Herman Melville
Moby Dick/9

La bussola di Achab

Con la storia della bussola (stregata) di Achab, continua "Moby Dick" nella versione di Alessandro Macchi, illustrata da Roberto Cavallini

CAPITOLO CXI
IL PACIFICO
Ora, con rotta sud-ovest, il «Pequod» s’avvicinava a Formosa e alle isole Bashi tra cui s’apre uno dei passaggi tropicali dai Mari della Cina al Pacifico. E così Starbuck trovò Achab con davanti una carta generale degli arcipelaghi orientali mentre un’altra, separata, rappresentava le lunghe coste orientali delle isole giapponesi Nippon, Matsmai e Sikoke. Con la nuova gamba d’avorio, bianca come la neve, appoggiata contro la gamba a vite del tavolo e in mano un lungo coltello a falcetto, il vecchio prodigioso, volgendo la schiena alla porta del boccaporto, corrugava la fronte e ritracciava i suoi percorsi antichi.

Quando, filando lungo le isole Bashi, uscimmo finalmente nel grande Mare del Sud, avrei potuto salutare con ringraziamenti infiniti il mio diletto Pacifico, poiché ora era esaudita la lunga aspirazione della mia giovinezza: quell’oceano sereno mi si dispiegava per migliaia di leghe d’azzurro verso oriente.

Quel gran mare muove le acque più centrali del mondo, l’Oceano Indiano e l’Atlantico gli fanno soltanto da braccia, mentre per tutta la zona centrale fluttuano vie lattee d’isole coralline e bassi, infiniti, sconosciuti Arcipelaghi e Giapponi impenetrabili. Così questo divino e misterioso Pacifico circonda la massa intera del mondo, fa di tutte le coste una baia, pare il cuore, battente a marea, della Terra. Sollevati da quegli eterni ondeggiamenti non potete non riconoscere il seducente Iddio, piegando il capo innanzi a Pan.

Ma ben pochi pensieri di Pan agitavano il cervello di Achab mentre, ritto come una statua di ferro al solito posto, aspirava l’alito salino del nuovo mare, quel mare in cui l’odiata Balena Bianca doveva proprio allora aggirarsi.

Il proposito del vecchio, lanciato finalmente su queste acque quasi definitive e correndo verso la zona di caccia del Giappone, si faceva sempre più intenso. Le sue labbra ferme s’incontravano come le labbra di una morsa; il delta delle vene della fronte gli si gonfiava come torrente strapieno; persino nel sonno il suo grido acuto echeggiava nello scafo sotterraneo: “Indietro tutto! la Balena Bianca sfiata sangue denso!”

CAPITOLO CXII
IL FABBRO
Giovandosi della delicata e fresca temperatura estiva che regnava allora in quelle latitudini e in preparazione delle gesta particolarmente attive che si attendevano tra breve, Perth, il vecchio fabbro sudicio e calloso, quando ebbe terminata la sua parte di lavoro per la gamba d’Achab, non rimise la fucina portatile nella stiva, ma continuò a tenerla in coperta legata stretta con perni ad anello sotto l’albero di trinchetto perché ora i capi barca, i ramponieri e i vogatori, lo venivano a cercare quasi incessantemente perché facesse per loro qualche piccolo lavoro come modificare o riparare o rifoggiare le varie armi e gli attrezzi delle imbarcazioni. Governava ogni fuligginosa mossa della sua fatica e come questa stessa fosse la sua vita. Non un brontolio o una stizza lo turbavano e scrupolosamente lavorava come se il pesante battito del martello governasse quello del suo cuore.

Egli era un vecchio che, all’età di quasi sessanta anni, aveva incontrato in ritardo ciò che nella tecnica del dolore si chiama la rovina. Era stato un artigiano di rinomata eccellenza e con abbondanza di lavoro; possedeva una casa e un giardino, abbracciava una moglie giovane e innamorata che pareva una ragazza e tre bambini allegri e sani.

Ma una notte, con il favor delle tenebre e per di più celato sotto un abilissimo travestimento, un terribile delinquente entrò in quella casa felice e la spogliò di tutto. E quel che è ancora più triste a dirsi è che il fabbro stesso era stato proprio lui a introdurlo nella su casa. Era il maledetto spirito della bottiglia.

Perché raccontare fino in fondo? Il mantice cadde, la fucina fu soffocata dalle ceneri, la casa fu venduta, la madre scomparve nell’erba alta del cimitero, i figli la seguirono là due volte; e il vecchio senza casa e senza famiglia se ne andò barcollando.L’oceano era lì contro il suicidio, il gran mare cui tutti accorrono e che tutti riceve e che dispiega seducente tutta la sua immensità fatta di terrori inconcepibili e avvincenti e di avventure inaudite e meravigliose. Dai cuori d’infiniti Pacifici migliaia di sirene cantano: “Vieni, o tu che hai il cuore spezzato: qui c’è un’altra vita senza che occorra pagare prima lo scotto della morte: qui ci sono meraviglie soprannaturali, senza il bisogno di morire per raggiungerle. Vieni! seppellisciti in una vita che per il tuo mondo di terraferma, ugualmente aborrito e aborrente, è più obliosa che la morte. Vieni! Metti pure la tua lapide nel cimitero e vieni, che noi ti sposeremo!”.

CXIII
LA FUCINA
— Bada bene, allora, — esclamò Achab, avanzandosi concitato e appoggiandosi con le due mani sulle spalle di Perth — bada bene qui: -Guarda! — disse facendo tintinnare un sacchetto di cuoio quasi fosse pieno di monete d’oro. — Anch’io ho bisogno di un rampone, uno che mille paia di diavoli non possano rompere, Perth; qualcosa che si pianti nella balena come l’osso della pinna. Ecco il metallo — aggiunse gettando la borsa sull’incudine. — Bada, fabbro, sono spezzoni di chiodi quelli dei ferri dei cavalli da corsa-

– Mozziconi di ferri da cavallo, signore? Ma, capitano Achab, tu hai allora il materiale migliore e più resistente che noi fabbri possiamo lavorare. –

– Lo so, vecchio mio: questi pezzi si salderanno insieme come colla fatta con ossa di assassini. Svelto! fucinami il rampone. E fucinami prima dodici barre per forgiare l’asta, e poi torcile, piegale, e martellale insieme come le filacce e i legnuoli di un cavo da tonneggio. Svelto! Io attizzerò il fuoco-

– Capitano Achab, non è per la Balena Bianca questo rampone? -Sì, sì, per il demonio bianco! – ed anche lui attizzò il fuoco. Poi, finita che fu l’asta, disse: -Ma ora, forza, alle punte; devi farle tu stesso, marinaio, ecco i miei rasoi, l’acciaio migliore; ecco, e fa delle punte taglienti come il nevischio aguzzo del Mar Glaciale.

Per un istante il vecchio fabbro adocchiò i rasoi, come se avesse preferito non usarli.

– Prendili, marinaio. Non occorrono a me, poiché io ora non mi rado più, né ceno, né prego, finché… ma su, al lavoro! –

L’acciaio, foggiato alla fine in forma d’una freccia e saldato nell’asta, venne lavorato all’estremità con una punta aguzza, e Perth stava per dare alla lama l’arroventata finale per temprarla e, per far ciò, gridò ad Achab di portargli vicino la botte dell’acqua.

