Herman Melville
Moby Dick/2

La nave Pequod

Seconda puntata delle suggestioni dal romanzo di Melville tradotto per Succedeoggi da Alessandro Macchi e illustrato da Roberto Cavallini. Si sale sul Pequod per scoprirne i segreti

CAPITOLO XVI
LA NAVE
Facemmo i piani per il giorno seguente. Ma con mia sorpresa e non poca preoccupazione, Quiqueg mi fece capire che aveva consultato con molta cura Yojo, il suo piccolo dio nero, e Yojo gli aveva ripetuto due o tre volte, con insistenza, che non dovevamo andare al porto assieme per scegliere di comune accordo una delle baleniere, ma che la scelta della nave doveva ricadere solo su di me. Tanto più che il buon Yojo ci voleva favorire, e a questo scopo aveva già trovato una nave che io, Ismaele, lasciato a me stesso, avrei trovato davanti a me infallibilmente, come per caso. E in questo vascello avrei dovuto subito chiedere l’ingaggio, senza preoccuparmi di lui, almeno per il momento.

Dimenticavo però di dire che Quiqueg riteneva sì le scelte di Yojo come preveggenti e degne di fiducia, ma non sempre destinate a realizzare i suoi benevoli disegni.

Il piano di Quiqueg non mi garbava troppo, ma l’indomani mattina di buon’ora mi avviai da solo verso i moli.

Dopo lunghi giri e rigiri e molte domande qua e là, venni a sapere che c’erano tre navi pronte a partire per un viaggio di tre anni a caccia di balene: la «Devil Dame», Femmina del Diavolo, la «Tit-Bit», Bel Bocconcino, e il «Pequod». Tutti ricorderete che Pequod era il nome di una famosa tribù d’Indiani del Massachusetts, ora estinta come gli antichi Medi.

Gironzolai spiando la Devil Dame, poi feci un salto rapido sul Tit-Bit e infine salii sul Pequod.

Mi guardai attorno per un istante e decisi: quella era proprio la nave che faceva per noi.

Nella vita si possono vedere molti legni bizzarri: trabaccoli a punta quadra, terribili giunche giapponesi giganti, due alberi olandesi a chiglia piatta come una burriera o … che so io. Ma sono certo che non avete mai visto un bastimento antico e raro come questo straordinario «Pequod», una nave della vecchia scuola, non molto grande, con un aspetto di vecchio mobile dai piedi ad artiglio. Stagionato e dipinto dai tifoni e dalle calme di tutti e quattro gli oceani, lo scafo era nero come la faccia di un granatiere francese che avesse fatto la campagna d’Egitto e di Russia. La prora era venerabile di barba incolta. Gli alberi, tagliati in qualche parte della costa del Giappone, dopo che gli originali s’erano perduti fuoribordo in una qualche burrasca, se ne stavano dritti, irrigiditi come le spine dorsali dei tre vecchi re della Cattedrale di Colonia. I suoi ponti erano logori e rugosi come la lastra che venerano i pellegrini nella cattedrale di Canterbury, là dove Becket versò il suo sangue. Ma a tutti questi aspetti d’antiquariato s’erano aggiunti tratti nuovi e meravigliosi, legati all’ufficio selvaggio cui la nave era adibita da più di mezzo secolo.

Il vecchio capitano Peleg, ora a riposo e comproprietario del Pequod, durante il periodo che era stato Primo Ufficiale, aveva ulteriormente accentuato l’originaria natura grottesca della nave intarsiandola con una tale bizzarria di materiali e di lavori che nulla avrebbe potuto tenere il confronto con essa, se non forse lo scudo o la lettiera scolpiti di Thorkill Hake, il famoso eroe irlandese.

