Moby Dick/8
La storia di Pip
Con il la tragica storia di Pip continua la pubblicazione dell'ampio sunto di "Moby Dick" nella versione di Alessandro Macchi, illustrata da Roberto Cavallini
CAPITOLO LXXXVII
LA GRANDE ARMADA
La lunga e stretta penisola di Malacca, estesa a sud-est dei territori della Birmania, forma la punta più meridionale di tutta l’Asia. In una linea ininterrotta da questa penisola si allungano le isole di Sumatra, Giava, Bali e Timor, le quali formano con molte altre una sorta di bastione, che congiunge nel senso della lunghezza l’Asia con l’Australia e separa la distesa ininterrotta dell’Oceano Indiano dai fitti arcipelaghi orientali. Questo bastione è attraversato per comodità delle navi e delle balene, da molte aperture tra cui le principali sono gli stretti della Sonda e di Malacca. Per lo stretto della Sonda, specialmente, le navi che vanno in Cina da occidente entrano nel mar della Cina.
Quest’angusto stretto della Sonda divide Sumatra da Giava e, posto a mezza via in quel grande bastione d’isole, è dominato da quell’ardito promontorio verde che i marinai chiamano il Capo di Giava; lo stretto corrisponde più o meno a un cancello centrale che si apre su un immenso impero circondato da mura.
Con un fresco vento favorevole il Pequod si stava avvicinando a questo stretto ed Achab si proponeva di attraversarlo passando nel Mar di Giava e di qui, incrociando a nord per acque notoriamente frequentate qua e là dai capodogli, fare rotta da questo mare radente alle Isole Filippine e giungere alla lontana costa del Giappone in tempo per la grande stagione locale di caccia. In questo modo la circumnavigazione del Pequod avrebbe toccato quasi tutte le regioni conosciute di caccia al capodoglio, prima di scendere nel Pacifico sull’equatore, dove Achab, sebbene potesse essere deluso dappertutto nel suo inseguimento, contava fermamente di dare battaglia a Moby Dick nel mare che si sapeva fosse da lui frequentato in una stagione in cui si poteva ragionevolmente presumere che il mostro ci fosse.
Ma come mai, in questa sua ricerca in tanti mari, Achab non tocca terra? beve aria iI suo equipaggio? Certamente si fermerà per l’acqua. Niente affatto. È da tempo immemorabile che il sole si va aggirando nel suo cerchio fiammeggiante e non ha bisogno di sostentamento se non di quello che porta già in sé. Così Achab. La baleniera che gira il mondo non reca altro carico che se stessa e l’equipaggio, con armi e provviste, questa è la sua zavorra, non pani di piombo o simili. Nella sua capace stiva essa porta imbottigliato il contenuto di tutto un lago. Porta dentro di sé acqua per anni. Limpida, cara acqua originaria di Nantucket che il nantuckettese, navigante ormai da tre anni nel Pacifico, preferisce al liquido salmastro attinto il giorno prima dai fiumi peruviani o indiani. Così se vi capitasse di venire a sapere di un imminente diluvio si limiterebbero a rispondervi soltanto: “Bene, ragazzi, l’arca ce l’abbiamo!”
Mentre il «Pequod» s’accostava sempre più al Capo di Giava, si dava sovente il richiamo alle vedette incitandole a stare con gli occhi ben aperti.
Ma bisogna prima premettere che i capodogli, in seguito all’instancabile attività con cui ultimamente sono stati cacciati per tutti e quattro gli oceani, invece di avanzare quasi sempre in piccoli gruppi isolati come facevano in altri tempi, si radunano ora sovente in mandrie numerosissime, così da rendere più difficile la loro caccia e per settimane non si vede nessun zampillo degli sfiati poi d’improvviso capita di vederne migliaia.
E infatti, dal posatoio dove si abbracciava il gran semicerchio esteso per metà dell’orizzonte, apparve, alla distanza di qualcosa come due o tre miglia dalla nostra linea di prua e sia a babordo che a tribordo, una catena ininterrotta di schizzi di balene che giocherellavano su e giù e apparivano gioiosi e scintillanti nell’aria del mezzogiorno. Osservato dalla coperta del Pequod, come se la nave sorgesse su un’alta collina nel mare, quest’esercito di gettiti vaporosi, ciascuno arricciandosi nell’aria attraverso una sfumata atmosfera di nebbiolina azzurra, appariva come i mille camini allegri di qualche popolosa metropoli, scoperta in un profumato mattino d’autunno da un cavaliere su un’altura.
Facendo forza di vele il «Pequod» si lanciò all’inseguimento mentre i ramponieri, armi alla mano, lanciavano grida di incitamento dalla prua delle lance ancora sospese. La nave gradualmente le avvicinò e, caduto intanto il vento, venne dato l’ordine di correre alle lance. Ma non appena la mandria si accorse, per qualche presumibile meraviglioso istinto del capodoglio, che tre prore le erano dietro, benché ancora alla distanza di un miglio, subito tornò a riprendersi e, disponendosi a ranghi e battaglioni serrati, in modo che le sfiatate parevano fila di scintillanti baionette a fasci, si lanciò avanti a velocità raddoppiata.
Noi balzammo al legno di frassino e, dopo una vogata di parecchie ore, eravamo quasi del parere di rinunciare alla caccia, quando un generale moto d’arresto che avvenne tra le balene ci diede il segno incoraggiante che esse erano finalmente sotto l’influsso di quella strana perplessità che nasce da una generale irresolutezza, vedendo la quale i balenieri usano dire che l’animale è molto agitato(gallied). Le compatte colonne marziali, secondo cui finora esse avevano nuotato rapide e decise, si ruppero in una confusione smisurata e, come gli elefanti di re Poro nella battaglia indiana contro Alessandro, i mostri parvero impazziti dal terrore.
Come si usa in questi casi, subito le lance si separarono, ciascuna diretta a qualche balena solitaria sugli orli del banco. Dopo circa tre minuti, il rampone di Quiqueg era scagliato: il pesce colpito ci schizzò in faccia una spuma accecante e poi fuggendo via con noi, rapido come la luce trainandoci con lui, si cacciò difilato nel centro della mandria.
Sebbene una mossa del genere da parte della balena colpita in tali circostanze non sia affatto senza precedenti, e anzi quasi sempre più o meno prevista, pure essa costituisce una delle più pericolose vicissitudini della caccia. Poiché, mentre il mostro veloce vi trascina sempre più addentro nel branco frenetico, voi dite addio alla vita di un quieto mondo e non esistete più che in un sussulto di delirio.