– No, no, niente acqua per questo, lo voglio di vera tempra mortale. -Ohè, là! Tashtego, Quiqueg, Deggu! Cosa ne dite, pagani? Mi darete tanto sangue da coprire questa punta? — e la levò in alto. Un gruppo di tetri cenni rispose di sì. Si fecero così tre punture nella carne dei pagani e la lama della Balena Bianca venne così temprata.

– Ego non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli! — gridò Achab in delirio, mentre il ferro malvagio divorava ardendo il sangue battesimale.

CXIII
L ‘INSIDIA DORATA
Inoltrandosi sempre più nel cuore della zona del Giappone, il Pequod fu presto tutto impegnato nella caccia anche se scarsi risultati non premiavano le fatiche. Sovente, nella temperatura tiepida e gradevole, i marinai per dodici, quindici, diciotto o venti ore di seguito erano impiegati nelle lance a remare vigorosamente o andare a vela o pagaiare dietro le balene o, per un intervallo di sessanta o settanta minuti, aspettare immobili che queste emergessero.

Erano momenti di quiete, di pace sognante nei quali, contemplando la bellezza e lo splendore tranquillo e la brillantezza della superficie, della pelle dell’oceano, ci si dimentica del cuore di tigre che vi palpita sotto e si preferirebbe scordare che quel velluto nasconde un artiglio spietato.

Guardando giù dal fianco della lancia in quello stesso mare dorato, Starbuck mormorò sottovoce: “Incanto inscandagliabile, quale mai vide un innamorato nello sguardo della giovane sposa! Non parlarmi dei tuoi squali dalle file di denti a saracinesca e dei tuoi modi selvaggi di rapina. Che la fede scacci i fatti, che la fantasia scacci la memoria: io guardo giù nel profondo e credo”.

E Stubb saltò su come un pesce dalle scaglie scintillanti in quella stessa luce dorata:

“Io sono Stubb, e Stubb ha la sua storia; ma Stubb giura qui che è sempre stato allegro!”.

Ora queste scene incantatrici, sebbene passeggere, non mancarono di produrre un effetto almeno altrettanto passeggero su Achab. Ma se queste segrete chiavi d’oro parvero aprirgli nell’intimo dei tesori segreti, tuttavia, l’aria, l’alito che lui gli respirò sopra non fece altro che ossidarli.

Ma i fili mescolati e mescolantisi della vita sono intessuti a trama e ordito: le calme sono attraversate da tempeste, una tempesta per ogni calma. Nella vita non c’è un fermo progresso continuo, noi non avanziamo per gradi fissi verso la pausa finale: ed eccoci nell’inconscio incanto dell’infanzia, poi nella fede spensierata dell’adolescenza, nel dubbio della giovinezza (il destino comune), e poi lo scetticismo, poi l’incredulità, per fermarsi infine nel riposo meditabondo del “Se”, del forse, della età matura. Ma una volta arrivati alla fine, ripercorriamo la strada, e siamo bambini, ragazzi e uomini del “Se”, in eterno.

CAPITOLO CXV
IL PEQUOD INCONTRA LO SCAPOLO
E piuttosto allegri furono gli spettacoli e i suoni che giunsero a noi sul vento qualche settimana dopo che il rampone d’Achab era stato saldato.

Era una nave di Nantucket, lo Scapolo, che aveva allora stivata l’ultima botte d’olio e sprangati i boccaporti su un carico straboccante, e ora, in un gaio addobbo come di vacanza, veleggiava gioiosa, quantunque con un po’ di vanagloria.

Mentre questa lieta nave della buona sorte puntava su di noi con bandiere a festa sui pennoni e botti piene legate alle coffe e al castello di prua, si udivano canti e apparivano balli con rumorosi tamburi allietati da danze di negri e ragazze polinesiane fuggite con i marinai.

Alto sul cassero appariva il capitano come fosse il signore e padrone che festeggiasse un suo personale spettacolo.

E Achab anche lui stava in piedi sul cassero, irsuto e nero e con un caparbio cipiglio tetro.

“Venite a bordo, venite a bordo” gridò il gaudente comandante dello Scapolo.

– Hai veduto la Balena Bianca? —ringhiò Achab per tutta risposta.

-No, soltanto sentito parlarne, ma non ci credo per niente – disse l’altro di buon umore. —Su, venite, su a bordo!

-Sei troppo allegro, per Dio! Fila per la tua strada. Hai perduto degli uomini? –

-Non tanti che valga la pena di parlarne: due isolani, tutto qui. Ma vieni a bordo, vecchio mio, vieni su. Ti caverò subito quel peso dalla fronte. Vieni su, venite (qui si sta allegri): una nave piena che torna a casa. –

– È straordinario come sono compagnoni gli stolti! — mormorò Achab. Poi ad alta voce: -Tu sei una nave piena che torna a casa, dici; ebbene sappi che io sono una nave vuota che fugge da casa. Così va’ per la tua strada e io vado per la mia. –

– Avanti voi! con tutte le vele spiegate e tenetevi al vento! –

E Achab, mentre si piegava sul coronamento e fissava il legno che tornava a casa, estrasse di tasca una boccettina di sabbia e, guardando dalla nave alla boccetta, parve fondere così due lontane idee, poiché quella boccetta era piena di terra delle secche sabbiose di Nantucket.

CAPITOLO CXVI
LA BALENA MORENTE
Non di rado in questa vita, quando ci passano a destra i favori della sorte, noi, sebbene fossimo prima immobili, indolenti, prendiamo un po’ della brezza che irrompe e sentiamo con gioia che le nostre vele cadenti e molli si gonfiano. Così parve accadere al Pequod poiché, il giorno dopo l’incontro con l’allegro Scapolo, furono avvistate più balene e quattro uccise, una delle quali da Achab.

Achab sedeva osservando assorto, dalla lancia ora quieta, gli ultimi spasmi dell’animale. Perché è quello strano spettacolo che si osserva in tutti i capodogli morenti, il volgere della testa verso il sole e spirare così: quello strano spettacolo, contemplato in una sera tanto tranquilla, comunicava ad Achab una meraviglia fino allora sconosciuta.

– Volta e rivolge ancora al sole — con quanta lentezza, ma con quanta fermezza — la sua fronte reverente e invocante, negli ultimi sussurri della morte. Anch’essa adora il fuoco: il più fedele, immenso e nobile vassallo del sole! La vita finisce guardando al sole con fede; ma ecco! è appena spirata che la morte fa girare il cadavere, ed esso si volge da un’altra parte…

Invano, o balena, tu cerchi intercessioni da quel sole vivificatore, che soltanto fa sorgere la vita, ma non sa restituirla. Pure tu, metà più buia, mi culli con una fede più superba, più orgogliosa anche se più fosca.

CAPITOLO CXVIII
L’ASTROLABIO
La stagione dell’equatore finalmente si avvicinava e ogni giorno, quando Achab usciva dalla cabina e alzava gli occhi alla coffa, i marinai si mettevano con zelo ai bracci delle vele e intanto si fermavano in cerchio tutti concentrati sul doblone inchiodato in attesa impaziente dell’ordine di mettere la prora all’equatore. A suo tempo l’ordine venne. Era quasi mezzogiorno e Achab, seduto sulla prora della sua lancia issata in alto, stava prendendo la solita osservazione quotidiana del sole per determinare la latitudine.