La nave appariva abbigliata come un antico imperatore d’Etiopia gravato da pesanti collane d’avorio levigato. Era un cannibale di veliero, che si adornava delle ossa intagliate dei suoi nemici. Tutt’intorno, le murate erano fregiate, simili a un’unica enorme mascella, da lunghi denti acuti di capodoglio, inseriti là come caviglie per assicurarvi i suoi vecchi tendini e legamenti di canapa. Questi tendini non scorrevano in miseri bozzelli di legno terrestre, ma filavano svelti su pulegge d’avorio di mare. Sdegnando la ruota per il suo venerabile timone, il Pequod ostentava come barra, una barra di un sol pezzo, la lunga, stretta mandibola del suo nemico ereditario. Il timoniere, che governava con quella barra in una tempesta, doveva sentirsi come il Tartaro quando frena il cavallo focoso afferrandolo per la bocca.

Una nobile nave, segnata dalla malinconia.

Tutte le cose nobili portano con sé un’ombra di malinconia.

Ora, quando guardai sul cassero cercando qualcuno che avesse autorità per propormi come candidato all’imbarco, dapprima non vidi nessuno ma non mi sfuggì una strana specie di tenda, o piuttosto una capanna indiana, drizzata un po’ dietro l’albero di maestra. Aveva forma conica e si sosteneva con lunghe e grosse costole di osso nero e flessibile, quelle ricavate dalla mascella di una balena franca. In cima erano legate con un ciuffo di fibre pelose. Pareva una costruzione temporanea destinata ad essere usata solo nel porto.

Attraverso l’apertura triangolare scorsi qualcuno che all’aspetto appariva autorevole; affacciato alla tenda, dominava tutta la nave seduto su una antiquata seggiola di quercia, grinzosa di strani intagli.

Era abbronzato e robusto, come molti tra i vecchi marinai, ed era avvolto in un gabbano azzurro da pilota foggiato alla maniera quacchera. Intorno agli occhi gli si intrecciava una trama sottile di minutissime rughe, che doveva essersi formata nel suo continuo navigare in tante dure tempeste affrontate con lo sguardo sempre rivolto al vento, il che costringe ad increspare tutti insieme i muscoli degli occhi. Rughe del genere sono di notevole effetto e producono un gran bel cipiglio.

– Siete voi il capitano del «Pequod»? – dissi, avvicinandomi alla porta della tenda.

– Supposto che io sia il capitano del «Pequod», che vuoi da lui? – mi chiese.

– Pensavo d’imbarcarmi-

– Pensavi, eh? Vedo che tu non sei di Nantucket: mai stato su una lancia sfondata? –

-No, signore, mai-

-Non sai niente della caccia alle balene, scommetto eh? –

-Niente, signore, ma senza dubbio imparerò presto. Ho già fatto parecchie traversate nel servizio mercantile e credo che… –

– Al diavolo il servizio mercantile! Non pronunciare più quella parola con me! La vedi questa gamba? Te l’affibbio diritta nel deretano se la pronunci ancora! Non sei stato per caso un pirata? non hai derubato il tuo capitano, eh?

– Ma che cos’è che t’induce alla caccia? Bisogna che io lo sappia prima di pensare a imbarcarti-

– Ebbene, signore, voglio vedere cos’è questa caccia. E voglio vedere il mondo-

– Vuoi vedere cos’è la caccia alle balene, eh?  Hai mai veduto il capitano Achab, tu? –

– Chi è il capitano Achab, signore? –

– Ah ah, me l’aspettavo. Il capitano Achab è il capitano di questa nave-

– Allora ho sbagliato. Credevo di parlare col capitano in persona-

– Parli col capitano Peleg, ecco con chi parli, giovanotto.

Spetta a me e al capitano Bildad provvedere a che il «Pequod» sia ben armato per il viaggio e fornito di tutto ciò che gli occorre, compreso l’equipaggio. Noi siamo comproprietari e agenti. Ma, come dicevo, se proprio vuoi sapere cos’è la caccia, come vai raccontando, io posso metterti sulla via di capirlo prima che tu ti trovi legato e non possa più tornare indietro. Da’ un’occhiata al capitano Achab, giovanotto, e ti accorgerai che ha una gamba sola.

– Volete dire, signore, che l’altra gli è stata portata via da una balena?

– Portata via da una balena? Giovanotto, fatti più in qua: gli è stata divorata, masticata, schiacciata dalla più mostruosa balena che abbia mai azzannato una lancia! …ah-ah! –

– Ti ho dato un’idea di che cos’è la caccia: ti ci senti ancora portato?