Ma, senza un briciolo di paura, Quiqueg ci governava virilmente, ora deviando da un mostro che ci attraversava direttamente la strada, ora scostandoci da un altro le cui pinne colossali gli pendevano sul capo; e per tutto il tempo Starbuck stava ritto a prora, lancia di abbordaggio alla mano, liberando a colpi di punta la nostra rotta da tutte le balene che poteva raggiungere con brevi lanci, perché a darli lunghi non c’era tempo.
Tutte le lance baleniere portano certi ordigni curiosi, originariamente inventati dagli indiani di Nantucket, e che si chiamano druggs. Due spessi quadrati di legno di grandezza uguale sono uniti insieme solidamente in modo che incrocino ad angolo retto le loro venature; c’e poi una lenza di lunghezza considerevole attaccata al centro di questo ceppo e, siccome l’altra estremità è ad occhiello, la si può assicurare a un rampone nello spazio di un attimo. E specialmente in questi casi di panico che si adopera il drugg poiché in quei momenti ci sono intorno più balene di quante sia possibile assalirne in una volta sola. Ma capodogli non se ne incontra tutti i giorni: bisogna quindi ucciderne finché si può. E se non è possibile ucciderli tutti subito, bisogna tarpar loro le ali ferendoli, in modo che possano più tardi venire uccisi con comodo. E in queste circostanze che il drugg torna utile. La nostra lancia ne aveva tre. Il primo e il secondo vennero scagliati con successo e vedemmo le balene allontanarsi ondeggiando, inceppate dall’enorme resistenza laterale del drugg che rimorchiavano: erano impedite come malfattori con la catena e con la palla al piede. La sagola del terzo si impigliò in un sedile che si divelse creando una falla in cui il mare si precipitò ma riuscimmo a tappala con camicie e mutande, per il momento
Sarebbe stato pressoché impossibile lanciare questi ramponi legati al drug se, mentre ci avanzavamo verso l’interno della mandria, la corsa della nostra balena non si fosse di molto rallentata. Quando alla fine il rampone strattonato si sfilò e la balena che ci rimorchiava scomparve sul fianco, noi con lo slancio morente di quest’abbrivio iniziale sgusciammo, passando tra due balene, nel cuore più profondo del branco. In questa plaga centrale il mare presentava quella liscia superficie come di raso, detta il lucido, causata dalla sottile umidità emessa dalla balena quando è più tranquilla e, più lontano, si sentiva come vento di tempesta il rumoreggiare delle altre balene. Si, eravamo allora in quella calma incantata che dicono si nasconda nel cuore di ogni agitazione. Causa la densità della folla di balene tranquille che più da vicino ci circondavano nell’asse mediano della mandria, nessuna possibilità di fuga si presentava a noi per il momento. Dovevamo attendere che si producesse un’apertura nella muraglia vivente che ci circondava.
Come cani domestici, le balene venivano a fiutarci fino al capo di panda, cioè all’orlo superiore dello scafo, e a toccarlo, finché ci parve quasi che qualche sortilegio le avesse improvvisamente addomesticate. Quiqueg dava loro pacche sulla fronte, Starbuck grattava le schiene col rampone, ma timoroso delle conseguenze si asteneva, per il momento dallo scagliarlo. L’area calma quasi fosse un lago, era straordinariamente trasparente fino a una considerevole profondità, ma sotto questo mondo meraviglioso della superficie, un altro mondo ancor più straordinario apparve ai nostri occhi mentre guardavamo fuoribanda.
Sospese in quei sotterranei acquatici, fluttuavano le forme delle balene madri allattanti, e di quelle che per l’enorme volume parevano prossime a divenir tali.
Uno di questi piccoli neonati, che da certi bizzarri indizi non pareva avesse più di un giorno, poteva misurare qualcosa come quattordici piedi di lunghezza e sei di circonferenza. Era un po’ vispo, benché il suo corpo non paresse ancora del tutto ristabilito da quella penosa posizione che tanto recentemente aveva occupato nel reticolo materno, dove, con la testa vicino alla coda e bell’e pronta per il balzo finale, la balena non ancora nata se ne sta ricurva come un arco tartaro. Le delicate pinne laterali e le palme della coda conservavano con molta freschezza il rugoso aspetto spiegazzato delle orecchie di un bambino giunto allora da un altro mondo. Sereno stava poppando e ci guardava e pareva che ancora si pascesse di una qualche reminiscenza ultraterrena.
Lenza, lenza! gridò Quiqueg, sporgendosi sul capo di panda. “Lui preso, lui preso!” – “Chi preso lui? Chi colpito?” -“Due balene, una grande, una piccola!”
Che cosa hai combinato? – chiese Starbuck.
“Guardare qui” disse Quiqueg indicando in basso.
Come quando la balena colpita, che ha fatto srotolare dalla tinozza centinaia di tese del cavo della lenza, dopo essersi immersa dal profondo torna alla superficie e si vede la lenza a spirale che si allenta e risale lieve, così ora Starbuck vide le lunghe spire del cordone ombelicale di Madame Leviatano, e tramite loro il balenino che pareva ancora allacciato alla mamma. Non di rado, nelle vicissitudini fulminee della caccia, questa lenza naturale, libera all’estremità materna, si va a imbrogliare in quella di canapa, cosicché il balenino resta accalappiato.
Alcuni dei più gelosi segreti del mare parvero allora rivelarsi a noi in questo stagno incantato e vedemmo i giovani amori leviatanici nell’abisso.
E cosi, benché circondate da cerchi e cerchi di costernazione e spavento delle balene druggate, queste imperscrutabili creature nel calmo centro si dilettavano senza paura a tutte le occupazioni della pace, e si abbandonavano serenamente in amplessi e in allegrezza.
In cavalleresca scorta alla schiera di femmine, si poteva invariabilmente vedere un maschio di statura adulta e il contrasto tra questo ottomano e le sue concubine colpisce, perchè mentre lui è sempre delle maggiori proporzioni leviataniche, le signore, anche se sviluppatissime, non superano un terzo del volume di un maschio di corporatura media.
Ma lo spettacolo delle balene druggate in furore, che ogni tanto si scagliavano ciecamente per i cerchi, era nulla di fronte a ciò che infine ci toccò vedere. Usa talvolta, quando si è fatta presa su di una balena poderosa e agile fuor del comune, cercare di tagliarle i garretti, per così dire, recidendole o rovinandole il suo gigantesco tendine caudale. Ciò si fa lanciandole una vanga da squartamento dal manico corto a cui è assicurato un cavo per recuperarla. La nostra balena ferita dalla vanga adesso, nell’inaudito supplizio della ferita, si avventurava nei cerchi rotanti del branco in cui incuteva un grande orrore: lo spettacolo era orrendo.
