesta e lo stesso Giordana, c’è Marco Bellocchio, il regista dei segreti indicibili che si nascondono nelle famiglie borghesi. L’altra ragione è che ci sono due attori che amo: Erminia è Sonia Bergamasco, Osvaldo è Paolo Pierobon. E allora perché questo melodramma familiare incentrato sull’incapacità di vivere alla fine non mi ha convinta?

«Io sono brutta. Proprio brutta. Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà». Con queste parole entra in scena Rebecca, la protagonista del romanzo, la bambina tanto desiderata da Osvaldo e da Maria la cui nascita arriva come una maledizione. Per colpa sua la depressione della madre esplode e travolge ogni cosa: Maria (la brava Valentina Bellè si impegna in un personaggio decisamente sopra le righe, a tratti disturbante) si mette a lutto, non esce più di casa, non vuole che la figlia vada a scuola, non vuole esibirla nel “circo” pettegolo della città di provincia.

E qui c’è la prima incomprensibile stonatura della pellicola. Perché Rebecca nel film non è brutta, ha solo un segno che la rende diversa da tutte: una grande “voglia”, un angioma sulla guancia destra che scende lungo il collo, una macchia rossa che non passa certo inosservata ma non è in grado di deturpare la sua bellezza. Questo scostamento della sceneggiatura dal romanzo stravolge tutta la narrazione. Perché allora lo spettatore non capisce, anzi ne è infastidito, la disperazione isterica della madre che fa di tutto per nascondere la bambina, per escluderla dalla vita degli altri, sequestrandola insieme a lei nella grande casa. E il padre si rivela un inetto, incapace di gestire la follia della moglie, bisognoso dell’unica donna che lo comprende e lo sostiene: sua sorella. Quali fantasmi abitano quei saloni, quali segreti scoprono gli occhi di Rebecca che vedono più di quanto gli adulti immaginano? Come in un gioco di scatole cinesi, lo scandalo dell’insostenibile bruttezza di Rebecca (ridotta nel film a una macchia) nasconde altri scandali, l’ipocrisia dei segreti indicibili che le famiglie “perfette” custodiscono.

Rebecca evaderà dalla prigione familiare grazie alla musica. Erminia capisce subito che la bambina è dotata del suo stesso talento per il pianoforte, misteriosamente la nipote eredita il genio della zia quasi fosse sua figlia, mentre la madre è ossessionata dalla convinzione che la macchia sul suo viso sia lo stigma di una tara familiare.

Altro non rivelerò. Ma se la prima stonatura è la scelta di ridurre la bruttezza di Rebecca a una semplice macchia, la seconda sta certamente nel finale inatteso, forse una suggestione onirica, forse un miracolo, chissà.

È un film discontinuo, La vita accanto, come se Bellocchio pesasse troppo nella sceneggiatura e Giordana dirigesse una storia che non è nelle sue corde. Bella la fotografia gotica che comunica le atmosfere cupe del palazzo e, per contrasto, la luminosa bellezza di Vicenza, perfetti Bergamasco e Pierobon, delizioso il cammeo di Michela Cescon nei panni della madre svitata di Lucilla, l’amica proletaria e disinibita di Rebecca.

Alla fine mi sono chiesta come avrebbe riscritto questa storia, facendone una pièce teatrale di sicura ferocia, Vitaliano Trevisan, lui che è stato il più grande e che proprio nella provincia vicentina era nato. Trevisan sapeva cosa vuol dire vivere “una vita accanto”: ma la sua, purtroppo, non era fiction.

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