Danilo Maestosi
Al Casino dei Principi di villa Torlonia di Roma

Růžena e le altre

Emma Buzzacchi, Maria Grandinetti Mancuso, Ruzena Zatkova: sono le perle di diamante di una bella mostra sull'altra faccia dell'arte (al femminile) al tempo del fascismo

Una mostra di sole donne, in scena fino al 6 ottobre al Casino dei Principi di villa Torlonia: Artiste a Roma. Quasi una seconda puntata che prosegue l’esplorazione delle vicende artistiche della capitale nel primo Novecento, partita con l’esposizione sui protagonisti dell’espressionismo, in corso alla Galleria comunale di via Crispi, appena recensita su Succedeggi (clicca qui per leggere la recensione). Una cabina di regia solo apparentemente diversa, l’Ufficio ville storiche, passato da pochi mesi alla direzione di due storici d’arte, Federica Pirani e Claudio Crescentini, che avevano sigillato per anni la programmazione del museo d’arte comunale, alle spalle di via del Tritone. Lo stesso taglio curatoriale, la stessa volontà di ricucire la trama complessa di relazioni e influenze che spiega e sostiene la storia dell’arte spingendosi, oltre i confini di quotazioni e notorietà tracciati della critica più pigra o più preoccupata di adeguarsi al sistema e al già visto. Lo stesso bacino di ricerca, la vita culturale della città, controllata o costretta a convivere col regime fascista. Qui però ampliato di almeno un decennio, per dar conto delle spinte espressive importate dal resto dell’Europa come il liberty. Del terremoto del movimento di Marinetti che nel primo dopoguerra incanala il suo fervore di progresso verso altre strade più rassicuranti, del recupero del classicismo e della tradizione, promosso dalla rivista Valori Plastici come orizzonte di tregua, argine contro il furore iconoclasta delle avanguardie.

Percorsi tra Secessione, Futurismo e ritorno all’ordine, è l’efficace sintesi del sottotitolo della mostra. Ed anche un modo per distoglierci dalla tentazione, di usare anche qui, lo stesso metro di misura, la rivolta dichiarata ma manifestata con le armi simboliche della deformazione, contro le regole, le trasformazioni, i divieti modellati sulle nuove ambizioni imperiali della gerarchia in camicia nera.

No, le donne, sotto il fascismo, inchiodate in famiglia al ruolo di madri e fattrici, subordinate in società al potere dei maschi, non potevano permetterselo. Tanto più se praticavano il mestiere dell’arte: troppo emotive, fragili, dispersive, inadatte per poter puntare al successo d’alta classifica, come i loro colleghi, sosteneva Mussolini, senza però mai spingersi a negare loro l’accesso a ribalte di studio e di passerella, come avrebbero voluto, salvo rare eccezioni, molti suoi camerati di governo.

Più facile ottenere il lasciapassare nei salotti della Roma bene, e nei circoli della bohème capitolina, dove la libertà della stravaganza e persino delle inclinazioni sessuali, non incrociava gli stessi tabù. Non erano le occasioni, dunque a mancare a questo folto gruppo di artiste. Era il loro campionato ad essere declassato. E a declassare la memoria delle loro apparizioni. Persino del loro nome: molte per quieto vivere e scarsità di occasioni dovevano occultare il cognome sotto quello del marito. E non è un caso che ancor oggi, almeno per il grosso pubblico, ad ancorare il loro ricordo, la loro impronta d’artista è il lustro di compagni, parenti, amici e colleghi maschi. Un esempio? Emma Buzzacchi, senza quel Quilici in aggiunta non mi sarebbe venuto di associarla al figlio Folco, grande documentarista che ho conosciuto.

Neanche la ripresa d’attenzione del femminismo per l’altra metà del cielo, che data ormai mezzo secolo, è riuscita a scalfire le rimozioni e i tagliafuori di questo sistema patriarcale di fama, anche strameritata, ma concessa in prestito. Delle trentatré artiste chiamate in passerella, si contano sulle dita di una mano, le poche che un visitatore non esperto è in grado di riconoscere, per averne visto le opere, o per averne letto o sentito chissà quando e dove parlare. Un’ingiustizia e uno spreco imperdonabili, visto il fascino dei quadri e delle sculture esposte al Casino dei Principi.

Forse l’unico rimedio che mi sento di suggerire per risarcire le vittime di questa rimozione collettiva – e non precipitare nei sensi di colpa – è di accostarsi ai lavori che a primo sguardo più ci parlano e ci invitano ad abitarli, come ci succede in un’antologica qualunque di autori sconosciuti quando la sorpresa ci inchioda alla ammirazione, alla sosta, alla voglia di saperne di più. Emozione che le pubblicazioni preparate per l’occasione in due versioni diverse (un fascicoletto gratuito e un corposo catalogo edito da De Luca con l’intero repertorio di immagini) ci permettono di rendere meno volatile con un ricco corredo di informazioni e schede biografiche.

Credo che anche i curatori si siano fatti guidare da un criterio analogo scegliendo come immagine manifesto il quadro di un artista tra le meno conosciute del lotto. Si intitola Astrazione da natura morta ed è datato1925. A firmarlo è Maria Grandinetti Mancuso (1891-1977), origine calabrese, studi d’Accademia a Napoli e poi nel 1912 trasferimento a Roma, insieme al marito Antonio, facoltoso avvocato, dove trova nell’amicizia con Roberto Melli il suo trampolino di lancio. La sua voglia di conoscersi e dirsi, eternamente inappagata da una ricerca di verità, che la incalza e le sfugge la porta in pittura a cimentarsi in vari stili per poi approdare al vasto campo espressivo della rivista e del movimento Valori Plastici.

