Un racconto volatile
Rondini in città
«Nella penombra, s'intravedeva appena: un malloppetto scuro sotto la grondaia. Una macchietta nera. Chissà se era abitato, se dentro c'era un uccello che dormiva. Ho sentito parlare di uccelli che rubano il nido ad altri...»
Degli uccelli, delle rondini credo, hanno fatto il nido sul mio balcone. Era mattina presto e me ne stavo sulla panca in cucina, aspettando l’ora di uscire. Lo sguardo m’è caduto su quella cosa, oltre il vetro. Un pallocco scuro incastonato sotto la grondaia.
Scendendo, ho incontrato la portiera.
“Ha visto quante rondini,” m’ha detto. “Sono tornate. Era da anni che non ne vedevo tante.” Stava spazzando il tratto di marciapiede davanti al portone. Indicava quel viavai, su in cielo. Pareva contenta.
Ho fatto la strada a piedi, costeggiando i giardini pubblici. Ogni tanto alzavo gli occhi sopra le chiome degli alberi ne ho viste un bel po’. Tutt’uno sfrecciare di voli.
In ufficio è stata una giornata fiacca. Nel mio lavoro, per molto tempo non c’è niente da fare. Nessuno fa niente. I telefoni squillano, la gente sta incollata davanti ai computer, si indicono riunioni, segretarie e fattorini vanno e vengono. Ma in realtà, dietro questo fervore, c’è una gran calma. Una profonda, consapevole calma. E assolutamente niente da fare.
Ero appena rientrato dall’Africa e mi stavo ancora ambientando. Riambientando. C’ero stato dieci anni, in diversi paesi, a costruire dighe. Le prime tre andarono bene. Poi, sulla quarta, successe qualcosa. E mi decisi a tornare. Non fu una decisione improvvisa, era un po’ che circolava dentro. Mi dicevo: prima o poi dovrò farlo. Quella che avevo colto era solo l’occasione. La piccola difficoltà che aspettavo. Col tempo, uno matura delle risoluzioni e quasi non se ne rende conto. Finché avviene un fatto – incontra quel certo ostacolo, subisce una battuta d’arresto, incassa una modesta sconfitta – e la cosa si rivela. Tu ti dici che non è l’occasione che conta, ma la cosa che ti ha rivelato. Quella che stava lì da tempo acquattata e aspettava solo di uscire. Però non lo sai con certezza. Magari era l’occasione, la cosa importante.
Comunque in questo racconto mi atterrò alla prima versione. Quindi non parlerò dell’occasione, ma della decisione che maturò. Poi c’era l’altro aspetto della questione. O meglio, gli altri: i colleghi. Ne avevo visti parecchi, più anziani di me, che dopo anni passati all’estero non avevano più ritrovato la via di casa. Alcuni avevano famiglie rovinate, altri non ne avevano mai avute. Ma non era questione di famiglie, si trattava di loro. Quello che una lunga assenza può farti, come ti cambia. Parecchi in Italia non ci sapevano più vivere. Perciò s’infilavano in qualche buco d’Africa o di Sud America o d’Oriente, e non tornavano. Quelli che ci provavano, dopo qualche mese ripartivano. Finché potevano. Quando invecchiavano, e il lavoro li scaricava, duravano a casa un anno, forse due. Poi s’ammalavano e morivano. Mi dicevo: fallo in tempo, stai perdendo le radici.
Insomma, l’avevo fatto. Ero di nuovo a casa. Avevo cambiato azienda. M’ero trovato un angolino in una società molto più piccola, basata a Roma. M’ero comprato un appartamento coi soldi degli anni fuori. Un bell’appartamento, centrale, venti minuti a piedi dall’ufficio. Quanto alla storia dei colleghi… beh, funziona anche raccontata così. Ha una sua logica. Uno le trova sempre, delle ragioni. Adesso ero ficcato in una stanzetta al quarto piano, con un ruolo nei servizi tecnici della sede centrale. Un lavoro schifoso. Niente a che fare col cantiere. Un tran tran vomitevole. Questo pensavo allora. Ero ancora in quella fase, il riambientamento. Mi sentivo un po’ fuori posto, forestiero. Non più in sintonia con la mia vecchia città. Però c’ero, malgrado tutto. Il resto l’avrebbe fatto il tempo.
