Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Che noia, il Covid!

“Non riattaccare”, secondo lungometraggio del regista Manfredi Lucibello, è una storia claustrofobica che racconta (senza un vero guizzo) il tempo del Covid. Non basta un'ottima attrice, Barbara Ronchi, a fare un buon film

C’era un film che avrei voluto vedere in questo luglio di sale deserte – perché mica basta mettere il biglietto a 3 euro e 50 per portare il pubblico al cinema, qualcuno lo spieghi alla sottosegretaria alla cultura Lucia Borgonzoni che ci vuole ben altro, un progetto, un’idea, un accidente qualsiasi, svendere la cultura non funziona mai – c’era dunque un film che avrei voluto vedere e che mi sono perso perché è stato in programmazione solo qualche giorno: Horizon, la saga western di Kevin Costner girato negli spazi immensi dello Utah.

È dunque per caso, e il caso sa essere beffardo quando ci si mette, che ho visto la pellicola che è il suo esatto contrario: Non riattaccare, secondo lungometraggio del regista Manfredi Lucibello, girato quasi interamente nell’abitacolo di un’auto che corre da Roma a Santa Marinella nella notte del 28 marzo 2020.

Perché l’ho visto? Perché amo Barbara Ronchi che di fatto ne è l’unica interprete. Ma non basta una bravissima attrice a reggere un film in cui sceneggiatura e regia vacillano.
Non riattaccare ha però un merito: ricordare allo spettatore che cosa abbiamo vissuto solo quattro anni fa e quanto in fretta ce ne siamo sbarazzati. E certo è una coincidenza curiosa la tempistica di uscita del film (ispirato da un libro del 2005) e quello che sta succedendo da alcune settimane, il ritorno cioè del Covid che si aggira come il celebre spettro di Marx e a quanto pare non solo in Europa, visto che ci ha messo lo zampino nella decisione di Joe Biden di ritirarsi dalla corsa per la Casa Bianca.

Non riattaccare è un film che vorrebbe raccontare una situazione di tensione estrema, al limite del thriller, facendoci vivere un dramma che si svolge tutto in una notte in pieno lockdown, quando eravamo chiusi in casa e uscire era un miraggio. Peccato che invece della tensione il film produca ben presto una noia assoluta, anche se dura solo 92 minuti. Lucibello fa di tutto per caricare di suspense la situazione vissuta da Irene (Barbara Ronchi) che costringe il suo ex Pietro (Claudio Santamaria, per quasi tutto il film solo una voce al cellulare) a non riattaccare mentre tenta di raggiungerlo nella sua casa al mare ed evitare che si butti di sotto. Ma invece del pathos si sfiora ripetutamente il patetico: la macchina con cui Irene corre da Roma a Santa Marinella è in riserva, il cavo di alimentazione del cellulare con cui tiene inchiodato Pietro non funziona, per di più Irene ha lasciato a casa portafoglio e documenti e le pattuglie dei CC presidiano le strade.

Riuscirà a raggiungere il suo ex ed evitare l’insano gesto? Sarei tentata di raccontare per filo e per segno tutta la storia e come va a finire, ma non ne vale la pena. L’unico aggettivo che mi viene in mente per definire questo film è “claustrofobico”: lo è la storia, il set in cui si svolge, la recitazione che il regista impone all’attrice, la tecnica di ripresa fatta tutta di primi piani stretti. E quando alla fine lei percorre il sentiero sconnesso che porta all’abitazione di Pietro, la macchina da presa viene scossa vistosamente per alcuni minuti tanto da infastidire chi guarda, ma scherziamo? Ti prego, riattacca.

E pensare che io volevo vedere una saga western che dura tre ore, magari avrei sbadigliato di quando in quando, ma vuoi mettere una pellicola in cui il vero protagonista è il “fucking horizon” dei film di John Ford?

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