A proposito di "Le due città"
Il pasticcio di Sassari
Stile un po' approssimativo, trama spesso confusa: davvero ci si chiede come mai il romanzo d'esordio di Marco Atzeni sia diventato un caso editoriale
A dare corpo e carattere a un’opera è anche, lo si voglia o no, il lessico cui si ricorre, e com’è noto ogni scrittore o quasi ha le sue manie e predilezioni (Elena Ferrante, per citare un caso, nella saga dell’Amica geniale, loda e si schermisce in continuazione). Marco Atzeni, autore del fortunato Le due città (Il Maestrale, 352 pagine, 20 euro), ha una smisurata passione per il verbo “sbuffare”: coniugato in molteplici forme e scevro da particolari fini retorici, sfila nel suo romanzo d’esordio nientemeno che in ventuno occorrenze. E di sbuffare se ne ha donde: le insistite ripetizioni (tra le più frequenti: fare spallucce, sbadigliare, naso aquilino, silente, storcere la bocca) spingono a pensare a un testo sul cui impianto stilistico si è ragionato in modo scarso: il vocabolario dell’autore si riduce alle medesime espressioni stereotipate; ecco il barone, perfido antagonista di un personaggio principale di cui non è dato sapere il nome, con la forza di una femminuccia, vanitoso come una femmina e leggero come una donna; varie comparse sgranano gli occhi, fanno smorfie, stringono le palpebre o guardano con la coda dell’occhio; i cani digrignano i denti. Ma che le soluzioni formali siano dei vieti cliché è solo la punta dell’iceberg, ad Atzeni, e qui si rivela parte del restante iceberg, deve essere sembrato fondamentale ribadirle senza tregua, come se il lettore fosse duro di comprendonio o avvezzo alla petulanza. E petulante è la litania con cui il protagonista viene stuzzicato a contrarre moglie, considerato che chiunque lo incontri gli rivolge questo invito: siamo d’accordo, l’espediente (con rozzezza) vuole mettere in scena una mentalità passata secondo cui il matrimonio è un’istituzione imprescindibile ma, lo riaffermiamo, il messaggio arriva forte e chiaro già dal primo momento.
Se lo stile è approssimativo e involontariamente caricaturale (Donna Musso, proprietaria del palazzo in cui il nostro risiede, chiama figliuolo un quarantenne e usa locuzioni anticheggianti tipo vile denaro imitando una ipotetica parlata ottocentesca), la trama lascia altrettanto perplessi. In una Sassari in balia dei capricci del menzionato barone, uno scrivano dal pugno facile si trova suo malgrado coinvolto in vicende torbide che gli costeranno la vita. Buon per lui! Può così congiungersi col fantasma di Ada, il suo usignolo (termine che rispetto a “sbuffare” appare appena in quattordici occasioni), che vede e con cui comunica già in vita grazie a un dono pregresso. Lei, premurosa e accudente, nonostante il tentativo di farcela risultare una ribelle (si suicida per sfuggire a un matrimonio combinato) è raffigurata più da tipa servile e sottomessa; con puntualità si chiude a riccio e va esortata a uscire dal guscio in quanto è una donna indipendente, ma a volte timorosa come una ragazzina. Senza contare che si aggira per Sassari con in mano un mazzo di fiori in assenza di stupore dalla gente la quale, a rigor di logica, lo dovrebbe avvistare fluttuare nel vuoto: serve una sospensione dell’incredulità infinita per accettare certe incongruenze. Il che è un peccato: alcuni elementi del plot farebbero ben sperare; è poco scontato l’epilogo, ad esempio, ed è interessante la resa di specifici dialoghi dove degli scambi salaci danno movimento agli eventi narrati. Nel complesso però si fa fatica a prendere sul serio un lavoro che ha indubbie pretese artistiche ma adotta una lingua da rotocalco con una tendenza marcata alle frasi fatte. Le due città è, almeno in Sardegna, un caso editoriale: ma sul perché è spontaneo interrogarsi.
La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.