Poi ci accorgemmo che, per uno degli incredibili accidenti della caccia, la balena s’era imbrogliata nella lenza del rampone che rimorchiava, e di più stava fuggendo con la vanga da squartamento in corpo e, mentre l’estremità libera del cavo attaccato a quest’arma s’era imbrogliata solidamente intorno alla coda nel groviglio della lenza, la vanga s’era sconficcata dalla carne. Cosicchè, soffrendo da impazzire, la balena si dibatteva nell’acqua, scuotendo violentemente la coda flessibile e vibrando intorno la vanga affilata, da cui ferite e strage tra le compagne.
Questo fatto terribile parve riscuotere l’intero branco dall’immobilità della paura. Poi il gran lago cominciò a gonfiarsi e ad agitarsi via via e le camere sottomarine, nuziali e infantili, svanirono; in orbite sempre più ristrette le balene dei cerchi più centrali cominciarono a nuotare in densi gruppi. Sì, la lunga calma se ne andava. Istantaneamente Starbuck e Quiqueg si scambiarono i posti: Starbuck a poppa. “Remi! Remi!” sussurrò con forza, prendendo il governo – “Impugnate, stringete i remi, e aggrappatevi all’anima, ora, forza! Mio Dio! marinai, attenti!”.
La schiera delle balene piombò con gran tumulto nel centro più interno come se volessero ammucchiarsi in un’unica montagna.
La lancia stava per venire schiacciata tra due enormi masse nere che lasciavano solo un angusto Bosforo tra la loro lunghezza. Ma con uno sforzo disperato c’infilammo in un’apertura momentanea ma poi dovemmo ritirarci rapidamente, cercando nello stesso tempo con ansia un’altra uscita. Ce la cavammo finalmente per il rotto della cuffia con incredibilmente solo la perdita del cappello di Quiqueg.
II risultato di questa calata illustrò in certo modo quel sottile detto della baleneria: tante più balene, tanto meno pesce. Di tutte quelle druggate, da noi e dalle altre lance, soltanto una venne catturata. Le altre riuscirono a fuggire per il momento, ma soltanto per farsi prendere, come si vedrà, da un altro legno che non fu il Pequod.
CAPITOLO LXXXIX
PESCE LEGATO E PESCE LIBERO
Accade sovente che, quando parecchie navi incrociano insieme, una balena venga colpita da una delle navi, poi possa fuggire e venire catturata da un’altra nave.
Spesso tra i pescatori si scatenerebbero le liti più violente se non ci fossero alcune leggi universali e indiscusse, scritte e non scritte, che si applicano in tutti i casi.
Queste leggi tanto sono concise che potrebbero venir incise su un mezzo soldo della regina Anna o sulla punta di un rampone, e portate intorno al collo.
Un Pesce Legato appartiene alla parte che lo lega.
Un Pesce Libero è giusta preda per chiunque riesce a prenderlo per primo.
Primo: Che cos’è un Pesce Legato? Vivo o morto, un pesce si dice tecnicamente legato quando sia unito a una nave o a una lancia occupata, e che con un qualsiasi mezzo sia del tutto sotto controllo dell’occupante o degli occupanti: un albero, un remo, un gherlino, un filo di telegrafo, o un refolo di ragnatela, fa lo stesso.
Qualcosa come cinquant’anni fa venne discusso in Inghilterra un curioso caso di appropriazione di balena. La parte lesa dichiarò che, dopo una difficile caccia nei mari del nord, quando proprio erano riusciti a ramponare il pesce, erano stati costretti sotto pericolo di vita ad abbandonare non soltanto il pesce ma anche le lenze e persino la lancia. In seguito gli accusati (l’equipaggio dell’altra nave) si erano imbattuti nella balena e l’avevano colpita, uccisa, presa e finalmente fatta propria, sotto gli occhi della parte lesa. E quando questi, poi tratti in giudizio avevano ricevuto rimostranze, il capitano aveva schioccato le dita in faccia alla parte lesa, dichiarando che per celebrare l’impresa avrebbe anche trattenuto la lenza, i ramponi e la lancia rimasti attaccati alla balena al momeno della cattura.
Avvocato degli accusati era il signor Erskine; Lord Ellenborough il giudice. Nel corso della difesa, l’acuto Erskine procedé ad illustrare il suo assunto, citando un recente caso d’adulterio, dove un signore, dopo aver cercato invano di frenare la depravazione della moglie, aveva alla fine abbandonata costei nei mari della vita, ma nel corso degli anni, pentendosi di questo passo, aveva iniziato una causa per riaverne il possesso. Erskine era in quel processo l’avvocato della parte avversa, e l’aveva difesa sostenendo che, quantunque quel signore avesse originariamente ramponato la signora e l’avesse una volta avuta legata a sé e che soltanto a motivo della tendenza ad immergersi nella depravazione l‘avesse alla fine abbandonata, pure abbandonata l’aveva, cosicché era divenuta Pesce Libero e perciò, quando un successivo signore l’aveva ramponata, la signora era diventata proprietà di quest’altro signore insieme a qualunque rampone si fosse potuto trovare nel suo corpo. Nel caso presente, Erskine sosteneva che gli esempi della balena e della signora erano l’un l’altro illustrativi.
Sentite debitamente queste ragioni e le ragioni avverse, il dotto giudice decretò in termini precisi ciò che segue: quanto alla lancia la concedeva alla parte lesa, poiché questi l’avevano abbandonata soltanto per aver salva la vita; ma quanto alla balena, ai ramponi e alla lenza contesi, tutto ciò apparteneva agli accusati; la balena, perché era un Pesce Libero al momento della cattura finale, e i ramponi e la lenza perché, quando il pesce si era allontanato portandoli via, esso pesce aveva acquistato la proprietà di questi oggetti e perciò chiunque in seguito l’avesse preso avrebbe avuto diritto ad essi.
Che cos’altro sono i Diritti dell’Uomo e le Libertà del Mondo, se non Pesce Libero? Le teste e le opinioni di tutti gli uomini? Il principio della libertà religiosa in essi? I pensieri dei parolai per la loro predicazione frodatrice? Che cos’è questo gran globo stesso altro che un Pesce Libero?
E tu, lettore, che altro sei se non un Pesce Libero o anche un Pesce Legato?
CAPITOLO XCIII
IL NAUFRAGO REIETTO
Nelle navi baleniere l’equipaggio non scende mai tutto nelle lance. Rimangono a bordo alcuni marinai detti guardanave, la cui mansione è di manovrare iI bastimento mentre le lance inseguono la balena. In generale, i guardanave sono tipi altrettanto in gamba che gli uomini degli equipaggi. Ma se accade che si trovi a bordo un essere troppo esile o impacciato o timido, è sicuro che costui finisce come guardanave. Così era accaduto sul Pequod al giovanissimo negro soprannominato Pippin, e, per abbreviazione, Pip. Povero Pip! lui così piacevole col suo tamburello!