Ora, in quel Mar del Giappone, le giornate estive sono come inondazioni di fulgori. Quel sole giapponese perennemente vivido pare il fuoco fiammeggiante ustorio emesso da una lente smisurata di un oceano di vetro simile agli splendori insopportabili del trono di Dio. Buon per Achab che il suo quadrante fosse munito di vetri colorati, attraverso i quali si poteva prendere visione di quel fuoco solare. Perciò, dondolando la sua figura seduta al rollio della nave, e all’occhio il suo strumento astrologico, egli rimase in quella posizione alcuni istanti per rilevare l’attimo preciso di quando il sole sarebbe entrato esattamente nel meridiano. Finalmente l’osservazione desiderata fu presa e subito Achab calcolò, con la matita sulla gamba d’avorio, la latitudine di quell’attimo preciso.

Poi, abbandonandosi alla fantasticheria di un istante, di nuovo guardò in alto verso il sole e mormoro tra sé: «Oh tu, faro del mare! alto e potente Pilota! tu mi dici con verità dove sono: ma puoi darmi il minimo indizio di dove sarò? O puoi dirmi tu dove vive in questo momento qualche altro essere oltre a me? Dov’è Moby Dick? In questo preciso istante tu certo lo vedi. Questi miei occhi sono proprio puntati nel tuo occhio che ora lo può vedere. –

Poi, fissando il quadrante dell’astrolabio e muovendo l’uno dopo l’altro i suoi numerosi congegni cabalistici, tornò a pensare e mormorò: «Sciocco ninnolo! Puerile balocco di boriosi ammiragli, oltre che a indicare il miserevole, povero, punto in questo immenso pianeta dove tu ti trovi per caso con una mano che ti regge, ma oltre cosa sai fare tu? Tu non puoi dire dove una goccia d’acqua o un granello di sabbia sarà domani a mezzogiorno e pure nella tua impotenza fissi, insulti il sole! Scienza! Sii maledetto, maledetto quadrante! sì– e lo scagliò sul ponte – non guiderò mai più per mezzo tuo il mio cammino terreno: la bussola piana della nave e il punto stimato col solcometro, questi mi condurranno e mi mostreranno la mia posizione nel mare. Così io saltando dalla lancia sul ponte -si, io così ti calpesto, vile oggetto, che nella tua debolezza miri all’alto  nel cielo: così t’infrango e ti distruggo! –

Atterriti dall’aspetto sconvolto del comandante i marinai si raggruppavano sul castello, finché Achab, percorrendo tutto sconvolto la coperta, non gridò: — Ai bracci! Barra al vento! orienta in dentro –

E in un attimo i pennoni girarono, e ruotò il Pequod con i suoi tre alti, eleganti alberi.

CAPITOLO CXIX
LE CANDELE DEI CORPISANTI
I cieli più smaglianti non portano che i tuoni più mortali. Cuba lussureggiante conosce i cicloni che mai hanno spazzato le temperate terre del nord. E così avviene che in questi risplendenti mari tropicali il marinaio incontri la più tremenda delle tempeste, il Tifone. Alle volte esso scoppia da quel cielo senza nuvole come l’esplosione di una bomba su una città abbacinata e sonnolenta.

Verso la sera di quel giorno al Pequod vennero strappate le vele e il vascello fu lasciato nudo a combattere un tifone che l’aveva preso in piena prua. Quando venne l’oscurità, cielo e mare muggirono e s’infransero col tuono e fiammeggiarono col lampo che mostrava gli alberi spogli da dove qui e là svolazzavano brandelli di vele che la prima furia della tempesta vi aveva lasciato per suo spasso successivo.

Starbuck sul cassero stava con occhi attenti ai danni quando un’ondata mostruosa colpi lo scafo ubriaco e si alzò oltre a ghermire la lancia di Achab ben alta sulla gru, e ne sfondò la poppa e la abbandonò lì tutta colante come un setaccio.

-Brutto affare, brutto affare- signor Starbuck – disse Stubb – ma non fa niente, è tutto uno scherzo come dice la vecchia canzone- che intonò. -Piantala Stubb- gridò Starbuck- lascia che il tifone canti e suoni l’arpa nel nostro sartiame e se foste un uomo coraggioso stareste zitto. – E Stubb -Non sono un coraggioso, non l’ho mai detto, canto per tenermi su di morale. –

-Ecco! — gridò Starbuck, afferrando Stubb per la spalla e additando la banda prodiera di sopravvento: — non t’accorgi che la burrasca viene da oriente, proprio la rotta che Achab vuole tenere per cercare Moby Dick? Proprio quella rotta in cui s’è messo oggi a mezzogiorno? –

Una voce si fece udire al suo fianco; e quasi contemporaneamente una salve di scoppi di tuono rimbombò in alto.

-Chi è là? –

-Vecchio Tuono, — disse Achab, andando a tentoni lungo le murate per giungere al suo perno, ma repentinamente gli illuminarono la strada zigzaganti fulminee lance di fuoco.

– I parafulmini! i parafulmini! — gridò Starbuck ai marinai, richiamato improvvisamente alla vigilanza dalla vivida folgore che aveva in quel momento innescato tutte quelle fiaccole per illuminare il cammino di Achab. — Sono fuori bordo? Gettateli fuori a poppa e prora. Presto! Le maglie dei parafulmini!

-Ferma! — gridò Achab — qui dobbiamo fare gioco leale, sebbene siamo i più deboli. Certo darei una mano a piantar parafulmini sull’Himalaya e sulle Ande, che tutto il mondo potesse stare al sicuro, ma basta coi privilegi! Stiano dove sono, Starbuck. –

– Guardate lassù! — gridò Starbuck. — I corpisanti! i corpisanti! I fuochi di sant’Anselmo! –

Su tutti i bracci dei pennoni su, alla cima, si erano accese delle fiamme pallide, e ogni triplice punta dei parafulmini installati lassù era coronata da tre fuochi bianchi: degli spettri affusolati. Ciascuno dei tre alti alberi ardeva silenzioso in quell’aria sulfurea come fossero tre gigantesche candele di cera dinanzi a un altare.

Gli occhi di tutti i marinai scintillavano resi come fluorescenti. Il gigantesco negro Deggu, appariva confusamente tre volte più grande come una sorta di nuvola nera uscita da un fulmine, la bocca spalancata di Tatshego mostrava come denti di pescecane resi luminosi dai corpisanti e i tatuaggi di Quiqueg parevano ardere sul suo corpo rischiarati da una luce soprannaturale.

— Che i corpisanti abbiano misericordia di noi! – urlò Stubb. Il quadro della drammatica scena svanì tutt’insieme con quel pallore lì in alto, e ancora una volta il Pequod e ogni creatura in coperta furono avvolti in un sudario. Un istante o due passarono, quando Starbuck andando avanti si scontrò con qualcuno e intravide la faccia di Stubb che cominciava lentamente a comparire in luce. Guardando in su esclamò: — Là! là! lassù — e ancora una volta si scorsero le alte fiamme affusolate, dall’aspetto doppiamente soprannaturale in quello spettrale pallore.

