Un libro a cura di Gloria Manghetti
La “religione” di Giuseppe De Robertis
Ventuno testi “eccellenti” dedicati al grande critico, pubblicati nel 1955 sulla «Fiera Letteraria», ora raccolti in volume. Un omaggio al Maestro, studioso degli Antichi e dei Moderni, che con la sua “critica stilistica” ha saputo leggere il mondo morale dell’autore e del suo tempo
Oggi nel mondo letterario si parla poco di Giuseppe De Robertis (Matera 1888 – Firenze 1963), forse perché il mestiere del critico è laborioso quanto appartato; ne era egli stesso consapevole, e di proposito stava un passo indietro rispetto agli scrittori con cui spesso si accompagnava. «Siete voi scrittori che dovete parlare, non noialtri critici… Non facciamo confusione» disse, quasi in collera a Giovanni Battista Angioletti che lo esortava a farsi intervistare da un giornalista straniero.
Per saggiarne l’originalità interpretativa e il ruolo che ebbe nella cultura italiana della prima metà del Novecento, per riflettere sulla silente quanto attuale eredità, l’occasione ci è data dalla casa editrice, diretta dai fondatori di questo web magazine, che nel proprio progetto intende, tra altre iniziative, riportare al centro dei dibattiti letterari la funzione dei critici. Sono stati stampati saggi di Geno Pampaloni, Carlo Bo, Leone Piccioni.
L’elegante tascabile in sedicesimo, che nella copertina unisce l’essenzialità alla nota ricercata dei colori, s’intitola La religione delle lettere. L’omaggio della «Fiera letteraria» a Giuseppe De Robertis, a cura di Gloria Manghetti (Roma, Succedeoggi Libri, 2024). Il libro per la singolarità del manufatto si offre a più di una focalizzazione. Alla prima ho già fatto riferimento: riportare alla luce un critico di rango; la particolarità è che qui a parlarne sono ventuno personaggi che su «La Fiera letteraria» del 3 aprile 1955 dedicano al sessantasettenne De Robertis una galleria di scritti: un genere di tributo che l’autorevole settimanale diretto in quegli anni da Vincenzo Cardarelli usava ospitare. Gli autori, alcuni molto noti, ciascuno testimone di un impegno intellettuale di prim’ordine, sono il già ricordato Angioletti, Luigi Baldacci, Carlo Bo, Lanfranco Caretti, Carlo Cassola, Giulio Cattaneo, Emilio Cecchi, Enrico Falqui, Gianfranco Folena, Mario Fubini, Nicola Lisi, Giorgio Luti, Mario Luzi, Gianna Manzini, Adelia Noferi, Alessandro Parronchi, Enrico Pea, Leone Piccioni, Ildebrando Pizzetti, Adriano Seroni, Giuseppe Ungaretti.
Si tratta non solo di voci differenti: poeti, narratori, critici letterari, un compositore, ma anche di generazioni diverse: chi guarda a De Robertis come al direttore della «Voce letteraria» (1914-1916), è il caso del coetaneo Ungaretti e di Pea che da allora ne sarebbero stati intimi amici; chi lo celebra, senza risparmiargli piccole stoccate, come studioso nella Firenze degli anni Trenta tra l’esperienza di «Pegaso» e di «Pan»; chi ne scrive in qualità di allievo, perché ‒ nelle parole di Bo ‒ fu «un Maestro in grado di avere una scuola, di lasciare un segno»; e di rinforzo Cecchi paragona la passione delle sue lezioni a quella del collega Giorgio Pasquali. Alcuni scelgono la forma breve della lettera augurale, altri del ricordo, altri ancora ne tratteggiano la sua idea di critica. La pluralità dei punti di vista e delle tonalità tuttavia convergono sulla «estrosa vivacità intellettuale» (p. 55), sul rigore morale dell’uomo, docile ma per nulla immune alle sofferenze imposte dai tempi storici e alle ostilità dell’accademia, capace «nella vita di lavare con il suo senso di umanità le offese, la lotta, la miseria degli altri» (p. 40), trovando proprio nella letteratura, e in certe opere o singoli capitoli, un farmaco capace di curare le pene fisiche e della psiche. Viene chiarito che amava poco teorizzare a priori, piuttosto, partendo da un’intima passione per la poesia e la prosa, sosteneva che di un autore bisognava aver letto l’intera produzione per poi indagarne le dinamiche interne: era quanto aveva fatto con gli scrittori, tanto antichi che contemporanei, che sentì più vicini: Petrarca, Poliziano, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Campana, Ungaretti e Montale. Per venire a un esempio concreto, Seroni asserisce che «gli studi derobertisiani sul Leopardi fanno, nella storia della cultura nostra contemporanea, epoca e storia»: grazie a lui si iniziarono a studiare i Canti confrontandoli con lo Zibaldone e le Operette morali, e si colse la centralità di due scritti come il Saggio sugli errori popolari e il Discorso sulla poesia romantica: zone fino ad allora inesplorate.
Attraverso tante dimostrazioni, è univoco l’intento di liberare il campo dall’opinione che De Robertis e la sua “critica stilistica” avessero rappresentato una pura indagine della forma, della metrica e del dato linguistico: i colleghi e gli allievi, soliti nel seguirlo o nell’incontrarlo nelle lente passeggiate tra la facoltà a piazza San Marco e il Duomo e i Lungarni, sottolineano che dal suo studio delle parole e dei versi si chiariva il rapporto con l’idea e il mondo morale del poeta, e con i fatti di cultura circostanti.
Interroghiamoci ora sulle ragioni che hanno condotto a riproporre questa particolare impresa. La risposta viene dall’archivio di Leone Piccioni (1925-2018), un personaggio che ha goduto del magistero e della confidenza di De Robertis, e che ne ha ereditato l’amore della memoria storica. Mentre le lettere a lui spedite da scrittori, artisti e editori del secondo Novecento sono oggi custodite all’Archivio centrale dello Stato, come le carte ungarettiane che il poeta gli donò, altri faldoni ancora si conservano nell’abitazione romana del critico. Tra questi, in una cartellina contrassegnata Omaggio a De Robertis “La Fiera Letteraria”, Piccioni, in quanto curatore della “galleria”, aveva raccolte non solo le testimonianze manoscritte o dattiloscritte dei partecipanti ma anche la corrispondenza intrattenuta con ciascuno di loro tra la fine del 1954 e l’inizio del 1955, il periodo in cui con solerzia e circospezione allestì il lavoro. Tali notizie le apprendiamo dalla bella introduzione di Gloria Manghetti che con i documenti emersi ricostruisce la delicata preparazione, non esente da imprevisti e rinunce, dell’omaggio. Un’inedita trama di rapporti che la studiosa, per tanti anni direttrice del Gabinetto Vieusseux di Firenze, interpreta, commenta e arricchisce. (Nella foto, la copertina del numero della «Fiera letteraria» in cui è pubblicato l’omaggio a De Robertis, ndr).
Possiamo infine aggiungere che conosciamo ora qualcosa di più sul sistema con cui Piccioni ha ordinato le sue carte: alla catalogazione per autore testimoniata dai carteggi, alcuni già pubblicati, ne affiancava una per soggetto, come questa cartellina della “Fiera” e molte altre ancora da studiare attestano. Chi curerà in futuro i suoi epistolari dovrà quindi intraprendere un viaggio a zig zag tra incartamenti diversi per dominare ciò che altrimenti sfuggirebbe.