Daniela Matronola
A proposito di "Scisma"

Parole per riemergere

Il nuovo libro di Ilaria Palomba, tra prosa e poesia è la dichiarazione di una dissidenza e riappropriazione, di una dissociazione dalla irresistibile forza di trascinamento cui è eroico anche solo ipotizzare di sottrarsi

Non molto tempo fa un amico scrittore che è anche docente di scrittura (creativa, come usa dire) espose pubblicamente una sua idea pratica e suggestiva insieme della poesia proprio intesa come scrittura, come scelta di campo, come genere letterario, come composizione sulla pagina. Disse che l’aspetto specifico e, pure, in fondo, più curioso della poesia consiste nel fatto che le aggregazioni di parole sono isole rade nel mare delle pagine quasi inviolate. Cioè gli elementi di scrittura, in poesia, sono rari rispetto allo spazio vasto e semivuoto che invece la prosa tende a colmare fin negli angoli. E dopotutto ho poi riscontrato l’esattezza di questa analisi semiologica leggendo Roberto Masi, poeta e prosatore toscano, il quale si muove tra versi e prose (non sempre e non solo poetiche, spesso anche filosofiche o sapienziali) con grande profluvio di suggestioni e argomentazioni.

Una lunga premessa per cominciare ad approssimarci a una lettura possibilmente compiuta di Scisma di Ilaria Palomba (Les Flâneurs, 166 pagine, 14 Euro), partendo da una considerazione: soprattutto la poesia come modo di scrittura è dopotutto una forma di emersione, un affioramento che (non intendo in chiave freudiana) presuppone l’esistenza profonda di un iceberg sommerso di cui percepiamo visivamente solo la sporgenza. Può sembrare un’indicazione riduttiva, viceversa è un suggerimento di portata potenziale.

In Scisma – che non fatichiamo a definire tecnicamente prosimetro visto che i testi che lo compongono, suddivisi in otto parti, affiancano pagine in versi a pagine in prosa – Ilaria Palomba apparentemente tiene il suo diario da degente che deve fare i conti con traumi che convocano la sua percezione e sensibilità e auto-coscienza ad un confronto serrato col corpo e coi Träumen o sogni che infestano la sua Vita Nova popolata anche da figure e fantasmi che si muovono nella nebbia del reale in cui si è inaspettatamente risvegliata.

Il processo registrato sulla pagina non è solo di appercezione, di riapprendimento del sé fisico tutto nuovo ma è soprattutto l’esplorazione di un bilico, di uno stato di oscillazione, di una specie di terra di nessuno in cui l’io tematizzato e contraddetto, in realtà discusso e capovolto, perviene a una riproposizione, la cui più calzante conquista, quasi aforistica, passa attraverso un diktat autoimposto: rinuncia al tuo nome.

Non siamo affatto nel lirismo shakespeariano pronto a naufragare in tragedia. Siamo all’indomani di una tragedia sventata il cui esito non è (solo) la vittoria dell’esistenza biologica sulla volontà negativa, anzi che si auto-nega, ma ci troviamo in una insperata rinascita che deve tenere insieme due entità distinte ora incise nelle ferite del corpo e radicate nel lavorio della mente che prova a conoscere di nuovo un sé composito.

Anche in questo senso, questa dualità che non è tanto oppositiva quanto positiva poiché reale ed esistente a dispetto di tutto, mentre prova a tenere insieme le parti che cadono ovunque, è il motore che concilia due registri formali: tra una versificazione che tradisce una vocazione verso la prosa documentata in specie da enjambements che a volte sospendono un filo fragilissimo tra un articolo o una preposizione articolata e il termine relativo, e una prosificazione (mi si passi questo termine che non ricorre per niente) che, come nel dettato di Proust per esempio, ha un suo ritmo, una sua scansione, cioè contro ogni apparenza e nella sostanza versifica.

Si potrebbero citare passaggi numerosi che attestano quanto ho cercato di spiegare.

Ne infilo qui (proditoriamente solo due, anche un po’ asciugati, per farli risaltare meglio).