Pip, benchè avesse un cuore troppo tenero, era in fondo molto brillante, di quella brillantezza piacevole, geniale e spensierata che è peculiare della sua razza, una razza che si sa godere sempre il tempo libero e le feste con un gusto più schietto e spensierato di qualunque altra.
Avvenne che il poppiere di Stubb si slogò una mano in modo da dover restare per un po’ a riposo, e al suo posto venne temporaneamente destinato Pip.
Ora, alla prima calata in acqua per la caccia si era mostrato molto nervoso ma se l’era cavata, ma alla seconda calata, la lancia filò fin sopra la balena e, ricevuto il ferro scagliato, il pesce diede il suo solito colpo secco che per caso stavolta si trovò proprio sotto il banco del povero Pip. L’involontario terrore di quell’attimo fece saltare Pip, remo in mano, sul bordo della lancia, in modo tale che, venendogli innanzi al petto la lenza lanciata e fortemente tesa, egli la spinse fuoribordo, tanto veemente che alla fine piombò in acqua e, sfortuna, si trovò imbrogliato in essa. In quell’istante la balena ferita scattò in una corsa irresistibile, la lenza si tese rapidissima, ed ecco, il povero Pip venne ad emergere tutto schiumante contro il passacavi della lancia trascinatovi spietatamente dalla lenza che gli si era attorcigliata parecchie volte intorno al petto e al collo.
Tashtego era ritto a prua. Ed era pieno del fuoco della caccia. E detestava Pip come pusillanime. Strappando dal fodero il coltello della lancia, ne alzò il taglio affilato sulla lenza e, volgendosi a Stubb, gli chiese: — Taglio? — Intanto la faccia bluastra e strozzata di Pip diceva chiaramente: “Ma taglia, in nome di Dio!”.
Tutto avvenne in un lampo. In meno di mezzo minuto tutta la faccenda fu finita: dannato, taglia! — ruggì Stubb; e cosi la balena fu perduta e Pip salvato.
Non appena si fu riavuto, il povero moretto venne assalito dagli urli e dalle esecrazioni di tutto l’equipaggio. Stubb con un tono semplice e un po’ ironico lo maledisse, ma poi prese a dargli buoni consigli. – “Tienti attaccato alla lancia, Pip, e, per Dio, stai attento, non ti raccolgo più se salti”.
Ma tutti siamo nelle mani degli dei, e Pip saltò ancora. Fu in circostanze molto simili alla precedente, ma questa volta non urtò la lenza col petto e così, quando la balena prese a fuggire, lui venne lasciato indietro nel mare, come il baule di un viaggiatore che ha fretta.
Era una giornata splendida, generosa e azzurra, il mare scintillante, calmo e fresco fino all’orizzonte.
Su dal centro dell’oceano, il povero Pip rivolgeva la testa crespa, ricciuta e nera, al sole, altro reietto solitario, anche se altissimo e splendido. Nessun coltello si era alzato quando così rapidamente egli era scivolato a poppa, Stubb era di schiena.
Ora, nel tempo calmo, nuotare in mare e altrettanto facile per un buon nuotatore che viaggiare, a terra, su una carrozza ben molleggiata. Ma la solitudine tremenda è insopportabile. L’intenso concentrarsi dell’io in mezzo a una simile spietata immensità, mio Dio, chi può esprimerlo?
Ma Stubb l’aveva davvero abbandonato al suo destino? No, perché nella sua scia c’erano due lance.
Ma avvenne che quelle lance, avvistando d’improvviso non lontano su un fianco alcune balene, virarono senza vedere Pip e si misero alla caccia. Inoltre, la lancia di Stubb era ormai molto lontana, e lui e tutto l’equipaggio erano intenti alla preda, sicché il giro d’orizzonte cominciò a crescere intorno a Pip disperatamente. Per il più puro dei casi la nave stessa alla fine venne a salvarlo, ma da allora il moretto girò per la coperta come un idiota, o almeno tale dicevano che fosse. Il mare aveva beffardamente sostenuto il suo corpo finito, ma annegato l’infinito della sua anima. Non affondato del tutto comunque, trasportato vivo, piuttosto, a meravigliose profondità, dove forme bizzarre dell’intatto mondo originario gli scivolavano di continuo davanti agli occhi passivi.
La Saggezza mostrava i tesori che aveva mantenuto sempre giovani dall’eternità. Pip aveva visto il piede di Dio sul pedale del telaio del tessitore e gli aveva parlato e perciò tutti lo chiamavano matto.
Così nella demenza, allontanandosi da ogni ragione mortale, l’uomo vagabondando giunge finalmente a quel pensiero celeste che per la ragione è assurdo e delirante e si sente, al di là del bene e del male, intransigente e indifferente come il suo Dio.
CAPITOLO XCIX
IL DOBLONE E I SUOI SERMONI
Achab soleva passeggiare sul cassero avanti e indietro facendo virate regolari alle due estremità, la chiesuola e l’albero di maestro. Sprofondato in se stesso, Achab aveva l’abitudine di fermarsi a turno nei due luoghi e starsene a fissare stranamente l’oggetto che gli si trovava davanti.
Ma un mattino Achab, mentre stava per voltare le spalle all’albero dov’era inchiodato il doblone, parve interessarsi come mai prima d’allora alle figure e iscrizioni bizzarre che v’erano coniate.
Ora, questo doblone era d’oro purissimo, vergine. E, quantunque fosse ora inchiodato in mezzo a tutta la ruggine delle chiavarde di ferro e al verderame delle caviglie, pure, immacolato e immune da ogni bruttura, conservava tuttora la sua lucentezza di Quito.
Per quanto i marinai siano sfrenati nei loro modi marinareschi, tuttavia gli uomini del Pequod, dal primo all’ultimo, lo veneravano come il talismano della Balena Bianca.
Sull’orlo rotondo portava le lettere:
REPUBLICA DEL ECUADOR: QUITO
Circondata da queste lettere si vedeva l’immagine di tre vette delle Ande: sulla prima sorgeva una fiamma; una torre, sull’altra; sulla terza, un gallo che cantava; mentre, arcuato sul tutto, appariva un segmento dello Zodiaco a scomparti.
Dinanzi alla moneta equatoriale Achab, non senza essere notato da altri, s’era ora fermato. “C’e sempre qualcosa di egoistico nelle vette e nelle torri e in tutte le cose grandiose e sublimi. Ecco qui: tre picchi superbi come Lucifero. La torre possente, quella è Achab, il vulcano, quello è Achab, l’uccello coraggioso, intrepido e vittorioso, anche lui è Achab: tutti sono Achab, e quest’oro rotondo non è che l’immagine del globo più rotondo, il quale, simile allo specchio del mago, non fa altro che rispecchiare a ciascuno l’immagine del suo io misterioso. Qui il sole pare abbia un volto splendente ma, guarda, entra nel segno delle tempeste, l’equinozio, mentre solo sei mesi prima usciva da un precedente equinozio nell’Ariete: di tempesta in tempesta, e così sia dunque. Nato nelle doglie, è appropriato all’uomo vivere nelle sofferenze e morire tra i tormenti. Così sia, allora. Qui per il dolore c’è pane per i suoi denti. Così sia dunque.”