— Che i corpisanti abbiano misericordia di noi! — gridò di nuovo Stubb. –

Parecchi marinai, arrestati dal bagliore, si strinsero insieme e stettero là come sospesi in vari atteggiamenti incantati, simili agli scheletri di Ercolano ritti o passeggianti o in corsa; altri rimasero inchiodati sul ponte.

-Proprio così, marinai! esclamò Achab- Guardatela. Osservatela bene: la fiamma bianca ci illumina soltanto la strada verso la Balena Bianca! Date qua quelle maglie del parafulmine di maestra; mi vien voglia di sentire battere quel polso di fiamma e farci battere contro il mio, sangue contro fuoco! Così. – Poi, afferrata l’ultima duglia della maglia nella sinistra, mise il piede sul Parsi, che era inginocchiato davanti a lui, e, con lo sguardo fisso in alto e il braccio destro levato, si erse dinanzi all’altissima trinità delle fiamme.

«Oh! tu limpido spirito di limpida fiamma, che un tempo io, come un persiano, adorai su questi mari finché nell’atto sacramentale mi bruciasti talmente che ancora ne porto la cicatrice, ora io ti conosco, ormai, chiaro spirito, e so che per adorarti bisogna sfidarti. Né all’amore né alla venerazione tu ti pieghi e anche l’odio tu non sai che ucciderlo; e tutti finiscono uccisi. Non è uno sciocco temerario che ti affronta. Riconosco il tuo potere senza parola e senza dimora, ma, fino all’ultimo anelito del terremoto che è in me, la vita ti contenderà il dominio incondizionato ma incompleto che hai su di me. O limpido spirito, tu mi hai fatto del tuo fuoco, e come un vero figlio del fuoco io te lo rendo nel mio respiro».

(In improvvisi, ripetuti scoppi di folgore le nove fiamme si slanciarono in alto molto più alte di prima; Achab con tutti gli altri chiuse gli occhi premendovi sopra forte la destra).

-Tu puoi accecare, ma io posso poi ancora brancolare. Tu puoi consumare ma io posso ancora essere cenere. C’è qualcosa di trascendente al di là di te, o chiaro spirito, tutta l’eternità è solo tempo e tutta la creatività solo meccanica. Io guizzo, ardo con te, vorrei saldarmi con te e, sfidandoti, ti adoro! –

-La lancia, la lancia — gridò Starbuck. – guarda la tua lancia, vecchio! –

Il rampone di Achab, quello fucinato al fuoco di Perth, era sempre fermamente assicurato nel suo vistoso forcaccio in modo che sporgeva oltre la prora dell’imbarcazione, ma il colpo di mare, che aveva sfondata la chiglia alla lancia, ne aveva fatto cadere la guaina mobile di cuoio, e dalla tagliente punta di acciaio usciva ora una fiamma orizzontale di fuoco pallido come spettro forcuto. E mentre il rampone silenzioso ardeva là come la lingua di un serpente, Starbuck afferrò Achab per il braccio:

-. Iddio, Iddio è contro di te, vecchio; lasciate il vostro proposito! è un viaggio del male! mal cominciato, mal proseguito; lascia che orienti i pennoni, vecchio, finché possiamo, e che ci metta a un vento favorevole, verso casa a un viaggio migliore di questo. –

Udendo Starbuck, l’equipaggio, còlto da panico, corse immediatamente ai bracci, sebbene sugli alberi non ci fosse nemmeno una vela. Per un istante, tutti parvero dividere i pensieri dell’ufficiale terrorizzato e levarono un grido quasi d’ammutinamento. Ma, scagliata sul ponte la maglia tintinnante del parafulmine e afferrato il rampone che ardeva, Achab lo brandì come una torcia in mezzo a loro giurando di trapassare il primo marinaio che avesse messo mano a una cima.

Pietrificati da quell’aspetto e più ancora rifuggendo dal fiero acciaio che lui brandiva, i marinai indietreggiarono atterriti e Achab di nuovo parlò:

Tutti i vostri giuramenti di dare la caccia alla Balena Bianca sono altrettanto impegnativi che il mio. E il vecchio Achab c’è impegnato cuore, anima e corpo, polmoni e vita. E perché voi sappiate a quale ritmo gli batte il cuore, guardate questo: così io spengo l’ultima paura! — E con un gran soffio spense la fiamma. A quelle ultime parole di Achab, molti dell’equipaggio fuggirono via, sconvolti dal terrore.

CAPITOLO CXXIII
IL MOSCHETTO
Durante gli urti delle raffiche più violente del tifone, il timoniere alla barra d’avorio del timone del Pequod era stato più volte gettato barcollante sul ponte dai movimenti spasmodici della barra benché paranchi di rinforzo vi fossero stati legati, ma, essendo indispensabile lasciare alla barra un po’ di gioco, questi non erano molto in tiro.

In una burrasca violenta come quella, quando la nave non è che un volano sbattuto nella raffica, non è per nulla raro vedere a più intervalli gli aghi delle bussole girare e girare. Così accadde a quelli del Pequod: a quasi ogni urto il timoniere non aveva mancato di osservare la velocità vertiginosa con cui giravano sulla rosa dei venti; è uno spettacolo che quasi nessuno può contemplare senza provare in qualche modo un’emozione straordinaria.

Alcune ore dopo la mezzanotte, il tifone perse di forza in modo che, cogli sforzi energici congiunti di Starbuck e Stubb — uno a prora e l’altro a poppa — gli avanzi sbrindellati del gran fiocco, delle vele di trinchetto e delle gabbie poterono venir tagliati dalle aste e se ne fuggirono turbinando sottovento come piume d’Albatro e tre nuove vele corrispondenti vennero issate prendendone i terzaruoli, e in aggiunta, una randa di fortuna venne alzata a poppa. Così presto la nave si rimise in cammino con qualche precisione, e la rotta — per il momento est-sud-est — che si doveva seguire se praticabile, venne di nuovo data al timoniere.

Mentre si cercava di tenere la rotta il più possibile guardando la bussola, il vento parve girare a poppa. Si, senza dubbio la brezza contraria diventava favorevole: “Oh, col favor del buon vento! Oh-hi-oh, va il marinar contento” cantava la ciurma.

Starbuck, ligio all’ordine, scese per informare il capitano Achab. Nella sua cabina isolata regnava un silenzio ronzante. In una luce dalle ombre intermittenti di una lampada oscillante, dritti nella rastrelliera contro la parete, si vedevano luccicare i moschetti. All’onesto e retto Starbuck, vedendoli, balzò dal suo cuore un pensiero malvagio che, contrastando con la sua natura, lui stesso stentò a capire. “Una volta voleva uccidermi, mormorò” e alzò quel calcio ornato di borchie, il fucile era carico. Mormorò: “Vengo a dirgli che il vento è favorevole …  e questo è proprio il moschetto con cui voleva uccidermi, sì, quell’uomo ammazzebbe volentieri tutto l’equipaggio per quel maledetto pesce. Non vuole forse ammainare i pennoni nella burrasca e non ha fracassato l’astrolabio per procedere così a tentoni, e non voleva montare i parafulmini? Dobbiamo tollerare questo vecchio impazzito che trascina alla rovina con se tutto l’equipaggio di una nave? Lui sarebbe proprio, certo, un assassino intenzionale. Ah! brontola nel sonno, sta dormendo… ma è sempre vivo e presto sarà sveglio. Tu dici che tutti abbiamo giurato con te, Dio ce ne liberi! Anche se lo legassimo e incatenassimo sarebbe più orrendo di una tigre in gabbia. Forse che il cielo è un assassino? E io sarei anch’io un assassino? Da qui posso puntare alla testa, un tocco e potrei sopravvivere riabbracciare Mary e i ragazzi … Se non ti ammazzo in quali abissi ci porti, vecchio?” Ma il moschetto tremò nelle sue mani come se fossero quelle di un ubriaco. Starbuck parve lottare come un angelo ma alla fine ripose l’arma nella rastrelliera ed uscì.