Ho passato la mattinata scambiando qualche battuta coi colleghi, prendendo delle telefonate, scrivendo lettere. Ho mangiato a mensa, aggregandomi al gruppo del secondo turno. Posso stare indifferentemente nel primo o nel secondo. Non che mi trovi bene. In nessuno dei due. Il pomeriggio è stato la stessa cosa della mattina, solo un po’ più lunga.
La sera, al bar, ho chiesto a Nancy la mia solita birra. Nancy è una ragazza di Aberdeen con molte lentiggini e un naso tutto incurvato verso l’alto. Quello che io chiamo bar, oggi si chiama pub. E’ uno di quei posti sedicenti irlandesi che hanno attecchito con gran rapidità qui da noi. Mi piacciono. Ci si beve bene. Ci si può star bene anche da soli. Qui da noi, i posti dove si può star bene da soli sono più rari che altrove.
C’era una bell’aria e mi sono messo fuori. Nancy aveva già spostato dei tavolini sul marciapiede. Ne ho preso uno un po’ defilato e mi ci sono portato la mia Guinness. Poi ne ho bevuta una seconda e una terza. Poi sono andato in bagno e ne ho bevuta una quarta. Così, quando mi sono alzato, la testa mi girava un po’. Ho fatto a piedi il tratto di via Lanza che porta a casa mia e poi i tre piani che salgono al mio appartamento. Quando sono arrivato su, mentre accendevo la tele ho ripensato al nido. Sono andato in balcone a guardarlo.
La luce che arrivava dalla finestra della cucina tracciava un riquadro chiaro sul pavimento a mattonelle grigie della veranda. Nella penombra, s’intravedeva appena: un malloppetto scuro sotto la grondaia. Una macchietta nera. Chissà se era abitato, se dentro c’era un uccello che dormiva. Ho sentito parlare di uccelli che rubano il nido ad altri. Di altri che se lo mangiano. Diverse storie di uccelli.
La mattina dopo era una bella giornata. Proprio primavera. C’era un’aria sottile, frizzante, che entrava dalla finestra aperta. Mentre mi facevo il caffè sono uscito in balcone. Ho guardato meglio, alla luce del giorno, quella sacca marrone-fango. Una specie di favo con un buchetto così piccolo. Ce la faranno a entrarci da quel forellino, mi sono chiesto.
La giornata è andata come al solito. La sera ero al bar, al mio tavolo fuori, sul marciapiede, quando è venuta a sedersi Nancy. Lo fa, ogni tanto. Quando non ci sono troppi clienti e scarseggiano i suoi amici inglesi. C’è un bel po’ d’inglesi che vanno e vengono, qui. Io li chiamo tutti inglesi per semplicità, ma loro si dividono in irlandesi, americani, australiani, scozzesi. Una piccola comunità anglosassone, nomade e in continuo rinnovamento, si raduna in questo bar. Ha trovato casa, questo posto le appartiene. Resta sempre la stessa, pure se le facce cambiano.
Nancy mi ha detto che sarebbe tornata ad Aberdeen domenica. Parliamo indifferentemente inglese o italiano. Il mio inglese è un po’ meglio del suo italiano, ma non molto, non molto meglio.
“Sicché torni in Scozia?”
“Sì. Bisogna proprio che mi trovi un lavoro.”
“Beh, hai un lavoro, qui…”
“Oh, questo va bene per starsene in giro e pagarsi le spese. No, un lavoro vero. E’ ora di fare sul serio. Ormai è cinque anni che sono via.”
“Però, così giovane. Come mai tanto tempo?”
“Dieci ragioni, forse quindici… E anche per un po’ d’avventura. A vent’anni uno ha diritto a un po’ d’avventura.”
“E l’hai avuta?”
“La mia parte.”
“Che farai, ora che torni?”
“Non so ancora. Forse finisco gli studi. Ero al college, prima di partire. Non ho mica fatto sempre la barista. Per mantenermi insegnavo inglese, in Grecia, l’anno scorso.”