-Sì, signore-

-Molto bene. Ora, ti senti uomo, tu, da piantare un rampone giù per la gola di una balena viva e poi saltargli addosso? Rispondi, su!

-Sì, signore, posto che sia positivamente indispensabile il farlo, che non se ne possa fare a meno, voglio dire, il che non credo. –

-Bene di nuovo; tu non solo hai voglia di metterti alla caccia per provare con l’esperienza che cos’è, ma vuoi imbarcarti per vedere il mondo? Non è questo che hai detto? Mi pare. E allora, da’ un’occhiata laggiù oltre la prora a sopravento, poi torna a dirmi che cosa vedi. –

Restai un attimo perplesso poi andai in missione sotto lo sguardo scrutatore del capitano, acuto tra le innumerevoli rughe.

-Poca roba, – risposi – nient’altro che acqua; orizzonte in quantità, però, e, credo, una burrasca in arrivo. –

-Be’, cosa stai a pensare allora di vedere il mondo? Hai voglia di doppiare il Capo Horn per vederne dell’altro, eh? Non puoi vederlo il mondo da dove sei ora? –

Rimasi un po’ sconcertato, ma alla caccia delle balene ci dovevo andare e ci sarei andato. E il Pequod mi pareva una buona nave, meglio di tante altre, e tutto questo lo dissi a Peleg.

Vedendomi così risoluto, lui si dichiarò disposto a imbarcarmi.

– Tanto vale che tu firmi subito le carte- seguimi- E così dicendo mi fece strada sottocoperta, in cabina.

Seduto su una trave dell’arcaccia poppiera c’era una figura che mi parve bizzarra e sorprendente. Era il capitano Bildad che insieme a Peleg era tra i maggiori proprietari della nave: le altre quote, com’è sovente in questi porti, erano possedute da una folla di pensionati, di vedove, orfani e minorenni, e ciascuno era padrone del valore di una testa di trave, di un piede di tavola o di un chiodo o due della nave. La gente a Nantucket investe i denari in baleniere piuttosto che in banca.

Ora, Bildad, come Peleg, e in verità molti a Nantucket, era un quacchero, poiché l’isola era stata colonizzata in origine da questa setta. Ancora oggi i suoi abitanti conservano in misura non comune le abitudini dei quaccheri, anche se modificate da tratti del tutto imprevisti e poco ortodossi, col curioso risultato che questi quaccheri sono i più sanguinari tra tutti i marinai e cacciatori di balene. Sono quaccheri da combattimento, nonostante i loro nomi biblici, uomini forniti per natura di una volontà ostinata, dominatrice e morbosa. Poiché tutti gli uomini di tragica grandezza diventano tali a causa di qualcosa di morboso: puoi starne sicuro, giovane ambizioso, che ogni grandezza mortale non è che malattia.

Come Capitan Peleg, il Capitano Bildad era un agiato baleniere a riposo. Ma mentre Peleg non stimava un accidente le cose reputate serie da tutti, Bildad era stato educato secondo le regole della setta più rigorosa dei quaccheri di Nantucket. Per Bildad né la vita oceanica, né la vista di tante creature isolane svestite e seducenti oltre il capo Horn era bastata a smuovere di un dito la piega del suo panciotto e benché, per scrupolo di coscienza, rifiutasse di imbracciare le armi contro gli invasori di terra, egli aveva tuttavia invaso illimitatamente l’Atlantico e il Pacifico e aveva spillato tonnellate e tonnellate di sangue al leviatano. Non ci è dato conoscere i pensieri della sera di Bildad il pio, ma forse era giunto alla saggia conclusione che la religione di un uomo è una cosa e il mondo pratico tutta un’altra: il mondo paga i dividendi.

Bildad aveva la fama di essere un incorreggibile vecchio taccagno, e nei suoi giorni di mare, un aspro e duro negriero anche se non si era mai rivolto con bestemmie ai suoi uomini e si era dedicato esclusivamente ai suoi interessi. La sua stessa figura era l’incarnazione esatta del suo carattere utilitario: sul suo corpo lungo e scarno non c’era carne di riserva.