Starbuch, appoggiato contro la murata, mormorò tra sé: “Pare certo che su quell’oro l’artiglio di qualche diavolo abbia lasciato l’impronta. Il vecchio sembra leggervi il terribile scritto di Baldassarre.
Ecco, vedo sulla moneta le tre vette nel cielo che paiono quasi la Trinità e così in questa valle di morte pare che Dio sia con noi e che il sole della giustizia ancora splenda, faro e speranza. Ma il gran sole non è fisso, e scendendo la mezzanotte, è vano cercarlo. Questa moneta parla con saggezza, dolcezza e verità, lasciamola perdere, non voglio che la verità mi inganni causandomi agitazione.”
“Eccolo là, il vecchio Mogol!”, disse tra sé Stubb, “Se l’è osservata di nascosto, ed ecco Starbuch che se ne allontana, e tutti e due hanno un muso lungo che ad occhio direi almeno di due tese, e solo per aver guardato una moneta d’oro. Che cosa ci sarà mai in questo doblone dell’Ecuador di così terribilmente eccezionale? Perbacco, gli dò un’occhiata anch’io” … “e, sì, ci sono segni e meraviglie davvero, è quello che i libri chiamano almanacco, allora guardo il mio che ho sotto coperta, il calendario del Massachusets… Sì, vedo segni e meraviglie e il sole è sempre in mezzo a loro, ma ecco il libro.
Doblone, questo tuo Zodiaco, è la vita dell’uomo in un solo capitolo: e adesso voglio leggerla, qui sul libro. Su, Almanacco! Cominciamo. Ecco Aries o il Montone, bestia libidinosa che ci genera; poi Taurus, il Toro, che per prima cosa ci dà una cornata; poi Gemini o i Gemelli, vale a dire la Virtù e il Vizio: noi cerchiamo di raggiungere la Virtù, quando, ecco! arriva Cancer, il Granchio, che ci riporta indietro; e qui, allontanandoci dalla Virtù, ecco Leo, un Leone ruggente, ci attraversa la strada, dà dei morsi feroci e tira arcigno una zampata; noi fuggiamo e salutiamo Virgo, la Vergine! è il nostro prima amore, ci sposiamo e ci crediamo per sempre felici, quando trac! viene Libra o la Bilancia, la felicita pesata è trovata mancante e, mentre ci piangiamo sopra, Dio mio! che salto facciamo quando Scorpio o lo Scorpione ci punge alle spalle; curiamo la ferita quando zac! ci arrivano addosso le frecce: il Sagittarius o l’Arciere che si diverte. Mentre ci caviamo le frecce, in guardia! ecco l’ariete da assedio, Capricornus o il Caprone, che arriva scagliato a tutta forza e noi schizziamo spinti a testa avanti, mentre Aquarius, il Portatore d’acqua, versa tutto il suo diluvio e c’infradicia; e per finire con Pisces, o i Pesci, … addormentiamoci, dormiamo…
Ecco un sermone, questo, che è scritto nell’alto dei cieli e il sole lo attraversa ogni anno e pure ne esce sempre sano e ben disposto.
Questo doblone è l’ombelico della nave, e tutti fanno fuoco e fiamme per staccarlo. Pure, se rimane qui, è cattivo segno lo stesso, perche quando c’e qualcosa inchiodato all’albero, vuol dire che tutto va a rotoli. Ah! Ah! vecchio Achab! La Balena Bianca, lei, t’inchioderà! Alla resurrezione, quando verranno a ripescare questo vecchio albero e ci troveranno un doblone con ostriche attaccate al posto della corteccia ruvida, diranno -come è arrivato qui? – Oh, l’oro! preziosissimo oro! Il grande avaro verde ti aggranfierà presto!”
CAPITOLO C
GAMBA E BRACCIO
(Il Pequod di Nantucket incontra il Samuel Enderby di Londra)
— Oh! Oilà! della nave! Avete visto la Balena Bianca?
Così gridò Achab, dando la voce alla nave che batteva bandiera inglese e che ci passava a poppa. Megafono alla bocca, il vecchio era in piedi nella sua lancia di comando issata al giardinetto con la gamba d’avorio ben in vista al capitano straniero. L’inglese era un uomo grassoccio dall’aria bonaria con una gran giubba di pesante stoffa blu che gli ondeggiava intorno e una manica di questa fluttuava all’indietro come quella ricamata di un ussaro.
-Avete visto la Balena Bianca? –
-Vedete questo? e, cavando dalle pieghe un uncino nascosto, iI capitano della nave inglese alzò un candido braccio d’osso di capodoglio che terminava in una testa di legno come una mazza.
—Armate la lancia — gridò Achab con impeto e sbatacchiando i remi che aveva intorno. — Pronti ad ammainare! – In meno di un minuto, senza che lasciasse il piccolo legno, lui e il suo equipaggio vennero calati in mare e furono presto sottobordo della nave straniera.
Achab, essendo privo di una gamba ed essendo naturalmente la nave straniera del tutto sprovvista dell’opportuno meccanismo, che invece c’era sul Pequod appositamente costruito, si trovò nell’imbarazzante condizione di un goffo uomo di terra che adocchia smarrito un’incerta e mutevole altezza che difficilmente può sperare di raggiungere. Per di più le grandi ondate ora sollevavano la lancia in alto verso le murate e ora la lasciavano cadere di colpo fino quasi alla profondità del paramezzale. Dalla nave calarono solleciti le impossibili scalette ma quest’imbarazzo non durò che un istante, poiché il capitano straniero, accorgendosi con un’occhiata di come stavano le cose, gridò: — Capisco, capisco! Ohe! Svelti, ragazzi, calate il paranco da squartamento! –
Come la fortuna volle, quelli della nave avevano affiancata allo scafo una balena catturata un giorno o due prima e i grandi paranchi pendevano ancora sospesi e il massiccio uncino del grasso, ora pulito e asciutto, era ancora attaccato all’estremità. E così Achab, dopo aver penzolato nell’aria, toccò delicatamente il cassero.