“Dorme troppo profondamente, signor Stubb, andate voi, io devo occuparmi del ponte.”

CAPITOLO CXXIV
L’AGO DELLA BUSSOLA
II mattino seguente, il mare ancora agitato rollava in lunghi marosi lenti d’una massa immensa e, precipitandosi nella scia gorgogliante del Pequod, lo sospingeva avanti come una mano distesa di un gigante. La brezza era così gagliarda e sostenuta che il cielo e l’aria parevano grandi vele panciute: il mondo intero filava innanzi al vento.

Diademi, come di re e regine babilonesi incoronati, regnavano dappertutto. Il mare era un crogiolo d’oro fuso, che fremeva brulicante di luce e di calore.

Achab stava in disparte continuando a mantenere un silenzio trasognato.

-“Ah, ah, mia nave! potresti davvero venir presa per il cocchio marino del sole. Oh, voi tutti, popoli dinanzi alla mia prora, io vi conduco il sole! Poni il giogo a quelle onde. Oilà! che tiro! Io conduco il mare” –

Ma di botto, arrestato da un contropensiero, corse alla barra domandando seccamente che rotta faceva la nave.

—Est-sud-est, signore — rispose il timoniere spaventato.

—Tu menti! — colpendolo col pugno serrato. — Rotta ad est, a quest’ora del mattino, col sole a poppa?- Tutti rimasero sconcertati ed Achab, abbassando lentamente il braccio levato, parve quasi barcollare e Starbuck guardò anche lui e, incredibile, le due bussole indicavano est mentre il Pequod filava impetuoso a ovest.

Ma prima che l’allarme sbigottito potesse spargersi tra l’equipaggio, il vecchio diede una risata severa esclamando: — Capito! È accaduto altre volte. Signor Starbuck, il fulmine della notte scorsa ci ha invertito le bussole: ecco tutto. Avrai sentito prima d’ora di una cosa simile, immagino- Si, ma mai prima d’ora era capitato a me, signore. – disse l’ufficiale pallido e con aria cupa.

Capita che l’elettricità del cielo, del fulmine, nella tempesta smagnetizzi l’acciaio degli aghi che non recuperano più il loro magnetismo, inutilizzabili.

Achab ritto con fare spavaldo, col taglio della mano traguardò il sole constatando l’inversione completa degli aghi e ordinò di invertire completamente la rotta e il Pequod cacciò la prua al vento avverso. Per un po’ il vecchio camminò sul ponte in preda a ondeggianti pensieri e inciampò nei resti dell’astrolabio calpestato – O tu superbo contemplatore del cielo e pilota del sole! Ti ho fatto a pezzi e le bussole ora stavano mandando a pezzi anche me: Ma Achab comanda ancora alla calamita, alla bussola! –

-Signor Starbuck! A me una lancia senza manico, una mazza e il più piccolo degli aghi del velaio. Presto! –

Forse, assieme all’impulso che gli dettava ciò che stava per fare, si agitavano in lui certi motivi prudenziali il cui fine poteva essere di ravvivare con un colpo di sottile destrezza il morale dell’equipaggio in una faccenda così meravigliosa com’era quella delle bussole invertite.

– Marinai, — disse, volgendosi con fermezza all’equipaggio, mentre l’ufficiale gli consegnava gli oggetti richiesti — miei marinai, la folgore ha capovolto gli aghi del vecchio Achab ma da questo pezzetto d’acciaio Achab sa ricavare un suo ago che punterà fedele come qualunque altro ago. –

Sguardi vergognosi di servile meraviglia vennero scambiati fra l’equipaggio a queste parole, tutti aspettando con gli occhi affascinati la magia che doveva seguire. Ma Starbuk distolse lo sguardo.

Con un colpo della mazza Achab fece saltare la punta di acciaio della lancia e poi, porgendo all’ufficiale il lungo bastone di ferro che restava, gli disse di tenerlo dritto senza che toccasse il ponte. Poi, dopo avere ripetutamente colpito con la mazza l’estremità di questo ferro, vi mise verticalmente in cima l’ago da velaio spuntato, e con più delicatezza lo martellò diverse volte, reggendo sempre l’ufficiale l’asta come prima. Poi, eseguiti con l’ago alcuni strani piccoli movimenti— vuoi se indispensabili a calamitare l’acciaio o semplicemente intesi ad aumentare la reverenza dell’equipaggio, chi lo sa — chiese del filo di lino e, andando alla chiesuola, liberò i due aghi invertiti della bussola e vi sospese orizzontalmente l’ago da vele incrociato sopra una delle rose della bussola stessa.

Dapprima, l’acciaio si mise a girare e rigirare tremando e vibrando alle due estremità, ma alla fine si fermò al posto giusto:

– Guardate voi stessi, se Achab non è signore della calamita piana! Il sole è l’est, e questa bussola ve lo giura! –

Negli occhi ardenti di Achab pieni di disprezzo e di trionfo si vide allora tutto il suo fatale orgoglio.

CAPITOLO CXXV
IL SOLCOMETRO E LA SAGOLA ACHAB E PIP
Achab, guardando il mulinello di legno con il solcometro e la sua sagola avvolta sul rocchetto, che da gran tempo pendevano a poppa esposti ai marosi e al sole, si ricordò del quadrante-astrolabio che non c’era più e gli tornò alla mente il folle giuramento a proposito del solcometro e della sagola. La nave avanzava beccheggiando a poppa e i marosi rollavano tumultuosi.

-. Ehilà a prora! Gettate il solcometro –

Due marinai accorsero, un tahitiano dal colore dorato e l’uomo brizzolato dell’isola di Man, il più vecchio dell’equipaggio. -Uno di voi prenda il mulinello, al lancio ci penserò io. –

L’uomo di Man, preso il mulinello e il rocchetto della sagola, avanzò verso Achab ed osò aprire bocca. -. Signore non mi fiderei di questa sagola mi pare completamente andata, tanto calore e umidità l’hanno rovinata. –

.-Terrà, signore mio. Lungo calore e umidità hanno rovinato te? Tu sembri reggere. Ma forse sarebbe più esatto dire la vita ti tiene. Non tu lei. –

-Io reggo il rocchetto, signore. Ma è giusto quel che dice il mio capitano. Con questi capelli grigi non vale la pena discutere. Specie con un superiore che la dà mai vinta –

– Come, come? Ma guarda, guarda questo straccio di professore dell’Università di Madrenatura quella fondata sul granito! –

-Il solcometro fu gettato, le maglie della sagola si svolgevano dal rocchetto, e mentre le ondate sollevavano e abbassavano il solcometro, lo sforzo di trazione faceva barcollare il vecchio.

-Tieni forte-

Crac! la sagola cedette e il solcometro a traino sparì.