Lo spazio tra i ponti era poco, e là, dritto, sedeva il vecchio Bildad, che per risparmiare le falde della giubba sedeva così senza mai appoggiarsi. Il suo grande cappello era li accanto, le gambe rigidamente incrociate: pareva assorto a leggere un libro ponderoso, l’abito scuro abbottonato fino al mento e gli occhiali sul naso.

– Bildad, -gridò il capitano Peleg – ci siamo di nuovo, Bildad? Sono trent’anni che leggi quelle Scritture, lo so. Dove sei arrivato, Bildad? –

Bildad, guardandomi con indifferenza, lanciò un’occhiata inquisitrice a Peleg.

– Vuole imbarcarsi con noi- disse Peleg.

-Tu lo vuòh !?- esclamò sordamente Bildad rivolgendosi a me in stretto dialetto quacquero.

-Sì, io lo vuòh! – gli feci eco senza rendermi conto di aver risposto con lo stesso accento.

– Che ne pensi Bildad? – disse Peleg

-Passi –rispose Bildad guardandomi e riprendendo a leggere con un brontolio il suo libro. Peleg aprì una cassetta e, tirandone fuori il contratto d’ingaggio, collocò davanti a sé penna e inchiostro e si sedette al tavolino.

Sapevo già che sulle baleniere non si pagavano stipendi, ma tutti gli uomini, compreso il capitano, ricevevano certe percentuali dei profitti chiamate spettanze o parti o quote, e che queste spettanze erano proporzionate all’importanza delle rispettive mansioni nell’equipaggio.

Bildad, che pure doveva essere interessatissimo alla transazione, sembrava non badare affatto a noi, ma biascicava tra sé e sé le parole del libro: “Non mettere da parte tesori su questa terra, dove il tarlo…”

– Be’, capitano Bildad, – interruppe Peleg- che spettanza dici che dobbiamo dare a questo giovanotto? –

– Tu ne sai più di me, – fu la risposta sepolcrale – la settecentosettantasettesima parte non sarebbe esagerata, mi pare? … e intanto bofonchiava assorto – “dove tarlo e ruggine corrompono…”

Parte da cani, pensai io, la settecentosettantasettesima parte! Vecchio Bildad, sei proprio deciso a fare in modo che io non abbia molto da mettere da parte in questo mondo corrotto e consumato da ruggine e tarli.

– Ma che ti scoppi la vista, Bildad, – gridò Peleg – non vorrai truffare questo giovanotto, tu ! Bisogna dargli di più ! –

-Settecentosettantasette, -ripeté Bildad bofonchiando le parole del libro, “…perché dove è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore…”

– Lo registro per la trecentesima – disse Peleg. – Capito, Bildad? La trecentesima spettanza, dico-

Bildad depose il libro e voltandosi solennemente a lui disse:

– Capitano Peleg, il tuo cuore è generoso, ma devi tenere a mente il dovere che hai verso gli altri proprietari di questa nave: molti sono vedove e orfani. Se noi compensiamo troppo liberamente i servizi di questo giovane, può darsi che dobbiamo togliere di bocca il pane a queste vedove e a quegli orfani. La settecentosettantasettesima spettanza, capitano Peleg!-

– Tu, Bildad! – ruggì Peleg, rizzandosi e strepitando per tutta la cabina, – maledizione! Bildad, se io avessi seguito il tuo consiglio in queste cose, avrei da anni indosso una coscienza tanto pesante da mandare a fondo il bastimento più grosso che abbia mai doppiato il Capo Horn. –

– Capitano Peleg, – disse Bildad fermamente – la tua coscienza può darsi che peschi dieci pollici d’acqua o dieci tese, non so, ma, dato che tu sei ancora e comunque un peccatore, capitano Peleg, ho una grande paura che la tua coscienza faccia acqua e che, alla fine, ti faccia colare a picco sprofondandoti nell’abisso dell’inferno, capitano Peleg. –

-Che abisso e abisso! Tu m’insulti oltre ogni limite: dire a qualsiasi creatura umana che è destinata all’inferno, questo sì che è un oltraggio abissale! Sangue di balena! Dillo di nuovo, Bildad, fa saltare i bulloni della mia anima e io…io… mi ingoierò un caprone con tutti i suoi peli, corna e tutto! Fuori dalla cabina, ipocrita figlio di un cannone di legno, fila via! –

Così urlando si precipitò addosso a Bildad, che lo schivò sgusciando di lato con agilità sorprendente.