Col braccio d’avorio simpaticamente teso a dare il benvenuto, l’altro capitano si fece avanti, e Achab, sporgendo la gamba d’avorio e incrociandola al braccio (come due ossi di pesce spada), esclamò con la sua voce di tricheco: “Ma sì, ma sì, valente amico, stringiamoci gli ossi! un braccio e una gamba! un braccio che non può più piegarsi, vedo; un braccio e una gamba che non può più correre! Dov’è che hai visto la Balena Bianca? quanto tempo fa?
— La Balena Bianca, — disse l’inglese puntando a oriente il braccio d’avorio e dandovi un’occhiata compassionevole per il lungo, come se fosse un telescopio — -là l’ho vista, sull’equatore, la stagione scorsa. –
– E ti ha portato via questo braccio, non è così? -chiese Achab – Com’è stato? –
— Era la prima volta in vita mia che l’incrociavo all’equatore. — incominciò l’inglese- Un giorno ammainammo dietro un branco di quattro o cinque balene, e la mia lancia fece presa. D’un tratto irrompe dal fondo del mare un’enorme balena possente, con una testa e una gobba bianche come il latte, tutta rughe e grinze.
— Era lei, era lei! — gridò Achab, dando fuori improvvisamente il fiato trattenuto -E con ramponi piantati vicino alla pinna di dritta-
— Si, sì, erano i miei, i miei ramponi; — grido Achab esultante — va’ avanti! –
— E allora, lasciatemi parlare- disse l’inglese, di buon umore — Be’, questo vecchio bisnonno con testa e gobba bianche si butta tutto schiuma nel branco e comincia a dare morsi furibondi alla lenza-.
— Sì, così! Voleva tagliarla, liberare il pesce preso; un suo vecchio sistema, lo conosco. –
— Come sia andata esattamente, — continuò il capitano dal braccio mozzo — non so, ma nel mordere, la lenza gli restò impigliata tra i denti, e in qualche modo fece presa. Al momento non ce ne accorgemmo, sicché, quando in seguito per ricuperare il cavo, patatrac! gli capitiamo proprio sulla gobba invece che su quella dell’altra balena, che intanto se ne andava a sopravvento, tutta coda. Visto come stavano le cose e che razza di balenona era — la più bella e la più grossa che abbia mai veduto, capitano, in vita mia — decisi di catturarla, a dispetto della rabbia furibonda che dimostrava. E pensando che quella lenza fortuita poteva liberarsi o che il dente in cui era impigliata potesse cedere (perche io ho un equipaggio diabolico per il tiro alla lenza); visto tutto ciò, dico, salto nella lancia del primo ufficiale, il signor Mounttop qui presente (a proposito, capitano: le presento Mounttop; Mounttop, il capitano); salto, come dicevo, nella lancia di Mounttop, che, dovete sapere, era allora a fianco a fianco con la mia, e, data mano al primo rampone, lo lancio spedito al vecchio bisnonno. Ma, misericordia! capitano — tuoni e fulmini, che roba — Il momento dopo, in un attimo, ero cieco come un pipistrello, da tutti e due gli occhi, sepolto e tramortito in una schiuma nera, e la coda della balena sporgeva lì fuori, perpendicolare nell’aria come un campanile di marmo. Rinculare non serviva, ma mentre cercavo a tastoni, in pieno mezzogiorno e con un sole che accecava come tanti gioielli, mentre cercavo a tastoni, vi dico, un altro rampone da gettare, viene giù la coda come una torre di Lima, mi taglia in due la lancia, ciascuna metà in pezzi e, pinne innanzi, tutta la gobba bianca rincula e passa in mezzo al relitto, come se fossero tanti trucioli e noi gettati in acqua. In quei terribili secondi, per evitare le sue frustate, cercai di aggrapparmi al rampone che gli avevo conficcato in corpo ma un’ondata feroce mi fece schizzar via e in quel momento il pesce con un gran balzo in avanti andò giù come un lampo e l’uncino, la lama del rampone maledetto, mi prese qui. — disse battendosi la mano giusto sotto la spalla —Sì, mi prese qui e mi trascinò giù nelle fiamme dell’inferno, mi pareva, quando tutt’a un tratto, ringraziando Iddio, la carne si squarciò davanti alla lama per tutta la lunghezza del braccio, il ferro mi uscì dal polso e tornai a galla-
— E l’hai ancora incontrato Moby Dick sulla tua strada? disse Achab —Sì, due volte – rispose il capitano inglese-.
— Ma non hai potuto far presa?
— Non ho voluto provare: non basta un braccio? che cosa farei senza quest’altro? E credo che Moby Dick più che azzannare trangugi.
– E una calamità Moby Dick! Quand’è che l’hai visto l’ultima volta? E che rotta faceva?…
— Benedetta l’anima mia, e maledetta quella del diavolo! — esclamò il dottor Bunger, chirurgo della nave che aveva operato il capitano inglese, e camminava curvo intorno ad Achab, fiutandolo come un cane in un modo bizzarro. — Il sangue di quest’uomo… portate il termometro! È al punto d’ebollizione! ha un polso che fa pulsare il tavolato! Signore! —disse estraendo una lancetta di tasca e avvicinandosi al braccio di Achab.
— Fermo! — ruggì Achab, sbattendolo contro la murata. Armate Ia mia lancia! che rotta faceva? –
– Dio buono! — esclamò il capitano inglese a cui la domanda era rivolta. Che cosa succede? Ma, sì, Moby andava a est, mi pare. Ma è matto il vostro capitano? — bisbigliò rivolto a Fedallah.
Ma Fedallah, portandosi un dito alle labbra, scavalcò la murata per mettersi al remo di governo della lancia, e Achab, tirando a sé il paranco da squartamento, ordinò ai marinai della nave di star pronti ad ammainare.
In un attimo era in piedi a poppa alla lancia e i marinai di Manila scattavano ai remi. Invano il capitano inglese lo salutò. Con la schiena alla nave straniera e il volto di sasso alla propria, Achab stette diritto e immobile fino sottobordo al Pequod.
CAPITOLO CVI
LA GAMBA DI ACHAB
Il modo precipitoso con cui il capitano Achab aveva lasciato il «Samuel Enderby» di Londra non era andato esente da una piccola violenza contro la sua persona. Si era appoggiato tanto energicamente sopra un banco della lancia che la gamba d’avorio
aveva ricevuto un urto quasi da frantumarsi e Achab aveva ritenuto che non era più possibile fidarsene interamente.
E in verità c’era poco da meravigliarsi che, con tutta la folle temerarietà che lo pervadeva, Achab talvolta dedicasse una sollecita attenzione alle condizioni di quell’osso morto su cui in parte poggiava. Una notte, non molto tempo prima che la nave salpasse da Nantucket, lo avevano trovato disteso a terra, prono e privo di sensi, poiché la gamba d’avorio, per qualche accidente sconosciuto e apparentemente inesplicabile e nemmeno immaginabile, si era dislocata con tanta violenza da ferirlo e quasi trapassarlo all’inguine come un palo. E non fu senza difficoltà estrema che l’atroce piaga si potè guarire completamente.