Seguendo una vena metafisica che si può rintracciare anche in questa piccola tela, che in realtà non ha nulla di astratto. Dominata da una figura femminile che probabilmente è il suo autoritratto, gli stessi capelli a caschetto, lo stesso piglio di sfida di una foto in bianco e nero esposta nel prologo della mostra. Diverso è il taglio delle labbra sospeso in un’espressione di ironico distacco, e ancor più il taglio degli occhi, due mezze lune senza pupille, La carne immersa in un biancore sporco e stralunato da statua che galleggia contro uno sfondo appiattito da un giallo ocra improbabile. Una consapevolezza del suo ambiguo ruolo di donna che ci investe come l’enigma di una sfinge androgina, immergendoci in uno specchio di tempo arcaico e modernissimo che sottrae questa prova d’autrice a ogni confine d’epoca. La forza e il proclama di un mistero che è e sarà. Come quel cespo nero da pianta grassa che spunta da un vaso accanto come un’ombra.

Per un artista come lei, ossessionata dalla perfezione, inseguita con una caparbietà che aveva strappato parole d’ammirazione a un critico severo e illuminato come Alberto Savinio, il premio di un traguardo raggiunto. Ma forse anche la beffa di aver toccato un punto in cui il suo talento e l’intelligenza delle proprie intuizioni misuravano la propria fine. Così ci lascia almeno intuire la decisione di abbandonare studio e pennelli per darsi alla scrittura e al giornalismo. Due attività che costellano e documentano l’ultimo scorcio della sua vita: morirà in manicomio, dove verrà internata. La stessa malattia di altri ricoverati al Santa Maria della Pietà: la voglia di aver troppe cose da dire in una volta sola.

Le voci folli dell’invisibile e una vena mistica fuori del comune alimentano il fuoco creativo di un’altra grande artista e mal valutato talento , che questa mostra mi ha fatto scoprire: Růžena Zátková (1885-1923, nella foto qui sopra), ricca famiglia boema, studi a Praga e Monaco, solida amicizia con Natalia Goncarova, punta di diamante dell’avanguardia russa, un marito, anch’esso russo che fa il diplomatico e con cui si trasferisce a Roma nel 1910, una frequentazione di salotti che prima la porta a casa Balla, poi a casa di Marinetti, che la assolda nel giro dei futuristi.

Grande il risalto che i curatori le hanno concesso, sfruttando il recupero e il riallestimento spettacolare dell’intero campionario di fogli acquarellati che l’autrice aveva esposto nel 1923, nella prestigiosa galleria Bragaglia: tredici tavole sulla Vita del Re David secondo le leggende bibliche, che Růžena Zátková, scampata alla morte per tisi, aveva dipinto a sigillare la sua conversione al Cristianesimo. Un tripudio di colori e figure dipinte con accentuato spirito popolare, incastonato da scritte e grafemi, che rompeva ogni schema di libro sacro: una sorta di diploma di laurea per i futuristi, per Marinetti e per sua moglie Benedetta Cappa (nella foto più in alto) che l’aveva adottata come amica del cuore. Un colpo d’ala di messa in scena circondare il corridoio che raccoglie queste illustrazioni, con una parata di altri fogli firmati da Benedetta per arricchire di immagini in bianco e nero, sintesi dinamiche del corredo di emozioni contenuto in un suo romanzo. È giusto proseguire questo capitolo con due tele di marcata impronta futurista, un trionfo di vetri che sembra innalzare e farci danzare davanti una città di gioiosi fantasmi, e un ritratto del padre fondatore del futurismo avvolto da un vortice di colori accesi e vibranti. Marinetti ne vantava i meriti quasi fosse una sua creatura. La Zátková non esitò a smarcarsi da questo scomodo e riduttivo abbraccio, scrivendogli così: «Il futurismo è per me cerchio, io sono spirale. Sono fatta tutta di cerchi, ma cerchi aperti, non posso accettare limitazioni, non voglio prendere nessuna marca e nessuna etichetta».

Lo stesso messaggio di libertà inventiva affidato a due lavori del 1920 che chiudono questo straordinario siparietto d’autrice. Sono due paesaggi invernali realizzati con collage di carte e veline, schegge di vetro, resti di asfalto. Le svolte dell’arte materica, dell’arte povera, dell’arte concettuale anticipate di decenni. Correva troppo veloce per essere fermata e incasellata Růžena Zátková. Peccato accorgersene un secolo dopo.

Non aggiungo altri nomi. La rosa è troppo ampia, la qualità complessiva molto alta. Libero il visitatore di scegliere altre protagoniste, altre opere a suo piacere. Ben inquadrate dal copione a capitoli, un po’ rigido ma utile a scandire il percorso delle varie linee di tendenza, racchiuse in quel quarantennio. Occhio però anche alle biografie. L’arte a mio avviso non ha sesso, ma le storie personali sì. E possono spiegare quanto faticoso sia il tragitto che queste autrici hanno dovuto seguire, dentro e fuori la propria famiglia.

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