Io, dubbioso per un imbarco su una nave gestita in quel modo, mi scostai, anche per lasciare il passo al malcapitato Bildad. Ma con mia sorpresa lui tornò a sedere placidamente e anche Peleg, ormai sfogatosi, si mise a sedere come un agnello nonostante un evidente affanno.

-Whew! sibilò alla fine- la burrasca è passata sottovento, Bildad, ma tu una volta eri in gamba ad affilare le lance: fammi la punta a questa penna ché il mio coltello necessita della mola…

-Dunque, giovanotto, come ti chiami? Ismaele, hai detto? Ebbene, Ismaele, firma qui per la trecentesima spettanza.

– Capitano Peleg, – dissi – ho con me un amico che vuole imbarcarsi anche lui, lo posso condurre qui domani? –

-Sicuro, – disse Peleg – portalo qui e gli daremo un’occhiata. –

-Che spettanza chiede? – gemette Bildad. levando gli occhi dal libro dove s’era di nuovo immerso.

– Oh, non pensarci, tu, Bildad – disse Peleg. – È mai stato alla caccia altre volte? – chiese a me.

– Ha ammazzato più balene che io non sappia contarne, capitano.

– Va bene, portalo dunque. –

Ma non feci molta strada, quando cominciai a pensare che il capitano con cui dovevo far vela mi rimaneva del tutto sconosciuto.

Ritornando sui miei passi, riavvicinai il capitano Peleg domandandogli dove avrei potuto trovare il capitano Achab.

– E che cosa vuoi tu, dal capitano Achab? È tutto a posto: sei imbarcato. –

– Sì, ma mi piacerebbe vederlo. –

-Giovanotto non sempre vuol vedere me, e non credo che voglia vedere te. È un uomo strano il capitano Achab, dice qualcuno, ma è un brav’uomo. Oh, vedrai che ti piacerà, non avere paura. È un uomo grande, non è religioso ma pare un dio. Il capitano Achab non parla molto, ma quando parla potete starlo ad ascoltare. Bada, sei avvertito tu: Achab è fuori del comune. Achab è stato all’università e in mezzo ai cannibali, è abituato a cose meravigliose, più profonde del mare, ha piantato la lancia in nemici più forti e più straordinari delle balene. La sua lancia! è la lancia più affilata e infallibile di tutta quest’isola! Oh, non è il capitano Bildad, lui, e nemmeno il capitano Peleg: lui è Achab, ragazzo, e nell’antichità, Achab, tu lo sai, era un Re coronato! –

– E anche piuttosto malvagio – dissi io- Quando quel re maledetto fu trucidato, i cani non leccarono il suo sangue? –

-Stammi ben a sentire, ragazzo! – disse Peleg con sulla faccia un’espressione che quasi mi fece paura -Non dire mai una cosa del genere a bordo del Pequod. Non dirlo mai, in nessun posto. Il capitano Achab non se lo è messo lui quel nome. È stato un capriccio stupido e ignorante di quella pazza di sua madre, che era rimasta vedova, e che morì quando lui aveva solo dodici mesi. Eppure, la vecchia squaw Tistig, a Gay Head, disse che quel nome si sarebbe in qualche modo dimostrato profetico. -Sì, sì, lo so che non è mai stato un tipo allegro e che l’ultima volta, nel viaggio di ritorno, è andato un po’ fuori di testa; ma erano gli acuti e lancinanti dolori del suo moncherino sanguinante a farlo comportare così. So che da quando durante questo viaggio ha perso la gamba per via di quella maledetta balena, è caduto in una specie di tetraggine … una tetraggine disperata, a volte selvaggia; ma tutto questo passerà. E lascia che io ti dica e ti assicuri una volta per tutte, giovanotto, che è meglio navigare con un bravo capitano anche se tetro piuttosto che con uno sorridente ma malvagio-