In quei momenti non aveva mancato d’immaginarsi, nella sua monomania, che tutta l’angoscia della sua attuale sofferenza fosse la conseguenza diretta di un dolore precedente. Achab pensava che tutti gli eventi tristi, così come ogni felicità, ne generano altri simili a loro allo stesso modo in cui il serpente velenoso perpetua la sua specie e l’uccello canterino la propria. Pensava poi che gli antenati e i discendenti del Dolore vanno ben più in là degli ascendenti e dei discendenti della Gioia. E, per non parlare di quello che si può dedurre da certi insegnamenti canonici, che certi godimenti naturali di questo mondo non avranno prole nell’altro, ma, al contrario, saranno seguiti non dalla gioia ma dalla sterilità di tutta la disperazione delle pene infernali, e così pure alcune peccaminose sofferenze terrene genereranno in abbondanza oltre la tomba una progenie di dolori eternamente crescente. Pensava, nella sua consueta tetraggine, che, ad un’analisi approfondita della cosa, sembra che una differenza però ci sia e, si diceva, che anche le più sublimi felicità terrene covano sempre in sé una certa meschinità che le svilisce, mentre in fondo tutti i dolori veri hanno un mistico significato e in certe persone una grandiosità arcangelica. Rintracciare le genealogie di questi alti dolori mortali ci conduce, infine, alle primogeniture prive di origine degli dèi; in modo che, di fronte a tutti i Soli allegri e danzanti e alle tonde Lune equinoziali dai suoni armoniosi, bisogna per forza riconoscere questo, che gli dèi stessi non sono sempre felici.
Achab, passando poi a solidi argomenti pratici, chiamò il maestro d’ascia e gli ordinò di mettersi senza indugio a fare un’altra gamba e incaricò gli ufficiali di porre a sua disposizione tutte le assi e i travicelli di avorio di mascella (di capodoglio) che fossero stati accumulati sinora nel viaggio: così avrebbe potuto fare una scelta accurata del materiale più saldo e più schietto. Dopo di che, il maestro d’ascia ebbe ordine di finire la gamba quella notte stessa e di provvedere a tutti gli accessori, indipendentemente da quelli che appartenevano alla gamba screditata ancora in uso. Inoltre, la fucina della nave presente in stiva venne issata fuori in coperta e fu ordinato al fabbro di mettersi senz’altro a fucinare qualunque arnese di ferro potesse occorrere.
CAPITOLO CVII-CVIII
IL MAESTRO D’ASCIA
Siediti come un sultano tra le lune di Saturno e considera in modo altamente astratto l’uomo da solo: ti sembrerà un prodigio, una magnificenza, una sciagura. Ma lassù dallo stesso pulpito prendi l’umanità in massa e, nella maggior parte, ti sembrerà un’accozzaglia di duplicati superflui, sia contemporanei che ereditari.
Ma, per quanto umile e ben lontano dal fornire un esempio di alta astrazione umana, il maestro d’ascia del Pequod non era un duplicato, ragion per cui lui si avanza ora in persona sulla scena. Per non parlare della sua abilità nelle mansioni ordinarie, riparare lance sfondate e pezzi spaccati delle alberature, rifoggiare le pale di remi mal fatti, inserire occhi di bue o travetti forati nel ponte o caviglie nelle tavole laterali, e altri lavori svariati più direttamente attinenti alla sua professione, ma in più lui era decisamente esperto anche in ogni sorta di mansioni tra loro diversissime ed insieme utili ed estrose.
L’unica grande scena, su cui recitava tutte le sue molteplici parti tanto diverse, era il banco a morsa, un tavolone rozzo e pesante provvisto di varie morse di grandezze differenti, sia di ferro che di legno.
Un vogatore si sloga il polso? Il maestro escogita una lozione lenitiva. Stubb moriva dalla voglia di avere stelle vermiglie dipinte sulla pala di ciascuno dei suoi remi: il maestro, serrando i remi nella grossa morsa di legno, fornì la simmetrica costellazione. A un marinaio viene lo ghiribizzo di portare orecchini d’osso di pescecane: il maestro gli fora le orecchie. Un altro ha mal di denti: il maestro tira fuori le tenaglie e, battendo una mano sul banco, gli dice di sedersi lì; ma il disgraziato a metà dell’operazione recalcitra in modo impossibile e allora, facendo girare il manico della morsa di legno, il maestro gli fa segno di ficcarci dentro la mascella, se vuole che gli cavi il dente.
Così, questo maestro d’ascia era preparato in tutto e ugualmente indifferente e privo di rispetto per tutto. Si può dire che facesse parte di quella generale ottusità impersonale (da sembrare una cosa sola con l’ottusità) che riscontriamo nel mondo visibile che, seppure sia sempre attivo in innumerevoli modi, pure mantiene una grande impassibilità anche di fronte a chi scava le fondamenta di una cattedrale e che quell’ottusità tende ad ignorare.
Il suo cervello estroso pareva confluito nelle sue mani. I denti lui li considerava pezzetti d’avorio; le teste, nient’altro che bozzelli di gabbia; persino gli uomini stessi come argani. Era simile a uno di quegli irragionevoli e pur utilissimi strumenti Sheffield “multum in parvo”, che hanno l’aspetto esteriore, sebbene un po’ gonfio, di un comune coltello da tasca, ma poi contengono non soltanto lame di varia grandezza, ma cacciaviti, pinzette, punteruoli, penne, regolo, limette per unghie e sgorbie. Tuttavia questo maestro multifunzione non era solo una macchina automatica e se non aveva un’anima ordinaria, aveva dentro di sé qualcosa di sottile che ne faceva le funzioni, qualche goccia di essenza di mercurio o di nitrato di ammonio o di corna di cervo, nessuno può dirlo.
Parla il MAESTRO D ASCIA riprendendo il lavoro:
-E qui c’è la gamba dell’airone! lunga e magra, sicuro! Be’, per tanta gente un paio di gambe dura tutta la vita; dev’essere perché le adoperano con riguardo come una vecchia signora dal cuore tenero con i suoi cavalli da tiro vecchi e grassocci. Ma Achab, oh, lui è un cocchiere difficile! Una gamba l’ha fatta fuori e l’altra storpiata per la vita, e adesso consuma le gambe d’osso a cataste. Olà, fabbro Smut! sotto con quelle viti, che dobbiamo aver finito prima che il tizio della resurrezione venga a raccogliere con la tromba tutte le gambe, vere o finte, come i birrai vanno in giro a raccogliere i barili di birra per tornare a riempirli-
CAPITOLO CX
QUIQUEG NELLA BARA
Il mio povero compagno pagano e stretto amico del cuore, Ouiqueg, si prese una febbre che lo portò a due passi dalla fine infinita.