“Ma guarda… anch’io sono stato in Grecia. Ci ho fatto la mia prima diga.”
“Vedi? Abbiamo qualcosa in comune.”
“Potresti insegnare qui. Meglio che servire al pub.”
“Qui non mi prendono, non ho abbastanza titoli. No, me ne torno ad Aberdeen. Devo sistemarmi. Sul serio.”
“Mai troppo tardi, secondo me, per cominciare a fare sul serio.”
“Tu un lavoro ce l’hai. E un po’ di soldi. E una casa.”
Non so come, allora m’è venuto di parlarle del nido. Le ho detto che quelle rondini l’avevano fatto proprio sul mio balcone. Ma non ero ancora riuscito a vederle. Sembrava abbandonato.
“Un vecchio nido vuoto,” ha detto Nancy.
“Non è vecchio, il mese scorso non c’era. Però sembra vuoto.”
“Chissà, forse l’hanno fatto e poi sono andate altrove.”
“Ha un forellino così piccolo che non so proprio come fanno a passarci.”
“Di che è fatto?”
“Mah, sembra fango con qualche pezzetto di paglia dentro. O i loro escrementi, chissà.”
I tavoli andavano riempiendosi e Nancy è dovuta tornare di là. Non era tardi, non era neanche del tutto scuro. Ho bevuto qualche birra e fumato due o tre sigarette. Dopodiché sono tornato a casa. Non ci ho pensato più fino all’indomani.
Era sabato e non avevo l’ufficio, ma mi sono alzato presto ugualmente. Mi alzo presto ogni mattina, per abitudine. Le prime ore della giornata sono quasi sempre le sole buone, secondo me. Avevo fame e ho fatto colazione. Con dello yogurt e del miele, un miscuglio che ho imparato in Grecia, quando stavo laggiù. Parlarne con Nancy me l’ha ricordato. Qui da noi non è la stessa cosa. Lo yogurt non è abbastanza denso. E il miele non è abbastanza profumato. Sono uscito in balcone, con la mia ciotola in mano, e la prima cosa che ho visto è stata quel nido.
Curioso, mi pareva d’essermene scordato. E’ stata una cosa buffa, come se mi accorgessi all’improvviso di avere qualcuno in casa. Un ospite che non ricordavo. Faceva già luce e l’aria era fresca, non c’era altro che il buon silenzio del palazzo ancora addormentato e quel nido vuoto. Ho mangiato yaourti-me-meli appoggiato alla ringhiera, fissandolo. Poi ho usato il manico del cucchiaino per frugarci dentro. Niente, non c’era niente. Era solido e secco. A picchiarci sopra suonava come una zucca.
La giornata era bella e non avevo nulla da fare. Ho preso la macchina e mi sono diretto fuori città. Lo faccio, ogni tanto, il sabato. A quell’ora le vie erano ancora deserte, ho raggiunto presto il raccordo e ho preso una delle autostrade. Guidare mi piace abbastanza, almeno per un po’. Dev’essere il fatto del movimento. I posti che cambiano e l’aria che entra dai finestrini. Dopo un’oretta stanca anche quello. Così sono uscito dall’autostrada e ho imboccato una laterale che porta al mare. Attraversava una pineta e arrivava dritta alla spiaggia.
La spiaggia era sporca. Le mareggiate ci avevano accumulato su alghe, canne e immondizie. L’acqua era verde e torbida. Sono stato a guardare uno che portava a spasso un cane. Un bel cane bianco, di grossa taglia. Il padrone era giovane e tutti e due emanavano un senso di prestanza fisica e di vigore. Uno raccoglieva oggetti sul bagnasciuga e li scaraventava in mare. L’altro si tuffava a recuperarli. C’erano spruzzi e odore di salsedine nell’aria. Ho passeggiato fino a un capanno, una specie di bar. Ci si poteva mangiare qualcosa.