– Io frantumo il quadrante, il fulmine inverte gli aghi della bussola e ora il folle mare spezza la sagola del solcometro. Ma Achab riesce a riparare tutto. -Recupera thaitiano, tu di Man avvolgi e dì al maestro d’ascia di farmi un altro solcometro, e tu ripara la sagola, pensateci voi.

-Per lui non è successo niente, queste sagole escono sane come lampi e poi rientrano rotte. Ehi! Pip, vieni a dare una mano, ehi Pip!

-Pip? chi chiama Pip? Pip è saltato dalla lancia. Pip non c’è più. La sagola viene su a fatica forse lui ci si è aggrappato. Dagli uno strattone Tahiti, buttalo giù! Qui non tiriamo su i vigliacchi! Ecco il suo braccio che sporge dall’acqua. Un’accetta, un’accetta! Tagliateglielo…tagliateglielo, non tiriamo su i vigliacchi …. Capitano Achab! Signore! Signore! C’è Pip che vuole tornare a bordo. -Zitto, razza d’idiota, gridò l’uomo di Man, afferrandolo per il braccio – via dal cassero! –

– L’idiota più grosso rimprovera sempre quello più piccolo- brontolò Achab facendosi avanti -Giù le mani da questo essere sacro! dove dici che era Pip, ragazzo? –

-Li a poppa Signore, eccolo eccolo! –

-E tu chi sei ragazzo? Non vedo il mio riflesso nelle pupille vuote dei tuoi occhi. Che l’uomo debba essere una creatura attraverso cui setacciare le anime immortali! Chi sei tu, ragazzo? –

-Il ragazzo del campanello, signore. Il banditore della nave. Ding, dong, ding! Pip! Pip! Pip!… cento libbre d’argilla a chi ritrova Pip: alto cinque piedi e aria da vigliacco!… si riconosce subito così: ding, dong, ding! Chi ha viso Pip il vigliacco? –

-. Non è possibile che esistano cuori oltre la linea delle nevi. Oh! cieli di ghiaccio! Guardate quaggiù! Voi avete generato questo infelice e l’avete abbandonato come dei libertini della creazione. Quà, ragazzo, d’ora in poi la cabina di Achab sarà la casa di Pip, finchè Achab avrà la vita. Tu mi tocchi nel mio più profondo, figlio, mi sei legato con cavi fatti con le fibre del mio cuore. Vieni, scendiamo –

– O Signore, -aggiunse- la tua mano mi sembra un sostegno cui si aggrappano le anime deboli. Chiama il vecchio Perth e digli di inchiodare assieme queste due mani, la nera e la bianca, perchè non la voglio più lasciare. –

-Oh! Voi che credete negli dei tutti bontà e nell’uomo tutto male, guardate ora, vedete gli dei onniscenti che si scordano dell’uomo che soffre e l’uomo benchè idiota, benchè ignaro di quello che fa, pure è pieno delle dolci sensazioni dell’amore e della gratitudine! Vieni –

-Ecco due teste pazze che se ne vanno- borbottò il vecchio di Man. Una matta per la forza, l’altra matta per la debolezza! – … Ma… ecco il capo della sagola marcia …

CAPITOLO CXXVI
IL GAVITELLO SALVAGENTE
Puntando ora a sud-est per mezzo dell’acciaio magnetizzato di Achab e determinando il cammino unicamente col solcometro piano, il Pequod continuava la sua rotta verso l’equatore.

Nella lunga traversata i costanti alisei spingevano onde monotamente e moderatamente gonfie; nessuna nave in vista in quel deserto e la calma misteriosa che regnava sembrava preludere a qualche scena misteriosa di tumulto e disperazione. Flask era alla guardia e sobbalzò a un grido selvaggio e sinistro di gemiti semiarticolati come di fantasmi o come quello degli innocenti piccoli assassinati da Erode. Tutti si destarono di soprassalto. I cristiani dissero che potevano essere sirene e rabbrividirono, impassibili i ramponieri pagani, Man, il marinaio più vecchio, dichiarò che i suoni selvaggi e raccapriccianti erano la voce di uomini da poco annegati in mare.

Flask riferì ad Achab appena salito sul ponte, di quegli oscuri significati e lui con una sorda risata spiegò così il prodigio: in quelle vicine isole rocciose, riunione di grandi quantità di foche, le giovani madri che avevano perduto il loro cucciolo dovevano essere emerse vicino alla nave e l’avevano seguita piangenti e singhiozzando con i loro gemiti quasi umani….

Gli infausti presagi ahimè si avverarono presto.

Al levar del sole, si udì un grido — un grido e un precipitare — e, levando gli occhi, videro un fantasma cadere nell’aria: abbassandoli, un piccolo cumulo agitato di bolle bianche nell’azzurro del mare. Era il marinaio appena salito assonnato alla gabbia di guardia al colombiere di trinchetto. Il gavitello di salvataggio — un lungo e stretto barilotto — venne lasciato cadere da poppa dove era appeso pronto al comando di una molla ingegnosa, ma nessuna mano in mare sorse ad afferrarlo, e la botticella, che avendovi a lungo battuto sopra il sole s’era contratta, ora si riempiva lentamente via via che il legno disseccato beveva da tutti i pori. Così il barilotto chiodato e cerchiato di ferro seguì il marinaio nel fondo, come per fornirgli un guanciale, benché, a dire il vero, un guanciale un po’ duro.

E così il primo uomo del Pequod che salì l’albero in vedetta per la Balena Bianca, nelle acque particolarmente frequentate da lei, quest’uomo fu inghiottito dall’abisso.

Occorreva ora rimpiazzare il gavitello perduto. Starbuck ebbe ordine di occuparsene, ma siccome non si poteva trovare nessuna botte sufficientemente leggera Quiqueg fece intendere qualcosa riguardo alla sua bara.

– Una bara per gavitello di salvataggio! — esclamò Starbuck impressionato.

– Portatela su, non c’è nient’altro — disse poi Starbuck dopo una pausa malinconica. —

– Aggiustala, maestro carpentiere; non guardarmi in quel modo… la bara, dico. Hai sentito? Aggiustala. – E devo inchiodare il coperchio, signore. —chiese muovendo la mano, come se avesse un martello. -Sicuro. -E devo calafatare le giunture, signore? -aggiunse muovendo la mano come avesse un ferro da calafato. – -Sicuro. — E devo poi darci sopra la pece, signore? — muovendo la mano, come se ci tenesse una marmitta di pece.

–  Insomma! Che cosa ti prende adesso? Fanne un gavitello e basta… Signor Stubb, signor Flask, a prora con me.

CAPITOLO CXXVII
IN COPERTA, SUL PONTE
(La bara è appoggiata su su due mastelli da lenza, tra il banco con la morsa e il boccaporto spalancato: il maestro d’ascia ne sta calafando le giunture; la corda di stoppa intrecciata si sgomitola lentamente da un gran rotolo che lui tiene nel seno del camicione. Achab viene lento dal corridoio della cabina)

— Non sei tu quello che fa le gambe? Guarda, non è uscito dalla tua bottega questo moncone di tronco?

— Credo bene, signore: resiste la ghiera, signore?

— Abbastanza. Ma non sei anche quello delle pompe funebri? –

— Sì, signore, ho messo insieme quest’aggeggio per servire da bara a Quiqueg ma ora vogliono che ne faccia un’altra cosa.