E deperì e deperì in quei pochi lentissimi giorni, finché non parve restar di lui molto più dello scheletro e dei tatuaggi. E, come cerchi nell’acqua che indebolendosi s’espandono, così pareva che i suoi occhi crescessero all’ingiro, come gli anelli dell’Eternità. Nessun caldeo o greco moribondo ebbe pensieri più alti e più santi di quelli le cui ombre misteriose si vedevano passare sul volto del povero Quiqueg mentre giaceva tranquillo nella branda oscillante e il mare mosso pareva cullarlo leggero all’ultimo riposo e la marea invisibile dell’oceano lo sollevava sempre più alto verso il suo destino nel cielo.
Chiamò a sé uno dell’equipaggio, nel grigio quarto di turno della diana mentre il giorno stava allora sorgendo e, prendendogli la mano, gli disse che a Nantucket aveva visto per caso certe piccole canoe di legno scuro come il ricco legno da guerra della sua isola nativa, e domandando aveva saputo che tutti i balenieri che morivano a Nantucket venivano composti in quelle nere canoe. Disse che l’idea di venir trattato così gli era piaciuta molto, poiché non era diversa dall’usanza del suo popolo: imbalsamato un guerriero morto, lo si distendeva nella canoa e lo si abbandonava così alla deriva tra gli arcipelaghi stellari, perché non soltanto essi credono che le stelle siano isole, ma che lontano, oltre tutti gli orizzonti visibili, i loro dolci mari sconfinati si mescolino ai cieli azzurri e diano così origine ai frangenti bianchi della Via Lattea.
Ora, non appena questo strano caso si seppe a poppa, il maestro d’ascia ricevette ordine di fare il volere di Quiqueg, qualunque cosa potesse implicare. C’era a bordo un certo vecchio legname barbarico, color di bara, tagliato durante un lungo viaggio precedente dai boschi aborigeni delle Isole Laccadive, e venne raccomandato che la bara si facesse di quelle tavole scure. Il maestro d’ascia, non appena avvertito dell’ordine, dato mano al regolo, si recò senz’altro nel castello con tutta l’indifferente sollecitudine del suo carattere e prese con gran cura le misure di Quiqueg, segnando regolarmente col gesso la sua forma ogni volta che spostava lo strumento.
Sporgendosi dalla branda, Quiqueg scrutò a lungo e attento la bara. Poi chiese il rampone, ne fece togliere l’impugnatura di legno e poi porre il ferro nella cassa insieme a un remo della sua lancia.
Inoltre, ancora a sua richiesta, vennero disposte torno torno lungo le fiancate delle gallette e una fiasca d’acqua dolce alla prua, insieme a un sacchetto di terra legnosa raschiata in fondo alla stiva. Fattosi arrotolare come cuscino un pezzo di tela da vela, Quiqueg allora supplicò di deporlo nel suo ultimo letto, per poterne sperimentare le comodità, se ne aveva. Giacque là senza movimento alcuni minuti, poi disse a un tale di andargli a prendere nel sacco il suo piccolo dio Jogio. Poi, incrociando le braccia sul petto, con Jogio in mezzo, chiese che gli mettessero sopra il coperchio (boccaporta la chiamava lui). L’estremità di testa della bara si ripiegava su una cerniera di cuoio, e lì giacque Quiqueg mostrando poco più del suo volto pacato. «Rarmai» («Andrà bene»; E’ comodo»), mormorò alla fine, e fece segno che lo rimettessero nella branda.
Ma prima che questo avvenisse Pip, il buon matto gentile, che furtivo si era aggirato per tutto il tempo lì attorno, si avvicinò e prese la mano di Quiqeg tra i singhiozzi, tenendo nell’altra mano il tamburello. “Povero giramondo, non la finirai mai con questo faticoso girovagare? Dove te ne vai adesso? Ma se le correnti ti portano a quelle dolci Antille dove le spiagge sono battute solo dalle ninfee, me la fai una piccola commissione? Domanda di un certo Pip che ormai manca da molto ed io credo che sia in quelle lontane Antille. Se lo trovi allora consolalo perché deve essere tanto triste. Guarda, ha lasciato qui il suo tamburello … e mentre tu muori suonerò per te…. Tu muori da valoroso, Pip è morto da codardo, non batterò il tamburello per lui, è saltato dalla lancia, vergogna, vergogna …
Ma Quiqueg, ora che aveva fatto in apparenza ogni preparativo per la morte, ora che la bara si era dimostrata ben adatta, lui, si riprese d’improvviso.
Diceva che aveva cambiato idea perché si era dimenticato di sbrigare una faccenda a terra… Ma, in una parola, Quiqueg pensava che, se un uomo si cacciava in testa di vivere, la semplice malattia non lo poteva uccidere ma soltanto lo poteva una balena o una burrasca o qualche forza distruttrice di questo genere, violenta, irresistibile e bruta.
Saltò in piedi d’improvviso, spalancò le braccia e le gambe, si diede una buona stirata, sbadigliò un istante e poi, balzando in testa alla sua lancia issata e bilanciando un rampone, si dichiarò pronto a combattere.
Con una stravagante bizzarria, ora egli adibì la bara a cassetta da marinaio e, vuotandoci dentro il sacco di tela degli abiti, ve li ordinò. Trascorse molte ore libere a intagliarne il coperchio con ogni sorta di figure e disegni grotteschi, e pareva che con ciò cercasse di riprodurre, nella sua rozza maniera, parti dell’intricato tatuaggio del suo corpo. Questo tatuaggio era stato opera di un defunto profeta e veggente della sua isola, che, quasi come lo Zodiaco del doblone d’oro e le scritte dell’almanacco di Stubb, per mezzo di quei segni geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria completa dei cieli e della terra e un mistico trattato sull’arte di conseguire la Verità. Così Quiqueg era nella sua persona stessa un enigma da spiegare, un’opera meravigliosa in un unico volume, i cui misteri però neanche lui sapeva leggere benché sotto vi pulsasse il suo cuore vivo: questi misteri erano quindi destinati a perire alla fine insieme alla pergamena vivente dov’erano tracciati e così restare insoluti fino all’ultimo.
E doveva essere stato questo pensiero che suggerì ad Achab quella sua fiera esclamazione, un mattino mentre si voltava ad osservare il povero Quiqueg: “Oh, diabolico supplizio degli dèi.”
8. Continua
La traduzione del romanzo di Herman Melville, di cui Succedeoggi sta pubblicando un ampio sunto, è di Alessandro Macchi. Le fotografie originali sono di Roberto Cavallini.