Suggestioni olimpiche
Il messia della pallavolo
Gioie e dolori di uno sport che suscita - da sempre - grandi passioni: la pallavolo. Dal ko maschile alla "resistenza" femminile. «Ma l'oro non è tutto», come dice il filosofo Julio Velasco
Che cosa è il tifo? È qualcosa che ti abbatte e ti esalta, ti dona speranza e ti fa precipitare nella tristezza. La migliore definizione del tifoso la dette Giovanni Raboni quando scrisse: «Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita, di sé stessi, di quello che si è stati, di quello che si spera di continuare ad essere».
Proprio così. Quindi, ragazze del volley, forza e coraggio, serve un ultimo sforzo per prendere quell’oro che noi tifosi aspettiamo da anni. Quell’oro tabù. Quando guardo la pallavolo mi prende la nostalgia. Mi dicono che la nostalgia è qualcosa di negativo, culturalmente sbagliata e retrograda, reazionaria. Guardare avanti. Ci provo.
Tutto cominciò su una spiaggia del litorale flegreo, Lucrino, là dove adesso la terra continua a salire per il bradisismo e dà degli scossoni di terremoto che mettono angoscia. Era un’era glaciale fa, gli anni Sessanta, non si chiamava beach volley. Un pugno di giovani amici che stavano in riva al mare fino a notte. Un pugno di boomers che ancora si vede, si cerca, si vuole bene. C’era una filo di spago corposo tra le cabine che occupavano tutto il litorale: l’avidità dei padroni dei bagni – adesso si chiamano balneari e fanno pure sciopero – non era minore di quella di oggi e la consapevolezza che il mare fosse di tutti era un concetto di pochi rivoluzionari. Si giocava sei contro sei e non si girava, non cambiavamo le posizioni. Tre sotto rete, tre dietro, in difesa. Così ci furono un torneo vinto, la serata con la premiazione e la coppa, l’esibizione da maschi teenagers. Dopo vennero la rete, i campionati con i cartellini, arbitri e classifiche e le trasferte. Arrivammo fino alla C. C’erano i campi in asfalto e le palestre senza docce, qualche raro palazzetto. Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita.
Vedere gli azzurri di Fefè De Giorgi perdere in malo modo contro la Francia è stato un colpo basso. La chiamano la maledizione del volley. Come se ci fosse una fattura sopra la rete. Noi della pallavolo aspettiamo questo messia dal tempo dei tempi. Diciamo da quarant’anni, Los Angeles 1984. Quattro volte campioni del mondo, Europei, World League, sì, è vero, abbiamo vinto ogni cosa. Ma la gioia più grande ci è negata: l’oro olimpico. Anche la generazione dei fenomeni, Lucchetta, Giani, Papi, Zorzi, Bernardi, il povero Bovolenta, ha fallito. Ci hanno provato. Invano. Ad Atlanta 1996 pareva quasi fatta, invece fu Olanda. Poi il doppio indigesto Brasile, nel 2004 e nel 2016. Le tre medaglie di bronzo sono degli ammennicoli. Anche una vittoria contro gli Stati Uniti adesso a Parigi per il terzo posto non colmerà la delusione.
Viva dunque le ragazze dell’Italvolley. Pure loro contro le americane. Mai le donne erano arrivate ad una medaglia. E questa impresa porta la firma delle varie Egonu, Sylla, De Gennaro, Antropova, Orro, Fahr ma soprattutto è il capolavoro, l’ennesimo, di Julio Velasco. Che non è un semplice coach, è qualcosa di più. È un assemblatore di energie e di talenti. L’argentino ha messo mano ad un gruppo lacerato dalle polemiche, ha usato la sua intelligenza, ha dosato le forze, ha trovato soluzioni tecniche. Perché è un uomo che sa dare la giusta dimensione alle cose e alle persone. Sentite quello che ha detto di Paola Egonu, la stella della squadra (leggo sulla Gazzetta un articolo di Elisabetta Esposito): «Mi fa sempre impressione, ogni volta che vedo una foto della nazionale c’è Paola. Di certo dà molti like… Conosco bene il meccanismo della personalizzazione, l’ho vissuto in prima persona. Alla fine, se Paola fa bene è la migliore di tutte, se sbaglia una palla è la colpevole. È come per il rigore di Baggio…».
Quando gli hanno chiesto di Imane Khelif, la pugile algerina oggetto di una velenosa campagna – pare organizzata dalla disinformazione russa – in cui si è distinta la destra mondiale da Trump alla Meloni, a Salvini, l’allenatore fuggito dall’Argentina dei golpisti ha detto qualcosa che ha spiazzato tutti: «Siamo a favore o siamo contro la pugile con una facilità assurda. Molti prendono posizione pur non sapendo di che cosa si tratti. Io credo che dovremmo accettare l’esistenza di cose complesse e questa dell’identità di genere è una di quelle… Tutti parlano di Imane Khelif ma se uno guarda il suo fisico e quello di altre atlete, e non faccio nomi se no finisco come Zeman, beh io avrei più sospetti sui fisici di altri atleti che su quello della pugile. Io faccio fare pesi ai miei giocatori da quarant’anni e faccio fatica a credere che certi fisici si costruiscono solo con il lavoro in palestra. Poi, dai controlli antidoping non viene fuori nulla e non possiamo dire nulla, però… Non capisco questo scandalo per la pugile e poi nessuno dice nulla su altre situazioni che solo a vederle…».
Ecco, un uomo che ragiona così riesce spesso a conquistare anche la stima dei propri atleti. A far capire a personalità forti come la Egonu come comportarsi. Perché la ragazza di Cittadella, genitori nigeriani, è stata spesso sotto pressione, criticata per i suoi malumori verso la nazionale e verso chi la guidava (l’ex ct Mazzanti), tirata in ballo con accenti razzisti dal generale Vannacci, ora onorevole europeo della Lega («i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità»). Fiona May lo ha detto chiaro e tondo ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera: «L’Italia è andata indietro di vent’anni. Vent’anni fa non c’era tutto questo razzismo. O forse semplicemente non c’erano i social. I social su cui qualcuno scrive che Larissa non è italiana. Ma come si può?». Sta dicendo che siamo un Paese razzista? «Sto dicendo che l’Italia sta andando indietro anziché andare avanti. Che c’è qualcosa nel subconscio del Paese… Non mi piace neppure quando i telecronisti dicono: Larissa ha un papà italiano, la mamma invece… Io ho gareggiato con la maglia azzurra per tutta la vita». Larissa è arrivata ai piedi del podio nel salto in lungo e a lei vanno solo applausi. Crescerà ancora. La aspetteremo e la abbracceremo sempre.
Così sosterremo queste ragazze della nuova Italia. Comunque. Perché bisogna ascoltare il vecchio saggio Velasco. Dopo il 3-0 alla Turchia in semifinale, il coach ha detto: «Io credo che la pallavolo italiana deve smettere di parlare dell’oro che manca, è stato deleterio per la squadra maschile, basta guardare sempre quello che manca, lo dico anche per i giornalisti. È una cultura, l’erba del vicino è sempre più verde, una filosofia di vita che non va. L’oro olimpico arriverà quando arriverà, è importante riuscire a dare il massimo, che i nervi non ci tradiscano».
Giusto. Ma noi siamo tifosi, mister.