— Dimmi dunque; non sei tu un matricolato e invadente furfante, avido, intrigante, miscredente? empio, per stare un giorno a fare gambe, e il giorno dopo bare per chiudercele, e poi ancora le medesime bare per gavitelli da salvataggio? Sei tanto privo di princìpi quanto gli dèi, e altrettanto operaio a tutto fare?

Ma io lo faccio senza intenzioni, signore. Faccio e basta.

— Gli dèi, proprio. Senti, tu non canti mai lavorando a una bara? Dicono che i Titani canticchiassero strofette mentre scalpellavano i crateri per fare i vulcani; e il becchino nel dramma canta con la vanga alla mano. Tu no?-

— Sei un baco da seta? Ti sgomitoli il sudario da dentro te stesso? Guàrdati il petto! Sbrigati! e fa’ sparire questa roba…-

CAPITOLO CXXVIII
II «PEQUOD» INCONTRA LA «RACHELE»
Il giorno dopo venne avvistata una grande nave, la Rachele, che si dirigeva direttamente sul Pequod con tutta l’alberatura carica di fitti grappoli di marinai.

Le sue vele caddero di colpo ma prima che il suo comandante ritto in piedi aprisse bocca col megafono, Achab gridò:

-Hai visto la Balena Bianca? –

– Si, ieri. Avete visto una lancia alla deriva? –

Soffocando la gioia, Achab rispose negativamente a questa inaspettata domanda e sarebbe senz’altro salito a bordo della nave straniera, quando si vide il capitano della stessa fermare la rotta della sua nave e scendere dalla fiancata.

Poche remate vigorose e in un baleno il gancio d’accosto della sua lancia afferrava iI parasartie di maestra del Pequod e il capitano saltava sul ponte.

Immediatamente Achab lo riconobbe per un nantuckettese di sua conoscenza: nessun saluto d’occasione venne scambiato.

— Dov’era? non uccisa! non uccisa! – gridò Achab, facendosi vicino- com’è stato? –

Verso il pomeriggio tardi del giorno prima, mentre tre lance dei forestieri erano impegnate con un branco di balene, e via via si erano allontanate di tre o quattro miglia dalla nave e si spingevano in un rapido inseguimento a sopravvento, pareva che la gobba e la testa bianche di Moby Dick fossero d’improvviso comparse alla superficie non molto lontano a sottovento, e allora la quarta lancia attrezzata, una lancia di riserva, venne immediatamente ammainata in caccia. Dopo un’ardente corsa a vela con favore del vento, questa quarta lancia — la meglio carenata di tutte- pareva fosse riuscita a far presa, per quanto almeno il marinaio di vedetta in cima all’albero potesse arguire. Questo vide. Poi di seguito in distanza, vide la lancia rimpicciolirsi fino a un puntolino, poi un rapido scintillio di acqua bianca ribollente, e infine più nulla; dal che si concluse che la balena colpita doveva essere fuggita con gli inseguitori in corsa pazza trascinandosi dietro la lancia mancante. Venne il buio e si misero in salvo gli equipaggi delle tre lance sopravvento lasciando al momento la quarta, che la legge della marineria dice che prima si salvano gli equipaggi più numerosi. Si alzarono intanto segnali di richiamo accendendo un fuoco nelle raffinerie come faro galleggiante e con metà uomini in alto di vedetta.

Quando la nave ebbe percorso un tratto sufficiente per trovarsi nel luogo presunto dove gli assenti erano stati veduti l’ultima volta, e sebbene lì si fosse arrestata e avesse ammainato le lance anche quelle di riserva perchè battessero tutto intorno … niente, non trovarono nulla; la nave allora era tornata a correre avanti, e di nuovo si era fermata ad ammainare, così continuando fino al nuovo giorno fatto; pure del legno mancante non s’era veduta nemmeno l’ombra.

– Mio figlio, mio figlio è tra loro. In nome di Dio, vi prego, vi supplico- esclamò il capitano della Rachele ad Achab che stava ascoltando freddamente. – Noleggiatemi la nave per quarantott’ore, vi pagherò volentieri e bene, vi pagherò, se non c’è altro modo, per quarantott’ore soltanto; solo questo… dovete farlo, oh, dovete, e voi di certo lo farete. –

Stabb esclamò – suo figlio di soli dodici anni… dobbiamo salvare quel ragazzo – E il vecchio marinaio Man mormorò da dietro – è annegato con gli altri ieri sera, abbiamo sentito tutti i lamenti dei loro spiriti!

— Non me ne vado — disse il forestiero – finché non mi abbiate detto di si. Fate a me quel che vorreste che facessi a voi in un caso simile. Anche voi avete un figlio, capitano Achab. –

-Capitano Gardiner, non accetto. Anche ora, perdo tempo. Addio, capitano. Che il Signore ti protegga e possa io perdonare me stesso, ma devo andare. – Signor Starbuck, guardate l’orologio di chiesuola; intimate a tutti i forestieri di andarsene fra tre minuti esatti: poi bracciate nuovamente al vento che la nave riprenda la rotta di prima. Il capitano Gardiner, ripresosi dallo stordimento, cadde più che scese nella sua barca.

Presto le navi divisero le loro rotte e, finché la Rachele fu in vista, la vedemmo straorzare qua e là verso ogni punto nero per quanto piccolo sul mare. Gli alberi e i pennoni erano fitti di marinai come tre grandi ciliegi come quando i ragazzi vanno a cogliere i frutti tra i rami.

Ma dalla sua corsa intermittente e dalla triste rotta serpeggiante, vedevamo chiaramente che quella nave tutta lacrime di schiuma restava tuttavia senza conforto. Era Rachele che piangeva i suoi figli che non erano più.

CXXIX
LA CABINA
(Achab dalla sua cabina sta per salire in coperta, Pip gli afferra la mano per seguirlo)

Ragazzo, ragazzo, ti dico che per ora non devi seguire Achab. Nell’ora della vendetta non ti voglio accanto. C’è qualcosa in te, povero ragazzo, che io sento troppo come cura per la mia malattia. Ogni simile cura il suo simile ma per questa caccia la mia malattia è la salute che più desidero. Devi rimanere sulla mia sedia qui sotto e ti serviranno come se fossi il capitano-

-No, no camminate appoggiandovi su di me così rimango una parte di voi. –

-Oh! A dispetto di milioni di canaglie, questo mi rende convinto assertore della imperitura fedeltà dell’uomo! Un negro! E un fuori di senno! Ma forse la cura del simile vale anche per lui.

-Mi dicono, signore che il povero Pip è stato abbandonato e ora le sue ossa sott’acqua appaiono bianche nonostante la mia pelle nera. Ma io non vi lascerò mai signore, non farò come Stubb con Pip-

-Se mi parli così ancora un po’, il proposito di Achab si capovolge dentro. Ti dico di no, non è possibile.

-Ma io non abbandonerò mai voi come ha fatto Stubb—

-Mettiti a piangere e ti ucciderò! –

-E ora ti lascio, dammi la mano, Tu sei fedele come la circonferenza al suo centro! Dio ti benedica per l’eternità e, se sarà necessario … Dio ti salvi per sempre, accada quel che deve accadere! –

(Achab esce, Pip fa un passo in avanti)

-Che strana sensazione, ora, quando un ragazzo nero è ospite dei bianchi coi galloni d’oro sulle giacche.