-E adesso ti saluto e non far torto al capitano Achab solo perché ha un nome infausto. Inoltre, ragazzo mio, ha una moglie … sposata da non più di tre viaggi … una ragazza dolce e rassegnata. Pensaci: da quella dolce sposa quel vecchio ha avuto un bambino. Credi dunque che in Achab ci possa essere qualcosa di male, qualcosa di grave e irreparabile? No, no, ragazzo mio. Anche ferito, anche fulminato, Achab conserva la sua umanità. –

Mi allontanai tutto impensierito; quello che mi era stato rivelato sul conto del capitano Achab mi faceva provare un confuso ma struggente senso di pena. In un certo senso sentivo allo stesso tempo simpatia e dolore per lui, ma non so bene per cosa, a meno che non fosse per la crudele perdita della gamba. E tuttavia sentivo anche uno strano timore reverenziale nei suoi confronti, un genere di timore che non riesco a descrivere in alcun modo, e che non era esattamente timore. Non so cosa fosse.

Alla fine i miei pensieri si volsero verso altre direzioni, e così, per il momento, l’oscuro Achab mi uscì di mente.

XVIII CAPITOLO
IL SUO SEGNO
Mentre camminavamo giù per l’estremità del molo verso la nave, Quiqueg col suo rampone in mano, il capitano Peleg ci apostrofò dal capanno indiano a gran voce forte, dicendo che non aveva mai s’immaginato che il mio amico fosse un cannibale e inoltre dichiarò che lui non tollerava cannibali a bordo della nave, a meno che non mostrassero prima le carte, i documenti.

– Sì. – sottolineò il capitano Bildad con la sua voce cavernosa, sporgendo la testa dal capanno dietro quello di Peleg. – Deve dimostrare che si è convertito, figlio delle tenebre.” – Poi, volgendosi a Quiqueg, aggiunse: – Sei tu in comunione con qualche chiesa cristiana?

– Sicuro, – dissi io – è un membro della Prima Chiesa Congregazionalista, anzi lui, Quiqueg è già diacono.

– La Prima Chiesa Congregazionalista! – gridò Bildad. ­ Come! quella che frequenta l’oratorio del diacono Deuteronomio Coleman?  Di’ su, dunque, davvero questo filisteo è un membro regolare della conventicola del diacono Deuteronomio? Non l’ho mai veduto entrarci e sì che ci passo tutti i giorni che ha fatto il Signore.

– Giovanotto- disse Bildad accigliato rivolgendosi a me- mi stai prendendo in giro? –

– Spiegati tu, o giovane ittita. Quale chiesa intendi dire? Rispondimi. –

Trovandomi così alle strette, risposi: – Intendo dire, signore, quella stessa antica chiesa cattolica a cui apparteniamo voi, io, il capitano Peleg, Quiqueg, e tutti quanti noi e ogni figlio di donna e ogni anima viva, la grande e sempiterna prima congrega di tutto questo mondo di Dio. Ad essa apparteniamo tutti, anche se qualcuno di noi coltiva qualche stravaganza che però non tocca affatto la fede generale. E in questa ultima ci diamo tutti la mano-

-Ci giungiamo, vuoi dire, ci giungiamo le mani? – urlò Peleg avvicinandosi. -Giovanotto, faresti meglio a imbarcarti come missionario invece che come marinaio semplice. Non ho mai sentito un sermone migliore. E il diacono Deuteronomio… ma che dico, neanche padre Mapple, che non è uno da poco, non saprebbe parlar meglio.

