Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Chi è il mostro?

Esce finalmente in Italia il nuovo film del maestro giapponese Kore’eda Hirokazu, "Monster": un'inchiesta - attraverso tre diversi punti di vista - nel mistero di ciascuno di noi. Da non perdere

“Chi è il mostro, chi è?” cantilenano i ragazzini con voci ancora infantili e consapevolezza già adulta. In questa domanda – ripetuta come una filastrocca che lega i tre capitoli con cui viene raccontata allo spettatore una storia di apparente normalità – sta la chiave del magnifico film del regista giapponese Kore’eda Hirokazu, finalmente nelle sale dopo aver vinto la Palma per la migliore sceneggiatura a Cannes 2023.

Che c’azzecca allora il titolo italiano, L’innocenza, al posto del titolo internazionale Monster, traduzione dell’originale Kaibutsu che vuol dire appunto mostro? Niente c’entra. Ma tant’è, l’importante è che finalmente il pubblico italiano possa godersi questo nuovo capitolo della filmografia del regista e sceneggiatore che meglio di tutti sa raccontare i rapporti tra le persone e le famiglie che si scelgono per elezione e non per sangue (basta ricordare la Palma d’oro Un affare di famiglia e il suo penultimo film Le buone stelle-Broker).

Per la prima volta Kore’eda non firma la sceneggiatura che affida a Sakamoto Yūji, mentre la colonna sonora è l’ultima di Sakamoto Ryūichi, il celeberrimo autore delle musiche di Furyo, L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto, scomparso proprio alla vigilia di Cannes.

Monster (per me resta questo il titolo della pellicola) si guarda con empatia immediata e col fiato sospeso, non perché sia un thriller anche se ne ha la tensione, ma perché ci coinvolge da subito in qualcosa che conosciamo tutti e ci bastano le prime scene per capire che questa storia ci resterà dentro. Perché è da quella domanda: chi è il mostro? che cominceremo a riconoscere l’eco che collega la pellicola ai tempi che stiamo vivendo. Attraverso una storia come tante, Kore’eda ci sbatte in faccia un messaggio che mette in discussione la nostra consuetudine di giudicare tutto e subito, affermando verità inoppugnabili: attenzione, niente è come sembra, non c’è mai una sola versione dei fatti, una sola narrazione possibile. Soprattutto quando il mondo degli adulti incontra il mondo dei bambini.

Kore’eda ci racconta una storia in cui niente è semplice anche se semplice sembra, così semplice che lo spettatore fa proprio il primo punto di vista che il regista propone, quello della madre single Saori, concludendo senza dubbi: il mostro è lui.

Ma chi è il mostro? Il maestro Hori che apparentemente maltratta i suoi alunni fino alla violenza fisica? O piuttosto i vertici scolastici, a cominciare dalla preside Fushimi, che lo obbligano a umiliarsi davanti ai genitori dei suoi studenti, rivelando il lato oscuro della società giapponese che sempre impone il sacrificio dell’individuo pur di tutelare l’istituzione? O forse i ragazzini non sono innocenti come sembrano: Minato, l’accusatore del maestro, confessa di aver mentito e i suoi compagni di classe non sono migliori di lui visto che bullizzano il piccolo Eri, il “marziano” che Minato non ha il coraggio di difendere.

A poco a poco lo spettatore scopre che il dramma viene innescato da un errore di valutazione di Saori, la madre di Minato, e che questo misunderstanding è la conferma che il mondo dei bambini resta incomprensibile per gli adulti, nonostante tutti gli sforzi che facciamo.

Non rivelerò qual è la “verità” di questa storia raccontata (in molti hanno evocato Rashomon) attraverso tre punti di vista: prima quello di Saori, poi quello del maestro Hori, infine dallo sguardo dello stesso Minato. Non dirò cosa si nasconde dietro i conflitti che improvvisamente turbano la quieta routine di una scuola elementare giapponese, convincendo lo spettatore a mettere in discussione le certezze iniziali e ad ammettere che nel mondo delle relazioni tutto è maledettamente complicato.

Credo che in questo film complesso e insieme delicatissimo Kore’eda affidi una riflessione cruciale proprio al personaggio meno empatico della pellicola, la preside Fushimi, barricata nel suo silenzio imperturbabile e nelle formule di cortesia che l’istituzione scolastica giapponese le impone. Quando Minato infine le confessa che ama una persona ed è per questo che ha mentito, lei ammette di avere fatto la stessa cosa e gli dice queste parole: «Se la felicità potessero averla solo alcune persone, quella non sarebbe felicità, sarebbe una sciocchezza. La felicità è qualcosa che chiunque può avere». Dunque anche i “mostri”. Imperdibile.

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