-Signori avete visto un certo Pip? Un ragazzetto nero alto cinque piedi, aria di canaglia e di vigliacco? Chè una volta saltò da una lancia …l’avete visto? No! bevete allora, capitani, e brindiamo alla vergogna di tutti i vigliacchi! –

Almeno ci fosse quì il povero Pip! Ding, dong, ding! Chi ha visto Pip? –

CAPITOLO CXXX
IL CAPPELLO
Achab, attraversate tutte le altre zone di caccia, pareva aver spinto il nemico in un recinto chiuso dell’oceano per poterlo uccidere qui con maggior sicurezza trovandosi vicinissimo alla latitudine e longitudine in cui gli era stata inflitta la ferita che lo torturava. Ne era certo ora che aveva parlato con una nave che proprio il giorno prima aveva veramente combattuto con Moby Dick.

Come la stella polare senza tramonto, che per tutta l’eterna notte artica di sei mesi mantiene uno sguardo penetrante, fermo e sovrano, così il proposito d’Achab ora scintillava fisso sulla costante oscurità dell’equipaggio sgomento che lui dominava. Gioia e dolore, speranza e paura insieme, parevano macinate in finissima polvere nello sprangato mortaio dell’anima di ferro d’Achab. Come macchine gli uomini dell’equipaggio si muovevano muti in coperta sempre coscienti dell’occhio dispotico del vecchio ben fisso su di loro.

Ma quando furono passati tre o quattro giorni dopo l’incontro con la «Rachele» alla ricerca del figlio, e nessuna sfiatata s’era ancora veduta, il vecchio monomaniaco parve diffidente della fedeltà dell’equipaggio. Nelle sue ore più intime lo sguardo dell’impenetrabile Fedallah, il Parsi, dominava il suo e lo turbava a volte selvaggiamente. Sembrava che Fedallah fosse un’ombra tremula gettata sul ponte da una creatura invisibile. Fedallh dormiva o vegliava? Neppure di notte s’era mai saputo se Fedallah dormisse o andasse sotto coperta. I suoi occhi smorti ma straordinari dicevano: siamo due sentinelle che riposano mai. Sebbene la loro vita fosse ormai diventata un’unica guardia in coperta e l’arcana guardia del Parsi fosse pari alla sua, tuttavia i due sembrava non si parlassero mai. Un potente incantesimo sembrava unirli in coppia. Achab vicino al suo boccaporto, il Parsi vicino all’albero maestro, si fissavano uno nell’altro, quasi che nel Parsi Achab vedesse proiettata la sua ombra, e il Parsi in Achab la propria sostanza corporea che lui aveva abbandonato.

In ogni momento di giorno o di notte i marinai si trovavano di fronte Achab in piedi sul suo foro perno. Il suo cappellaccio nero calcato sugli occhi impediva di capire se questi occhi talvolta si chiudessero o se stessero sempre scrutandoli.

Gli abiti di Achab, che la notte aveva bagnato, il sole del giorno successivo glieli asciugava indosso;

Mangiava parimenti all’aria aperta; la colazione e il pranzo, poiché la cena non la toccava mai; e non si tagliava la barba che gli cresceva truce e nodosa, come radici scoperte di alberi caduti che vegetano ancora inutilmente alla nuda base.

E Achab disse: -Sarò io stesso il primo che avvisterà la balena Sì! II doblone deve guadagnarlo Achab! — e con le sue stesse mani si preparò una coffa, un cesto di boline intrecciate come un nido. – Poi, posando l’occhio fermo e fiducioso sul primo ufficiale, disse: -Prendete il cavo, signore: lo affido alle vostre mani, Starbuck. — Disponendosi nel cesto, diede l’ordine di issarlo al posatoio. Così, con una mano stretta attorno all’albero di controvelaccio, Achab spaziò lo sguardo a distesa sul mare, per miglia e miglia nel circolo immenso che si comanda da una simile altezza, innanzi, indietro; da una parte, dall’altra.

Ora la prima volta che Achab andò così ad appollaiarsi lassù, non erano trascorsi dieci minuti, che uno di quei selvaggi falchi di mare dal becco rosso si avventò roteando e stridendo sulla sua testa in un labirinto di cerchi inestricabilmente rapidi. Poi si scagliò su, alto mille piedi nell’aria, e da quell’altezza venne giù a spirale e tornò a turbinargli intorno al capo.

Ma Achab con Io sguardo fisso al fosco orizzonte lontano non parve far caso a quell’uccello selvaggio.

– Il vostro cappello, il vostro cappello, signore! – Urlò il marinaio siciliano dal colombiere di mezzana. Ma già l’ala scura guizzava davanti agli occhi del vecchio e il lungo becco adunco gli era sul capo: mandando un gran strido il falco nero scattò via con la preda.

CAPITOLO CXXXI
IL «PEQUOD» INCONTRA LA «GIOIA»
L’ansioso Pequod continuava a veleggiare; le ondate rollanti e le giornate passavano; la bara-gavitello oscillava sempre, leggera; e un’altra nave venne avvistata, che con triste ironia, si chiamava la «Gioia».

Puntammo gli occhi sulla biga della nave degli stranieri, quell’impalcato a travi che si trova sul cassero a sette nove piedi d’altezza dove vengono messe le lance di scorta o da riparare. Su quella biga si scorgevano le coste bianche infrante e qualche tavola spaccata di quella ch’era stata un tempo una lancia ma ora si poteva vedere attraverso la rovina così come distintamente si vede attraverso lo scheletro, spellato, mezzo scardinato e riarso di un cavallo.

-Hai veduto la Balena Bianca? –

– Guarda! — rispose dal coronamento il capitano dalle guance infossate, e indicò col megafono la rovina.

– L’hai uccisa? –  Non è ancora stato forgiato il rampone che lo potrà fare -Non forgiato! Non forgiato? — e, strappando al forcaccio il ferro di Perth, Achab lo tese esclamando: — Ascolta, nantuckcettese; qui in questa mano io tengo la sua morte! –

-Che Iddio ti protegga allora, vecchio… vedi questo? — indicando la branda, — Non ne seppellisco che uno dei cinque uomini robusti che soltanto ieri erano in vita, e prima di notte sono morti. Soltanto questo seppellisco; gli altri sono stati sepolti prima di morire; voi navigate sulla loro tomba.

E all’equipaggio: – Mettete la tavola sulla murata e sollevate il corpo; così, ecco. Oh, Dio! … esclamò avvicinandosi alla branda con le mani al cielo: – che la resurrezione e la vita…».

– Braccia alle vele! Barra sopravvento! — gridò come il fulmine Achab ai suoi- e intanto si sentì il tonfo del cadavere in mare.

E mentre Achab ora s’allontanava dalla «Gioia» triste, lo strano gavitello trainato alla poppa del «Pequod» apparve con vistosa evidenza.

E si alzò nella scia una voce profetica:

-E’ inutile, voi, che fuggiate dalla nostra sepoltura, ci voltate le spalle per mostrare la vostra bara! –

9. Continua


La traduzione del romanzo di Herman Melville, di cui Succedeoggi sta pubblicando un ampio sunto, è di Alessandro Macchi. Le fotografie originali sono di Roberto Cavallini.

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