-Vieni a bordo su, e lascia perdere le carte. Aspetta, di’ a Quohog là, com’è che si chiama? Dì a Quohog di salire anche lui. –

-Corpo di mille ancore, quello sì che è un rampone. Un’ arnese di prim’ordine, direi, e sa anche tenerlo in mano. Dico a te, Quohog, o come ti chiami, sei mai stato a prua di una lancia? Hai mai colpito un pesce? –

Con quel suo fare da selvaggio, senza dire parola, Quiqueg saltò sulla murata e da lì sulla prua d’una lancia che pendeva alla banda. Poi puntò il ginocchio sinistro, bilanciò il rampone, e urlò qualche cosa che poteva significare:

-Capitano vedere piccola goccia catrame laggiù su acqua, vedere? Bene, pensare lei occhio di balena … via! – E, prendendo la mira, in un attimo scagliò il ferro proprio al di sopra del cappellaccio di Bildad, dritto attraverso la coperta.

La goccia brillante di catrame sparì.

– Ora – disse Quiqueg ritirando tranquillamente la sagola -lei occhio di balena? Ecco, balena là, morta! –

-Fai presto, Bildad, – disse Peleg al socio, che atterrito dal rampone volante che l’aveva sfiorato, si era ritirato verso la cabina. – Bildad, dico a te, fai presto, va’ prendere un contratto. Dobbiamo mettere questo Hedgehog, Quohog, voglio dire, in una delle lance. -Senti, Quohog, ti diamo la novantesima parte, ed è più di quanto abbiamo dato finora a qualsiasi ramponiere di Nantucket-

Così andammo giù in cabina, e con mia grande gioia Quiqueg venne arruolato nella ciurma della mia stessa nave.

Quando Peleg ebbe preparato tutto per la firma, si rivolse a me: -Penso che Quohog non sappia scrivere, mi sbaglio? Dico a te, Quohog, dannato! Firmi col tuo nome o fai un segno? –

Prendendo la penna che gli offrivano, copiò sulla carta al posto giusto l’esatta riproduzione di una bizzarra figura che aveva tatuata sul braccio, cosicché attraverso l’ostinato errore del capitano Peleg riguardo al suo nome, risultò uno scarabocchio col disegno e, sotto, scritto da Peleg, Quohog.

Il capitano Bildad intanto fissando Quiqueg con occhio fermo e severo cavò dalle immense tasche un fascio di opuscoli e, scegliendone uno intitolato “Arriva l’Ultimo giorno e non c’è tempo da perdere”, lo mise in mano a Quiqueg e lo fissò intensamente negli occhi e disse: -Figlio delle tenebre, ti scongiuro, non restare sempre schiavo di Belial. Sdegna l’idolo Bell e il dragone abominevole, fuggi l’ira che verrà. Oh! misericordia divina! Governa al largo dal precipizio! –

– Basta Bildad, piantala. Basta di rovinare il nostro ramponiere- gridò Peleg. –I ramponieri devoti non sono mai stati buoni cacciatori se dentro non sono un po ’squali, un ramponiere non vale un soldo se non è un pescecane-

Peleg, Peleg! –disse Bildad alzando occhi e mani – tu stesso come io stesso hai visto molti pericoli; tu lo sai, Peleg, cosa vuol dire avere paura della morte; come puoi sproloquiare in questo modo così empio? …Ma dimmi quella volta che eri secondo con Achab, non hai pensato alla Morte e al Giudizio in quei momenti? –

– Ma sentitelo, sentitelo tutti. Quando ci pareva di affondare da un momento all’altro! La Morte e il Giudizio in quei momenti! … No, non c’era il tempo di pensare alla morte in quei momenti. Alla vita pensavamo, il capitano e io, a come arrivare al porto più vicino: a questo pensavamo e a salvare tutti quanti-

Bildad non disse altro. Si abbottonò il gabbano e uscì in coperta a grandi passi.

CAPITOLO XIX
IL PROFETA
-Compagni marinai, vi siete imbarcati su quella nave? –

Quiqueg e io avevamo lasciato allora il «Pequod» e ci allontanavamo lentamente dall’acqua, ciascuno assorto nei propri pensieri, quando ci vennero rivolte quelle parole da uno sconosciuto che, fermandosi davanti a noi, puntò un grosso dito indice verso il bastimento.