Giorno 49 (prosa)
[…] Siamo una moltitudine di solitudini. Li ho guardati qualche volta negli occhi.
Erano i restituiti. […] Come sei finita dentro il tumulto? L’ospedale aveva enormi
fauci e masticava i nostri corpi.
[…]
Come sei finita?
Un pensiero fecondo mentre muovo la gamba cattiva. […] Nulla si può sospendere
se non l’attesa.

Giorno 66
Perderai la voce o
riprenderai a sentire.
Tutto manca di quel
getto che inonda
di luce la parte più
oscura del volto.
Perderai la chiave.
Traslucida appare
l’evanescenza
nel gioco dei pesci
prima dell’entrata.
Non raccontarmi più
il mito dell’inverno.
Torneremo alla
vita in silenzio.

Qui troviamo il verso epigrafico, e poi questo gioco di persone – io, tu, noi – che è decisamente la manovra di riunione dell’Io all’IO o viceversa, come una prassi di riassemblaggio che implica uno spostamento fisico, un migrare di cellule. È davvero la proiezione di una danza di ricomposizione: e si attiva, fulminea, una nota fotografia di Lucia Joyce, figlia di un genio, innamorata di un genio, allieva di un genio, paziente di un genio, che nel costume da sirena ha una postura insieme selvaggia e leggiadra (come ci racconta Francesca d’Aloja in Corpi speciali).

Nel nostro caso siamo fortunati: il genio è Ilaria Palomba, che, come sempre, dunque anche in questo libro così strenuo ed estenuato, a suo modo estremo eppure non finale, trova una felicità di scrittura che si addensa nella semplice centratura della parola, in una espressione ad ogni passo piena e allo stesso tempo atto di imperio stravagante e potente. Tanto che interi versi come periodi completi andrebbero trascritti, riportati senza tagli, e chiosati. Una cosa è certa. Non conta niente il cosiddetto atteggiamento poetico poiché non in esso si compre la poesia (che di versi o di prosa, o di tutti e due come qui, si tratti, beninteso) ma proprio nella centratura della voce sulla parola, dimostrazione apodittica del senso irrinunciabile e autentico del poetare.

La scrittura è un tessuto che incorpora (come sappiamo) trascrizioni dalla tradizione ad opera di chi è poeta ora: è una felice crasi, è contaminatio e metodo mitico, con molto di placido e antico, e allo stesso tempo è il documento di un poetare tumultuoso in cui scorre l’esperienza mentre si rianima l’autorialità.

È un antico-moderno in cui il dato vero non è tanto una conciliazione di opposti quanto la loro paradossale – immanente – convivenza (una convivenza di fatto) che apre il testo a un valore speculativo di referto dell’esistenza la quale si dimostra più ostinata del baratro, più forte e resistente dell’abisso in cui a viva forza l’autrice vorrebbe ricacciarsi, salvo essere risospinta in superficie ed esposta a una ribalta, alla scena nuda, e aperta, che è (puramente) la vita.

La scrittura ne è felice (ripeto) corollario, e per paradosso (di nuovo) dimostrazione volumetrica.

La sostanziale asciuttezza del dettato fornisce un’evidenza attuale risuonando in funzione perenne di centratura e compendio. E l’io qui non è ripetitivamente lirico, ma è un IO tranciato e reincollato (questo è il processo, incessante e risolutivo, certamente risultante) e smagato, ancora accorato e già prossimo a una impassibilità implacabile verso sé stesso.

Scisma a dispetto di tutto è la riaffermazione di una cittadinanza e di una territorialità.

È la dichiarazione di una dissidenza e riappropriazione, di una dissociazione dalla irresistibile forza di trascinamento cui è eroico anche solo ipotizzare di sottrarsi.

Scisma detta la strada che colma la distanza tra l’anti-volontà di trarsi fuori precipitandosi e, per colmo di ventura, il tornare indietro. Non è dunque traguardo ma via intermedia, tragitto letterario, stesura di una mappa costellata di nodi e snodi, di piccole soste da cui trovare come riavviare il cammino.

Neppure l’inizio: la situazione. Cioè: stare dentro, autentica condizione esistenziale.

Esemplare, su tutti, il testo a pagina 147 (Giorno 85): poesia in assetto di prosa, asserragliata.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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