La sera, volevo salutare Nancy. C’era un gruppo di inglesi a festeggiarla, così ho dovuto aspettare. Mi sono messo al mio tavolo con la mia birra. Gli inglesi, specie quelli giovani, hanno quel loro modo chiassoso di festeggiare. Un po’ forzato, secondo me, è come dicessero: abbiamo deciso di divertirci e lo faremo a tutti i costi. Volitivi in tutto, gli inglesi. Me ne sono rimasto da parte e non ho bevuto meno birra di nessuno di loro, mentre aspettavo.
Sul tardi, Nancy è venuta al mio tavolo. Mi ha mostrato un disegno.
“Guarda cosa mi hanno regalato,” ha detto.
Era arrotolato, una specie di pergamena. Sopra c’era uno schizzo del pub, col bancone, lo scaffale di bottiglie e la caricatura di Nancy che spillava birra. Sotto c’erano dei nastrini e dei bolli con la ceralacca. Nella scritta a caratteri gotici spiccava la parola “honor”. Decoravano Nancy per aver servito birra “with honor” in quel pub per dieci mesi di fila.
Mi è parso che forse avrei dovuto farle anch’io un regalo e mi è dispiaciuto non avere niente con me. Così, non so perché, le ho proposto di accompagnarla all’aeroporto la mattina dopo.
Nancy mi ha guardato con una faccia. Pareva molto sorpresa. Ci ha riflettuto un po’, guardandosi intorno. Gli inglesi erano andati tutti via.
“Va bene,” ha detto. “Ma guarda che ho il volo presto, bisogna partire all’alba.”
“Non è un problema. Mi alzo prestissimo tutti i giorni.”
Abbiamo bevuto un altro po’ insieme e poi fatto la strada fino a casa mia. Era la prima volta che ci portavo Nancy. S’è stupita per quant’è grande e m’ha detto che la trovava bella, ma un po’ spoglia.
“Si vede che ci stai da solo,” ha detto.
“Che ci torni a fare ad Aberdeen?”
“Beh, è la mia città,” ha detto lei.
“Sì, ma hai qualche vera ragione per tornarci?”
“Qualche vera ragione? Senti, ci sono nata.”
“C’è qualcuno che ti aspetta, lì?”
“Sì, mia madre. E degli amici.”
“Parlami di Aberdeen, allora.”
“Oh, è talmente diversa da qui. D’inverno è buia e ci fa molto freddo. E’ ventosa. E d’estate le giornate sono interminabili.”
“Non ne so proprio niente, di Aberdeen. M’immagino una specie di città polare, coi pozzi di petrolio schierati davanti, in mezzo a un oceano grigio e ringhioso.”
“Proprio così.”
Dopodiché mi sembra che non abbiamo detto più nulla.
La mattina dopo, domenica, era ancora una bella giornata. Mi sono fatto il caffè. Era molto presto, più presto del solito, cominciava appena a schiarire. Ho notato che si sentiva il cinguettìo degli uccelli. Mi sono affacciato in camera da letto e ho guardato il corpo di Nancy rannicchiato. Chissà se ci teneva davvero a tornarsene ad Aberdeen. O lo faceva solo per quel meccanismo, quando ti finisce la carica, quella specie di molla che ti riporta indietro. Aberdeen! Io non saprei proprio come fare a viverci, in un posto così.
L’ho accompagnata a prendere la sua roba e poi in aeroporto. Ma non sono entrato. Le ho dato una mano a mettere le valigie sul carrello e ci siamo salutati fuori. Poi ho proseguito fino a Fiumara e alla darsena. Mi sono messo a passeggiare e ho passato un sacco di tempo a guardare le barche ormeggiate.
La sera, quando sono tornato a casa, c’erano di nuovo tutte quelle rondini. Sono salito e mi sono affacciato al balcone. Se ne vedevano anche da lì. Mi sono preso una birra e mi sono portato una sedia fuori. Ho guardato di nuovo il nido. Stavolta non avevo l’impressione di essermi scordato niente. Sopra, di quando in quando, sfrecciava un uccello attraverso il pezzo di cielo inquadrato dalla chiostrina. Sono rimasto in balcone finché imbruniva. Magari una rondine sarebbe scesa e avrei visto come faceva a infilarsi nel nido.
Il disegno accanto al titolo è di Giulia Cavallini