Era miseramente vestito d’una giubba scolorita e con calzoni rappezzati, un cencio di fazzoletto nero gli avvolgeva il collo.

– Vi siete imbarcati su quella nave? – ripeté.

– Volete dire il “Pequod”, immagino, – dissi io cercando di guadagnare ancora un momento per osservarlo meglio.

– Sì, – soggiunsi – abbiamo firmato ora il contratto.

– Non c’era niente negli articoli intorno alle vostre anime? non l’avete ancora veduto Vecchio Tuono, vero?

– E chi è Vecchio Tuono? – dissi. –

– Il capitano Achab. –

– Il capitano della nostra nave, il «Pequod»? –

– Sì, qualcuno di noi, vecchi, lo chiama così. Non l’avete ancora veduto? –

– No, non ancora-

– Col dito puntato come una baionetta e l’occhio diretto al «Pequod» lo sconosciuto cencioso stette un momento come in una angosciosa visione poi, trasalendo, si voltò e disse:

-Vi siete imbarcati, voi? I vostri nomi sono sulle carte? Bene, quel che è firmato è firmato, e quel che deve essere, sarà; e poi, ancora, dopo tutto forse non sarà. Comunque è già tutto fissato e disposto e qualcuno bisogna pur che vada con lui, che sia l’uno o l’altro! Che Dio ne abbia misericordia!

-Salute, marinai: che il Cielo ineffabile vi benedica-

-Andiamo, Quiqueg, piantiamo questo matto. –

-Ma, aspettate, ditemi il vostro nome, se non vi di spiace. –

-Elia-

CAPITOLO XX -XXI – XXII
TUTTI IN MOVIMENTO – CI SI IMBARCA – UN BUON NATALE
Un giorno o due passarono, e a bordo del «Pequod» c’era una grande attività.

Succede nella caccia alle balene, che costringe a tener casa per tre anni sull’oceano immenso, lontano da tutti i droghieri, fruttivendoli, dottori, panettieri e banchieri. E sebbene questo sia anche vero per i bastimenti mercantili, pure in nessun caso è tanto vero come per i balenieri. Di qui, le lance di scorta, pennoni di scorta, lenze e ramponi di scorta e quasi ogni cosa di scorta, tranne un capitano di scorta e un duplicato di nave.

Al momento del nostro arrivo nell’isola, lo stivaggio più pesante del «Pequod» era stato pressoché terminato; compresi carne, pane, acqua, combustibile e cerchi e doghe di ferro.

Finalmente venne annunciato che, il giorno seguente a un’ora imprecisata, la nave sarebbe sicuramente salpata. – Verso mezzogiorno, spediti definitivamente gli attrezzatori del bastimento, il «Pequod» fu scostato dalla banchina.

L’àncora fu finalmente a posto, le vele spiegate e scivolammo via.

Fu un Natale corto e freddo e, quando il breve giorno nordico si confuse nella notte, ci trovavamo quasi al largo su un oceano invernale i cui gelidi spruzzi ci rinserravano nel ghiaccio come in una armatura lucente. Le lunghe file di denti sulle murate rilucevano alla luna e, simili alle zanne bianche d’avorio di un qualche grosso elefante, grandi ghiaccioli ricurvi pendevano a prora.

Non c’era ancora alcuna traccia visibile del capitano Achab, di lui soltanto, dicevano, che era nella cabina.

Alla fine giungemmo tanto al largo che dei due piloti Bildad e Peleg non ci fu più bisogno. La robusta barca a vela che ci aveva accompagnati cominciò ad accostarsi alla banda. Fu un fatto non spiacevole e curioso quando Peleg e Bildad si commovessero in questa circostanza, specialmente il capitano Bildad.

Nave e barca si scostarono; la fredda e umida brezza notturna soffiò tra loro, un gabbiano volò in alto stridendo, i due scafi rollarono paurosamente, noi lanciammo col cuore pesante tre urrà e ci tuffammo ciecamente come il Fato nell’Atlantico selvaggio.

2. Continua


La traduzione del romanzo di Herman Melville è di Alessandro Macchi. Le fotografie originali sono di Roberto Cavallini.

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